10 Febbraio 2021
Una riflessione per correggere e ricalibrare il nostro sguardo quando si parla di ambiente
E’ dal 1972, quando i capi di 110 delegazioni hanno approvato la Dichiarazione di Stoccolma sull’ambiente umano, che l’attenzione della comunità internazionale è stata catturata dalla graduale condizione di deterioramento che stava colpendo il mondo naturale. A questa hanno fatto seguito nel 1987 il Rapporto Brundtland, che ha sancito il concetto di Sviluppo Sostenibile, e nel 1992 la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo quando viene stilata l’Agenda 21 ed elaborata la Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico che, a sua volta, ha dato inizio ad un percorso annuale per il riconoscimento e l’attuazione di strategie volte a contrastare gli effetti dell’uomo sul sistema climatico.
Potrei citare decine di altri passaggi storici ed istituzionali ma tanto basta, forse, per far capire che il nesso tra le azioni dell’uomo e quanto sta accadendo non è notizia di ieri. Eppure, è solo negli ultimi mesi, complice una pandemia globale, che questa bizzarra specie chiamata Homo sapiens si è forse resa conto, senza limiti di età, sesso, religione e competenza, che qualcosa sta accadendo e, guarda caso, che ne siamo tutti complici, carnefici e anche vittime.
Da questa consapevolezza ci si aspetterebbe un’azione immediata, consapevole, lungimirante, basata su solide certezze scientifiche e strategie innovative. E invece, come ci insegna la parabola siciliana per eccellenza, ancora una volta “tutto cambia perché tutto resti uguale” (anche se, a ben vedere, numerosi critici letterari avrebbero poi smentito la volontà dell’autore di riferirsi ad un tradizionale immobilismo. Ma non è questo il luogo per dibatterne).
E così, grazie al programma europeo Copernicus scopriamo che il 2020 si piazza al primo posto nella classifica degli anni più caldi di sempre con temperature di 1,6 gradi centigradi al di sopra del periodo di riferimento 1981-2010 e di 0,4 gradi al di sopra delle temperature del 2019 e, insieme al 2016, fa emergere come la decade 2011-2020 sia stato il decennio con le temperature più alte mai registrate.
Nel frattempo, il Governo italiano lavora per dare vita al Piano nazionale di ripresa e resilienza, un pacchetto di azioni che verranno finanziate dall’Unione Europea grazie al programma Next Generation EU, meglio noto come Recovery Fund. In pratica, abbiamo a disposizione moltissimi miliardi di euro per dare avvio a quella transizione ecologica, a quel nuovo paradigma di sviluppo che, proprio come richiesto nel 1987, dovrebbe garantire alla generazione presente – e qui aggiungo, generazione di ogni specie vivente – di godere delle risorse del Pianeta senza compromettere il mondo naturale e la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni e godere delle medesime risorse.
Eppure, senza voler essere disfattisti o critici verso un piano a tutti gli effetti non ancora approvato, non si può non notare che nelle discussioni portate avanti nelle aule del Governo, così come nei report e nelle proposte abbozzate, sembra volersi perpetrare un modello economico e di sviluppo che slega ancora una volta l’uomo dalla natura.
La crisi ecologica viene ridotta ancora una volta ad una crisi della materia, ignorando la necessità di ripartire da una nuova concezione del mondo e del linguaggio con cui ne descriviamo forme e bisogni. Anzi, a ben vedere siamo ancora spesso fermi ad uno sviluppo culturale dove chi si (pre)occupa di ambiente, e lo fa con ogni mezzo e una ferrea volontà mossa da coscienza e conoscenza, è spesso ancora descritto come “ambientalista”. Quasi fosse una brutta parola. Quasi ci fosse il bisogno di dare un’etichetta (o una tessera di partito. Perché si sa che, per alcuni l’ambientalista è notoriamente di sinistra).
Nasce così un piano fondato su 3 pilastri separati tra loro, a riprova che quella attuale è anche una crisi di senso: Digitalizzazione/Innovazione, Transizione Ecologica, ed Equità/Inclusione. Divisione dove ci sono estrema trasversalità e un unico pilastro: la transizione ecologica che, se attuata, porterebbe con sé le soluzioni naturali per risolvere la crisi. Economia e natura, capitale naturale e crescita economica: tutte facce del medesimo dado.
Tutte a indicarci, come già aveva fatto Roberto Costanza – considerato uno dei padri dell’economia ecologica – che la natura ci fornisce beni e servizi che, secondo il “Primo Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia”, ammontano a 338 miliardi di euro (circa il 23% del PIL italiano). Eppure, i dati italiani mostrano una perdita di capitale naturale pari a circa 16,6 miliardi di euro all’anno. L’aria che respiriamo, il cibo, l’acqua, persino i vestiti che indossiamo… sono parte di quel capitale, purtroppo definito “invisibile”, che è essenziale per la vita umana. Banale, diranno alcuni, ma forse non troppo se le perdite che subiscono questi sistemi sono ancora così evidenti e importanti, e se i costi dell’inazione, o quelli determinati per riparare i danni, sono ancora così alti.
