Per una rappresentazione del conflitto arabo israeliano

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3 Febbraio 2022

Uno sguardo tra le maglie della complessità delle dinamiche dell’occupazione

Viene qui espresso un punto di vista esterno, dal momento che chi scrive non vive in Israele anche se, in questi ultimi dieci anni, vi ha condotto ricerche nelle scuole arabo israeliane, oltre che sui Drusi del Carmelo e del Golan e ha tenuto a Gaza corsi di formazione rivolti alle infermiere e agli infermieri psichiatrici, alle insegnanti e agli insegnanti.

Dall’esterno tuttavia si possono vedere cose che chi è all’interno non vede, come si evidenzia quando si interviene in istituzioni come le scuole o gli ospedali.

Questo conflitto, che persiste dal 1948 senza soluzioni di continuità, emerge a tratti con drammaticità tale da conquistare i primi posti nell’agenda dei mass media occidentali, venendo poi dimenticato quando lo ‘spettacolo’, ad esempio dei bombardamenti su Gaza e dei missili lanciati da Gaza, finisce. Dimenticato, anche se ci coinvolge per le sue possibili conseguenze e, prima, per le sue cause che affondano le loro radici nella vecchia Europa.

Nello stesso tempo, l’opinione pubblica, più propriamente la “rappresentazione sociale” (Serge Moscovici, Le rappresentazioni sociali, Bologna, il Mulino, 2005) di questo conflitto diffusa nei paesi democratici è rilevante per la sua possibile influenza e ancor più in quanto capita che veicoli il mostro dell’antisemitismo, antico, mai scomparso, pronto a riemergere specie nei periodi di crisi; coprendosi talora con un sentire che vorrebbe essere di sinistra, in quanto trainato da un giudizio indiscriminatamente negativo sullo Stato di Israele.

Gli scenari del conflitto sono diversi anche se tra loro interdipendenti. Lo scenario più ampio o, come si dice, globale coinvolge i rapporti tra Israele, con il suo protettore Statunitense, e i paesi islamici. A livello regionale vi è la tensione tra Israele e i Territori – lo stesso termine usato per le riserve indiane nel Nord America – Palestinesi della West Bank e di Gaza. Infine, il conflitto interno allo Stato di Israele, anch’esso continuo, latente, con momenti di emergenza o ‘spettacolari’, dalle intifada e dagli attentati più frequenti nel passato ai recenti scontri nella spianata delle moschee a Gerusalemme, la “città della pace”.

Per tentare di comprendere questo conflitto nel suo complesso bisognerebbe tener presente che la sua causa prima è di tipo economico, ovvero rinvia alla spartizione di risorse: all’inizio la terra e l’acqua, attualmente in primo luogo le importanti riserve di gas e petrolio nel Mediterraneo, di fronte a Gaza e al confine con il Libano. Una conferma della teoria di Carolyn Wood Sherif e Muzafer Sherif (Groups in Harmony and Tension. New York: Harper Row, 1953) sul “conflitto realistico”: i conflitti tra i gruppi sociali di qualsiasi tipo e dimensione sono originati dalla spartizione di risorse.

Partendo da questa base strutturale i conflitti assumono aspetti etnici, culturali, religiosi che finiscono con l’apparire, e in parte effettivamente diventano, prevalenti; infatti, il conflitto arabo israeliano viene rappresentato anche, se non prevalentemente, come uno scontro tra il Medio Oriente islamico e l’Occidente giudaico cristiano.

Nello stesso tempo per comprendere le modalità del conflitto bisogna ricordare che i palestinesi sono vittime di altre vittime. La storia e la memoria collettiva sono di lunga durata e i comportamenti dello Stato di Israele e degli israeliani possono essere spiegati dalla storia del popolo ebraico e più immediatamente dalla Shoah.

