Quando la Puglia accoglieva i profughi della Shoah

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27 Gennaio 2020

Una costellazione di kibbutz sulle coste del Salento: è quello che accadde in Puglia, tra il 1944 e il 1947, quando migliaia di profughi arrivarono da tutta Europa aspettando un futuro migliore

Una costellazione di kibbutz sulle coste del Salento, tra villaggi di pescatori e aridi campi di olivi. È quello che accadde in Puglia, tra il 1944 e il 1947, quando migliaia e migliaia di profughi arrivarono da tutta Europa al confine più estremo d’Italia per dimenticare gli orrori della guerra. Fu così che nei campi per sfollati, messi in piedi requisendo le ville dei nobili leccesi, si celebrarono in pochi anni quasi 350 matrimoni e nacquero oltre 200 bambini.

SANTA MARIA DI LEUCA (PUGLIA) – “Là non ci torno”, aveva detto Ilona puntando il dito verso nord. “Là non c’è altro che polvere e cenere”. Teneva stretta la scatola di arnesi che le aveva regalato suo zio Iozsi.

Se grazie a quella era riuscita a scappare dalla guerra, ha pensato, se la sarebbe cavata anche in capo al mondo. Ilona è fuggita dall’Ungheria per scampare alla persecuzione nazista. Ha perso entrambi i genitori nei campi di concentramento e, come tantissimi altri, ha trovato rifugio a Santa Maria di Leuca.

Tra le barche di pescatori e le aride strade puntellate di olivi, nel punto più meridionale dello stivale italiano. Qui tra il 1944 e il 1947 arrivarono profughi da ogni parte d’Europa.

Ebrei, slavi, russi, greci e turchi: si misero in cammino tra le macerie del conflitto e puntarono dritto verso sud, dove le ferite si asciugano scaldate dal sole e dall’odore del mare. In Salento, grazie al piano di rientro dei profughi studiato dagli Alleati, ne transitarono migliaia.

La piazza di Santa Maria (oggi piazza Nardò) e un gruppo di rifugiati che marciano incolonnati (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

Santa Maria al Bagno, Leuca, Tricase. I campi profughi vennero allestiti qui, all’ultimo confine d’Italia: abbastanza lontano per dimenticare gli orrori della guerra, così vicino al mare per poter pensare di raggiungere l’America, l’Australia, la Palestina.

La guerra stava per finire, gli Alleati iniziavano a pianificare ciò che sarebbe successo dopo. Tra le varie questioni si doveva pensare a come sistemare milioni e milioni di profughi: persone allontanate brutalmente dalle loro terre, rinchiuse nei ghetti o internati nei campi di sterminio, in perenne fuga da un paese all’altro.

La loro storia era rinchiusa in un marchio a due matrici: DP, Displaced Persons. Per i salentini erano semplicemente “loro”, gli “sfollati” che venivano da lontano.

Foto ricordo di un matrimonio tra profughi ebrei (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

Per allestire i campi risorse non ce n’erano. La Puglia era una costellazione di piccoli villaggi di pescatori, che la guerra l’avevano vissuta quasi solo dalle cronache della radio.

Leuca non era che una località balneare per ricchi, che si riempiva di facoltose bagnanti nei mesi estivi per essere abbandonata in inverno. Dove mettere allora tutti questi profughi in arrivo?

La soluzione fu presto trovata: le sontuose ville di proprietà dei nobili leccesi vennero requisite, le chiavi passarono nelle mani dell’UNRRA (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) e le porte vennero spalancate ai nuovi arrivati.

In ogni residenza dormivano anche trenta o quaranta persone, che qui ricominciarono a vivere in attesa di ottenere il visto per andare altrove. Un’attesa che poteva durare pochi mesi, come anni.

Foto di gruppo al mare. Le donne spesso provenienti dalle grandi capitali europee erano libere ed emancipate, come si nota dalla naturalezza con cui indossano il bikini (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

Qui i bambini iniziavano a leggere e scrivere. Agli uomini si insegnava come lavorare i metalli, alle donne come diventare maestre, infermiere o sarte.

La sera si ballava, si cantava, si faceva teatro. Per i profughi i campi non furono solamente sale d’attesa, ma diventarono luogo di convalescenza e di rigenerazione.

L’UNRRA forniva cibo, viveri, vestiti. I campi però erano spesso autogestiti dagli ‘sfollati’, che provvedevano all’organizzazione quotidiana della vita nelle ville.

“Io lavoravo nelle cucine – raccontava Ester Frummerman – perché l’UNRRA ci dava sì tutti i prodotti, ma qualcuno doveva pur cucinare”.
Suo marito Shmuel, era diventato poliziotto e aveva il compito di controllare che non ci fossero disordini. Poi c’era chi faceva il bucato, chi teneva i più piccoli, chi serviva i pasti.

Erano per lo più ragazzi giovani, orfani che avevano perso tutta la famiglia. Con un passato raso al suolo, per il futuro volevano ripartire da zero: ognuno con i suoi ideali e le sue utopie, per costruire dalle fondamenta il migliore dei mondi possibili.

