Non solo pandemia, mascherine e contagio. Anche congiunti è stata una parola chiave del 2020, almeno nel dibattito pubblico italiano. E diciamo la verità, tra definizioni insidiose che spaziano da amico vero a parente stretto, chi sia un congiunto ancora nessuno l’ha capito davvero.
Una delle riflessioni più interessanti e condivise è stata quella sull’iper-famiglia della giornalista Annalisa Camilli. Il concetto di iper-famiglia mette in luce tutti quei rapporti indispensabili per i diretti interessati, ma raramente riconosciuti a livello istituzionale.
Un fatto che ha però implicazioni importanti soprattutto per gli individui più deboli: anziani soli, persone LGBTQ+, singles e stranieri. Questi ultimi, non vantando diritti di sangue, vedono ancora una volta inasprirsi la loro condizione di outsiders; e non si tratta solo dei migranti più poveri o dei richiedenti asilo, ma anche di expats, studenti in mobilità e perfino connazionali fuori-sede che si trovano intrappolati in un comune destino di estraneità ed immobilità burocraticamente imposte.
Alla fine del primo grande lockdown nazionale, quando sono state consentite le visite ai congiunti, per scherzo mi sono inginocchiata e ho chiesto al mio partner, vero local nella città in cui viviamo, di sposarmi. Io mossa dal desiderio di potermi muovere con un maggiore grado di libertà, mentre lui ha deciso impietosamente di negarmi il privilegio di un robusto e tradizionale status familiare. Una condizione forse meno diffusa ma più emblematica e difficile è quella delle tante coppie trans-nazionali che, impossibilitate a incontrarsi per mesi, hanno lanciato la campagna Love Is Not Tourism per difendere il diritto all’amore e perché, come diceva sempre una mia amica, l’amore è un bene comune.
Al di là della discussione su un effettivo o presunto livellamento nei diritti di circolazione e mobilità per individui con status e cittadinanze diverse, pochi hanno notato come in termini generali questo processo rinforzi, anche solo inconsciamente e simbolicamente, il nesso vincolante tra sangue e territorio tanto caro alle destre identitarie e sovraniste.
Durante l’emergenza sanitaria, il nativo è il solo la cui sfera emotiva e privata sia ritenuta degna di attenzione da parte della politica, ne deriva una particolare forma di riconoscimento, negata a chiunque non faccia parte della comunità locale.
Ricostruire il dibattito sui congiunti ci aiuta a ribadire ancora una volta che l’epidemiologia e le scienze mediche, la statistica e l’etica dei big data, gli studi sulla tenuta macroeconomica e l’innovazione tecnologica da sole non esauriscono lo spettro di esperienze umane della pandemia. Insieme a psicologia e sociologia, l’antropologia ha studiato dettagliatamente tutte quelle micro-pratiche che tengono insieme il nostro universo mentale, sociale e materiale e si è dedicata con caparbietà e ostinazione a documentare tutto ciò che ad altri sembrava irrilevante o aneddotico, incluso feste, riti, forme della parentela e interazioni sociali di prossimità in generale.
Impegnati a studiare la risposta agli incendi che hanno sconvolto l’Australia e la convergenza temporale di questa crisi con lo scoppiare della pandemia, gli antropologi Fergie, Lucas e Harrington hanno messo al centro della loro riflessione la sovrapposizione tra l’atto del respirare e l’organizzazione della vita famigliare.
Durante gli incendi l’aria è irrespirabile, gli studiosi osservano come questo stato di calamità moltiplichi le occasioni di intimità: condividere le proprie abitazioni con famigliari e amici o abbracciare uno sconosciuto in difficoltà diventa normale.
Con il Covid-19 questa vicinanza diventa tutto a un tratto pericolosa e sconveniente, le persone tornano a rifugiarsi all’interno dei più ristretti nuclei domestici, la condivisione di uno spazio chiuso e dell’aria che circola al suo interno creano un’intimità esclusiva e invalicabile.
In conformità con altre ricerche, Fergie, Lucas e Harrington individuano la grand parents family, la famiglia dei nonni insomma, come la struttura famigliare più diffusa in Occidente.
La perdita dell’unità residenziale e il formarsi di nuovi nuclei (che sempre meno corrispondono alla tradizionale coppia di coniugi eterosessuali) non dà vita a famiglie isolate, ma ad un’intricata rete di rapporti di parentela, alla cui base spesso si trova la presenza o meno di nonni e bambini. Nel loro caso di studio fanno l’esempio delle case di villeggiatura in cui le famiglie allargate si incontrano e convivono per qualche settimana, spesso di proprietà dei genitori-nonni e frequentate molto di più dai figli con prole.
Lo studio si conclude con un’importante considerazione. Solitamente in situazioni di crisi la famiglia non residenziale rappresenta un’istituzione centrale per la sopravvivenza e la resilienza dei singoli individui. Il supporto che questo network offre non è solo economico, ma anche pratico ed emotivo.