Se chiedete agli israeliani perché non si preoccupino degli effetti che possono avere all’estero sulla opinione pubblica, sui leader e sui governi occidentali, a esempio, da ultimo, i bombardamenti su Gaza con l’uccisione di persone, di bambini che nulla hanno a che fare con Hamas e che anzi sono esse stesse vittime di Hamas, in diversi vi risponderanno che non capiscono perché dovrebbero preoccuparsi di quello che pensano “gli altri all’estero” dal momento che “all’estero”, negli Stati Uniti e in Europa, ben si sapeva cosa succedeva in Germania e in Italia negli anni Trenta del secolo scorso, ben si sapeva dei campi di concentramento e di come funzionavano – le foto aeree esistevano anche allora – e nessuno fece nulla, né i civilissimi cittadini dell’Occidente, né il Papa, né Roosevelt, il Presidente democratico degli Stati Uniti; i quali ultimi anzi impedirono l’arrivo di ebrei dall’Europa orientale e rimandarono indietro una nave carica di migranti che cercavano di fuggire dall’orrore.

La stessa aggressività bellica di Israele può essere almeno in parte spiegata come una reazione alla accusa mossa agli ebrei, in primo luogo da altri ebrei, di aver subito passivamente, da imbelli, le persecuzioni, comportandosi come agnelli sacrificali: una colpevolizzazione delle vittime generica, paradossale quanto consueta. Più in generale si ripete in Israele un noto processo psichico: le vittime fanno subire agli altri quello che loro hanno subito. Chi è stato educato subendo punizioni corporali infliggerà punizioni corporali a chi può appena può. Gaza è un ghetto, i campi profughi nella West Bank sono dei ghetti, i beduini, e non solo loro, sono costretti a vivere in dei ghetti.

Tuttavia, se ci si riferisce ai tre diversi scenari sopra indicati, è il conflitto interno allo Stato di Israele quello che fa emergere delle contraddizioni sulle quali è opportuno riflettere.

Tale conflitto coinvolge principalmente i rapporti tra lo Stato di Israele e quei suoi cittadini di secondo ordine che sono gli “arabo israeliani”, come devono essere chiamati i palestinesi che vivono nei confini dello Stato per negare la loro identità palestinese e separarli dagli altri palestinesi con le parole che possono essere più divisive dei muri.

Cittadini di secondo ordine ovvero un “gruppo minoritario o svantaggiato” (K. Lewin, I gruppi minoritari o svantaggiati in La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, il Mulino, 2005, 293-320; ed. or. 1946) peraltro non omogeneo.

Ne fanno parte gli “arabo israeliani” islamici e (sempre meno) cristiani; i beduini, in grande maggioranza chiusi in un orgoglioso isolazionismo, cacciati dal deserto del Neghev dall’avanzata di coltivazioni esogene, costretti a una residenzialità coatta e degradata; e inoltre i gruppi entici minori arrivati in Palestina dall’Africa e dal Caucaso ai tempi dell’Impero Ottomano. Senza dimenticare i Drusi del Golan che dal 1967 vivono in un indefinito Limbo istituzionale, non islamici, non palestinesi, non siriani anche se molti tra loro si sentono tali, non cittadini dello Stato che li ha inglobati, minacciati, come i palestinesi della West Bank, da un numero programmaticamente crescente di insediamenti di coloni israeliani; separati non solo geograficamente dai Drusi del Monte Carmelo che al contrario si sono integrati nello Stato Israeliano facendo il servizio militare e, diversi tra loro, la carriera militare.

Tuttavia, la situazione interna allo Stato di Israele presenta appunto delle contraddizioni tali da falsificare qualsiasi rappresentazione manichea. Da una parte i cittadini di secondo e terzo ordine, i diversi gruppi “minoritari” in diversa misura “svantaggiati”, continuano a essere discriminati in un sistema in buona misura di apartheid e di capillare controllo poliziesco, con episodi di ribellione repressi con carcerazioni, distruzione di case, espropri. Dall’altra bisogna riconoscere alcuni fatti.

In primo luogo bisogna riconoscere che Israele in Medio Oriente è l’unica democrazia di tipo occidentale; con tutti i limiti e i difetti di queste democrazie, a partire dall’essere tutt’altro che democratiche – rispettose dei diritti del demos, a iniziare dal diritto alla vita – verso l’esterno, nel caso di Israele in primo luogo verso Gaza e la West Bank, e verso quelli che vengono considerati estranei o ‘altri’ anche se vivono all’interno dello Stato democratico: gli afroamericani negli Stati Uniti, gli arabo israeliani in Israele.