Giovani ebrei al mare (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

Per farlo, scelsero il kibbutz. Sulla scia di quelli nati in Palestina negli anni Venti, i kibbutzìm del Salento avevano come parole d’ordine la condivisione e il lavoro di comunità.

Erano veri e propri centri d’addestramento (hakhsharot): si studiava l’ebraico, ci si allenava con molta attività fisica e si parlava di politica. Tanta politica.

C’erano i kibbutz di destra e quelli di sinistra, quelli del partito religioso Mizrahì e quelli del partito del lavoratori. Insomma, ad ognuno il suo gruppo: dall’ala marxista- leninista a chi sognava la resistenza armata contro i britannici.

Da quando era cominciata la guerra non c’era mai stato così fermento e nelle strade di Leuca si replicava la bagarre politica dello Stato d’Israele, con tanto di liti, scontri e zuffe. “Il mio kibbutz si chiamava Dror ed era socialista, il suo era Gordonia del movimento sionista” scriveva Ester Frummerman. Si era da poco sposata, ma quando suo marito le chiese di cambiare comunità per amore la sua risposta fu decisa: “Gli dissi che ero nata comunista, ero membro di Dror e non l’avrei mai lasciato”.

Gruppo di ebrei sulla scogliera (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

“Ricominciammo a vivere di nuovo, era come essere resuscitati”, scriveva Lisa Schotten, arrivata a Leuca dal campo di concentramento di Servigliano. Tra battibecchi, chiacchiere davanti al fuoco e partite di pallone sulla spiaggia, gli sfollati potevano tornare a essere “nuovamente esseri umani”, in tutta la loro contraddittoria normalità.

Fu anche per questo che in pochi anni furono celebrati quasi 350 matrimoni. “Ottanta ragazze nel campo sono incinte”, esclamava Gerber in una lettera. Era il ciclo interrotto della vita, che ora si rinnovava.

Se un’intera generazione era stata cancellata, la risposta dei profughi stava in un esercito di carrozzine, che sfilavano sul lungomare di Leuca. A bordo c’erano oltre 200 bambini, che portavano i nomi di padri, nonni, fratelli che non c’erano più.

Profughe ebree passeggiano con i loro bimbi nati al sanatorio di Leuca (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

Li chiamavano i bambini di Santa Maria di Leuca. Sono quelli nati in quel vecchio sanatorio per malati di tubercolosi arroccato sopra le grotte marine, a strapiombo sul mare azzurro.

Nell’ospedale, che oggi cade a pezzi, lavoravano insieme infermiere americane e suore italiane. Oggi molti di quei bambini hanno più di settant’anni e abitano in Israele.

A volte si sono messi in viaggio, ripercorrendo la strada dell’esodo al contrario, per vedere con i propri occhi il luogo dove erano nati e dove avevano vissuto i loro genitori. Hanno consultato gli archivi e recuperato i certificati di nascita, per ringraziare gli abitanti di quel posto dove tanti anni prima avevano visto la luce.

Foto di gruppo scattata presso il kibbutz di Betàr a Santa Maria di Leuca (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)
Momenti di un corso di pesca tenuto da pescatori di Santa Maria di Leuca (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)

Venire alla luce. Leuca, leukòs.
In greco indica proprio quel bianco luminoso, del sole che riflette sulle case dei pescatori e si infrange sugli scogli.

Lì si dice che un abitante di Tricase scambiò la sua fisarmonica per un tozzo di pane arrivato dagli aiuti internazionali.

Una giovane donna invece regalò il suo abito da sposa a una ragazza ebrea, perché potesse celebrare il suo matrimonio, nonostante tutto. Il miracolo che avvenne in Puglia sta tutto qui: in quella testuggine che un pescatore continuava a offrire ai profughi ebrei e che loro dovevano rifiutare, con il sorriso, perché non kasher; e in quelle coperte americane che gli sfollati vendevano ai salentini per cucirci le coperte in vista dell’inverno.

Per definire quella sensazione di rinascita, Moshe Ron, profugo ebreo di origini ungheresi, prese in prestito un solo verso di Goethe: Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn? Conosci quella terra dove fioriscono i limoni?

Le testimonianze riportate sono state tratte dalle seguenti memorie: Moshe Ron, Un’odissea dei nostri giorni, a cura di F. Lelli, Galatina, Congedo, 2004; Gerti Goetz, In segno di gratitudine, a cura di M. Bruno e altri, Nardò, Besa Editrice, 2007; Shmuel Mordechai Rubinstein, Memorie di Santa Maria, 2011; Rivka [Friedman] Cohen, Viaggio alla fine del mondo, 2011.
Per la consulenza si ringrazia il prof. Fabrizio Lelli, dell’Università del Salento e il comitato scientifico del sito www.profughiebreinpuglia.it

Un gruppo di ebrei immortalati in un momento di pausa all’interno di quella che oggi è villa Filigrana, all’epoca sede di un centro ricreativo (© Museo della memoria e dell’accoglienza, Santa Maria al Bagno)