Il welfare famigliare è un fenomeno centrale per il funzionamento delle nostre società, soprattutto di quella italiana, con i nonni e le donne in generale che forniscono gratuitamente servizi indispensabili ai loro cari. La pandemia ha reso in buona parte impossibile adottare questo tipo di risposta alla crisi; imponendo una forte limitazione non solo alle occasioni di incontro tra famiglie collegate da rapporti parentali o amicali, ma anche a tutta una serie di abitudini che organizzano la vita materiale e simbolica delle persone.
Feste, cerimonie e celebrazioni religiose sono fatti sociali in cui è possibile osservare una simile organizzazione “modulare” della vita famigliare.
Per esempio, a casa mia la partecipazione a pranzi e cene di Natale è scandita da un intricato bilanciamento tra il desiderio di stare insieme e i limiti imposti dagli spazi a disposizione. Da quando sono nati i figli dei miei cugini, non si festeggia più il 24 e il 25 tutti insieme.
I miei zii, che prima gravitavano nella grand parents family che condividevano con mia mamma, sono diventati nonni a loro volta. Questo processo è controbilanciato da un pranzo il 26 dicembre dove mia mamma e i suoi fratelli si ritrovano e in cui è prevista anche la partecipazione dei coniugi, la mia e quella degli altri cugini senza figli a carico.
Per me è una ricorrenza piacevole ma anche un po’ faticosa, perché passo la notte del 25 a festeggiare il Natale Anticlericale alla Cascina Torchiera, storico spazio occupato di Milano, un evento che fino ad oggi ho sempre considerato irrinunciabile per riaffermare e godere della mia identità sociale.
Sempre per ribadire la fluidità e la capacità di agency che esercitiamo sui rapporti famigliari, nonostante questo tema sia stato accantonato in favore di un’analisi più generale.
Rituali e festeggiamenti possono essere pubblici o privati, alcuni hanno ripercussioni soprattutto sulla creazione di rappresentazioni identitarie relative al sé e ad un ristretto noi (per esempio i tradizionali riti di passaggio all’età adulta o le pratiche culturali ed estetiche delle sub-culture urbane), altri hanno una vera e propria funzione di collante sociale (si pensi alle grandi cerimonie religiose o alle feste nazionali).
Forse nel mezzo si trovano matrimoni e funerali, riti su cui il Covid-19 ha avuto ripercussioni fortissime proprio perché in queste occasioni la vita pubblica e quella privata si mescolano fino a confondersi.
Nonostante il trauma vissuto da chi non ha potuto dare un ultimo saluto ai propri cari, niente colpisce di più il nostro orizzonte di senso delle limitazioni imposte per il Natale. Questa festa è dotata di un potere evocativo straordinario e rappresenta la più emblematica manifestazione rituale della culturale occidentale e del suo potere egemonico. Ma non fraintendetemi, a me piace festeggiare il Natale.
Nel bene o nel male, è una delle poche ricorrenze capaci di influire sullo stato d’animo della popolazione mondiale, che diventa mediamente più felice e ottimista in questo periodo dell’anno. O almeno è quanto emerge da alcuni studi che interpretano i sentimenti espressi dagli utilizzatori dei social media attraverso tecniche quantitative di analisi dei contenuti testuali.
La pandemia ha davvero stravolto le nostre vite. Ancora una volta le famiglie non hanno potuto incontrarsi per celebrare i loro riti e molti giovani non sono tornati a casa per le feste. Contemporaneamente però piccole e inaspettate celebrazioni sono state improvvisate tra coloro rimasti in città da soli, magari è stato invitato a casa quell’amico che non è potuto partire.
Se da una parte il Covid-19 ha rinforzato la separazione tra nuclei famigliari artificialmente costruiti, la stessa situazione può aver favorito la formazione di nuovi legami. Perché ogni crisi porta con sé una certa riorganizzazione della vita sociale.
Questo articolo non è un invito a dare priorità incondizionata alle nostre esigenze relazionali, né tratta dei comportamenti consigliati per evitare il contagio, né auspica che certi cambiamenti nei nostri stili di vita siano duraturi. Più semplicemente, il suo obiettivo è mostrare come il sapere antropologico potrebbe essere utilizzato per creare delle rappresentazioni condivise degli eventi e degli impedimenti dell’ultimo anno, aiutandoci a sanare molti dei traumi e dei non-detti accumulati, fatto già di per sé non secondario.
Spingendosi ancora più in là, l’antropologia potrebbe addirittura essere applicata nella formulazione di politiche più attente alle esigenze delle persone, la cui esperienza è molto più complessa e ricca di significati degli indicatori che da essa è possibile estrapolare. Per esempio, grandi passi avanti sono stati fatti nel riconoscimento dell’antropologia della medicina e della malattia al fine di rendere i servizi sanitari più accessibili e inclusivi, favorendo la comunicazione tra medico e paziente e la riconciliazione del biologico con l’umano.
Però quando si parla di Covid-19 le discipline antropologiche rimangono inspiegabilmente escluse dal dibattito pubblico, anche in quei contesti (sempre troppo pochi) in cui si parla delle conseguenze psicologiche, cognitive ed emotive della pandemia.
Peccato, perché nessuna altra scienza è altrettanto utile per imparare a vedere quanto il politico e il privato siano in fondo la stessa cosa. Parlare di riti, feste, famiglie, amore e amicizia è importante, non solo a Natale.