Va riconosciuto tuttavia che, nonostante i loro gravi limiti, al momento, le democrazie di tipo occidentale possono essere considerate la miglior forma di governo conosciuta; e non si tratta di uno stereotipo o di un luogo comune in quanto i regimi democratici hanno ricadute positive per tutti, anche per i cittadini di secondo ordine, nonostante il persistere di limiti e discriminazioni. Si pensi in primo luogo ai sistemi giudiziari che nelle democrazie offrono comunque maggiori garanzie. Un arabo israeliano, per una causa civile o anche penale, preferirebbe andare in giudizio in un tribunale israeliano o in tribunale, egiziano, iraniano, saudita… ?

Inoltre, nel caso specifico di Israele, bisogna riconoscere l’eccellenza della sanità pubblica e degli ospedali, e che in questo settore non c’è nessuna forma di discriminazione verso i cittadini arabi: negli ospedali i pazienti vengono tutti trattati come tali indipendentemente dalla etnia; infatti i familiari, i genitori se si tratta di bambini, condividono il dolore e la speranza superando separazioni e conflittualtà.

Il sistema scolastico statale è particolarmente emblematico delle contraddizioni alle quali qui si fa riferimento. Le scuole arabo israeliane, oltre a essere separate dalle scuole pubbliche israeliane – separazione non solo accettata ma voluta dalla grande maggioranza degli arabo israeliani – sono sottoposte al controllo delle autorità ministeriali ebraiche anche per quanto riguarda temi sensibili come i programmi di storia e letteratura. Nello stesso tempo, il rilevante investimento statale nell’istruzione (costantemente superiore a quello di Paesi come il Giappone, la Germania, il Regno Unito, gli USA, come evidenziato dalle statistiche OCSE) ha portato, a partire già dal 1948, a uno sviluppo esponenziale della scolarizzazione della popolazione araba, dai primi livelli alle scuole superiori.

Anche se permangono diseguaglianze, svantaggi, elevati tassi di dispersione scolastica, molti arabo israeliani completano il ciclo scolastico, diversi conseguono lauree in Medicina, Ingegneria, Psicologia… . Quello che è più importante, la scolarizzazione femminile, pressocché assente durante la lunga dominazione ottomana e il Mandato britannico, ha raggiunto gli stessi livelli della scolarizzazione maschile: un progresso rilevante per l’intera società palestinese per l’inserimento lavorativo e sociale delle donne, e in quanto dalle madri dipende l’educazione delle figlie e dei figli negli anni decisivi della prima infanzia.

Le condizioni di vita degli arabo israeliani in buona misura migliori se confrontate a quelle, oltre che dei palestinesi dei Territori, degli arabi del Medio Oriente e del Maghreb sono pagate da una buona misura di sofferenze passate e presenti, a partire dalla limitazione della libertà, dal doversi sentire stranieri indesiderati nella loro Patria. Sono tutt’altro che liberi dalla sofferenza i cittadini di primo ordine o di serie A dello Stato di Israele che sentono di vivere in una condizione continua di tensione e di precarietà.

Arafat osservava che la popolazione ebraica che vive in Israele è costituita da gruppi etnici tra loro molto diversi; e si chiedeva cosa potesse esserci in comune “a parte la religione”, ad esempio, tra un ebreo venuto dal Nord Africa e uno venuto dalla Polonia, concludendo che “solo la paura può riunirli”. Diversità accresciuta dall’arrivo di più di un milione di russi, prevalentemente di tradizione cristiano ortodossa , in fuga dall’ ex Unione Sovietica.

Come sempre e da sempre per rendere coeso un gruppo di qualsiasi entità, da una famiglia a una nazione, il nemico se non c’è va creato, se c’è va stabilizzato e ingigantito. Per mantenere coesa una popolazione molto differenziata sono necessari uno stato di belligeranza continua e appunto la paura del nemico, come riteneva Arafat. “A parte la religione”, un legame o vincolo che si connette, in modo emblematico nel caso ebraico, alla cultura, alla tradizione, al mito, alla memoria collettiva e individuale, alle identità collettiva e individuale; e che da quasi due millenni pervade profondamente e lega una popolazione dispersa per il mondo, tutti dai laici agli ortodossi, dagli aschenaziti polacchi ai sefarditi del Nord Africa.

Una religio, un legame, che aggrava e alimenta il conflitto, contrapponendosi alle altre due grandi religioni monoteistiche, del Libro: l’islamica in primo luogo e, con modalità diverse, la cristiana: “Tantum religio potuit suadere malorum” (Lucrezio Caro, De Rerum Natura).

Se le cose stanno così, non potendo durare indefinitamente un legame fondato sulla paura, questo conflitto continuo può abortire in un disastro che colpirebbe più duramente, come sempre succede, i più svantaggiati – tra gli ebrei quelli del Nord Africa, dello Yemen, dell’Etiopia – e i gruppi marginali come i Drusi del Carmelo , una minoranza religiosa, considerata collaborazionista dalla maggioranza degli Arabi.

Se si vuol provare a evitare il disastro, bisogna credere nella possibilità futura di una risoluzione del conflitto e fare di tutto per realizzarla: solo una “prospettiva temporale” più ampia, che includa un “futuro psicologico”, può rendere la situazione presente psicologicamente sopportabile per tutti quelli che si trovano a viverla, avviando un circolo virtuoso col motivarli alla ricerca della soluzione; processo che può essere inizialmente guidato da una “minoranza attiva”.

Come spiegava Lewin riferendosi alla situazione degli ebrei nella Germania nazista, e al gruppo sionista che indicò nella possibilità di una patria in Palestina una prospettiva futura (K.Lewin, La realtà, l’irrealtà, il futuro, in La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, il Mulino, 2005, 261- 269; ed, or, 1948).

Ricerca della soluzione che richiede delle precondizioni. Tra queste, il superamento di una “rappresentazione sociale” manichea del conflitto, con tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, che non fa vedere le differenze interne ai gruppi contrapposti

Sarebbe così un errore rappresentarsi tutti gli israeliani – se non tutti gli israeliti – come sostenitori e spettatori entusiasti dei bombardamenti su Gaza, non vedendo che tra gli israeliani vi sono gruppi con visioni contrapposte e significative divisioni politiche, come è stato spiegato in diversi articoli pubblicati su Left (numero 20, 21 maggio 2021).

Il fatto che quelli che credono in una convivenza costruttiva con i palestinesi possano essere una minoranza non diminuisce affatto la loro importanza dal momento che nella storia gli attori dei cambiamenti più radicali sono sempre state le “minoranze attive” (Moscovici, A propos des recherches sur l’influence des minorités actives, Barcellona, Ronéo, 1980 ). Dall’altra parte, a esempio, i palestinesi e ancor più le palestinesi di Gaza non sono tutte/i integraliste/i, convinte/i sostenitori di Hamas che li ha fatti e soprattutto le ha fatte regredire ormai di decenni nel loro modo di vivere. Il superamento di rappresentazioni manichee è necessario tra i gruppi coinvolti nel conflitto, ma è importante anche tra quanti vedono il conflitto dall’esterno.

Un’altra precondizione, certamente difficile ma non impossibile, richiede che palestinesi e israeliani si liberino da condizionamenti e strumentalizzazioni esterne, degli Stati Uniti e degli Stati Islamici, diventando i principali responsabili del loro destino. Israele dovrebbe liberarsi dal ruolo e dall’immagine di strumento di una potenza coloniale.

Inoltre bisognerebbe sgomberare il campo dalle soluzioni – due Stati per due popoli – rivelatesi illusorie e impraticabili, che, se realizzate, finirebbero con il complicare una situazione già complicata.

Prima di tutto è essenziale comprendere che la cooperazione è, per tutti, più conveniente del conflitto nel rapporto costi/benefici, vantaggi/svantaggi intesi non solo in senso economico: si pensi alle sofferenze fisiche e psicologiche.

Essenziale ma non facile come dimostra l’evoluzione della nostra specie che ha come costante sin dai primordi la prevalenza del conflitto tra gruppi per l’accaparramento delle risorse; non facile ma possibile come fanno intravedere, in questo caso, le contraddizioni sopra evidenziate interne allo Stato di Israele.

Da un punto di vista più generale, come si è prima fatto presente, in Israele si trovano a convivere diversi gruppi etnici, un fazzoletto di terra paragonabile per tale molteplice diversità agli Stati Uniti d’America. Questo significa che potrebbe diventare un modello pionieristico di convivenza multi etnica.

Si tratta comunque di non accettare la conflittualità come un destino inevitabile; e di comprendere che quelle che sembrano utopie possono invece essere luoghi possibili anche se non ideali, con molteplici difetti e limiti.