Pensiamo solo ai danni provocati dall’impatto dell’uomo sul clima: nel peggiore degli scenari il costo a livello globale potrebbe arrivare alla cifra stratosferica di 790mila miliardi di dollari, da qui alla fine del secolo. Al contrario, rispettare l’Accordo di Parigi e mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C porterebbe all’economia mondiale un beneficio che si aggira tra 336mila e 422mila miliardi di dollari.
Tornando al ben noto Piano, se da una parte sono citati investimenti che toccano molti dei temi caldi ed importanti, dalla riduzione delle emissioni di CO2 attraverso interventi di efficientamento energetico e la promozione delle energie rinnovabili, ad azioni per contrastare il dissesto idrogeologico, promuovere la sostenibilità della filiera agroalimentare, tutelare le foreste, gestire efficacemente le risorse idriche, dall’altra si avverte la necessità di puntare l’accento su alcuni temi in particolare.
Penso, ad esempio, alla biodiversità. Siamo in un momento storico in cui la scienza ci sta dicendo a chiare lettere che è in atto una vera e propria estinzione di massa: il Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services evidenzia come la pressione antropica abbia alterato in modo significativo tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino, mentre circa 1 milione di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione ad un tasso e una velocità tali da non essere giustificabile come fenomeno naturale. Eppure non risultano chiare, ad oggi, le azioni previste a tutela, appunto della biodiversità e degli ecosistemi.
Con i suoi 7.456 chilometri di costa e un Mare, il Mediterraneo, caratterizzato da una incredibile ricchezza biologica – pur coprendo solamente lo 0,82% della superficie mondiale oceanica, è abitato da più diciassettemila specie e ospita il 7,5% di tutta la biodiversità marina mondiale – l’Italia necessiterebbe di un preciso piano di azione a tutela di mari e oceani.
Dal 2012 ad oggi, in Italia, sono state istituite solo due aree marine protette che complessivamente ricoprono solo il 9,74% delle acque sotto la giurisdizione nazionale e solo lo 0,06% di queste è stato oggetto di valutazione gestionale. Eppure, sempre nel Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia, il servizio di sequestro di carbonio fornito dai mari italiani varia tra i 9,7 e i 129 milioni di euro l’anno, e quello di protezione contro l’erosione costiera fornito dalle praterie di Posidonia oceanicae è stimato in circa 83 milioni di euro l’anno.
Sovrasfruttato e inquinato, il Mediterraneo ha una concentrazione di microplastiche che, in alcune aree, arriva a 10 chilogrammi per chilometro quadrato. Dati evidenziati dall’associazione no profit Worldrise che lotta per la tutela del mare e si è fatta promotrice di una campagna, 30×30 Italia, che chiede la protezione del 30% dei mari italiani entro il 2030 per garantire agli ecosistemi marini di rigenerarsi.
Un obiettivo che, secondo la Strategia Europea per la Biodiversità dovrebbe riguardare anche le foreste. Con 11,4 milioni di ettari e il 38% della sua superficie territoriale coperta da foreste, l’Italia è il secondo tra i grandi paesi europei per copertura forestale che, ogni anno, trattiene dall’atmosfera circa 46,2 milioni di tonnellate di anidride carbonica, che si traducono in 12,6 milioni di tonnellate di carbonio accumulato.
A puntare l’accento sulla necessità di tutelare il patrimonio forestale nazionale è Legambiente, che in una nota chiede al Governo di lavorare per realizzare una rete nazionale delle foreste vetuste e primarie e per la costituzione di Santuari della biodiversità, oltre che per prevenire e ridurre i rischi naturali per le foreste.
Uno sguardo, poi, andrebbe dato alla tutela del verde urbano e alla progettazione delle aree verdi. Se da una parte, infatti, stiamo assistendo alla promozione di Piani urbanistici e programmi politici che annunciano a gran voce opere di piantumazione massive, dall’altra è innegabile che in molte città si stia assistendo a un taglio quasi compulsivo di specie decennali, se non secolari, per fare spazio a infrastrutture sacrosante, come fognature e piste ciclabili, o per mettere in sicurezza strade e marciapiedi.
Sarebbe dunque utile un programma serio di censimento e tutela del verde urbano esistente, associato ad un programma di piantumazione non schizofrenico ma basato su uno studio serio di specie che siano adatte all’ambiente urbano, possibilmente poco allergiche e, magari, anche utili alla creazione di corridoi ecologici. Senza contare il valore delle specie arboree nell’ambito delle Nature Based Solutions, o soluzioni basate sulla natura.
Gli spazi verdi delle nostre città, infatti, non sono solo fondamentali per l’assorbimento degli inquinanti, ma anche per la mitigazione dell’effetto isola di calore, e per la loro capacità di attrarre le persone e fornire occasioni di socialità. Elemento, quest’ultimo, tanto più fondamentale in un periodo come questo in cui abbiamo la necessità di creare spazi di socialità in totale sicurezza. Se non agiamo così, tra qualche decennio, la storia si ripeterà, sempre uguale a se stessa e con buona pace degli alberelli che ora vediamo spuntare qua e là tra aiuole e viali.
A valle di queste riflessioni, verrebbe da chiedersi se il problema che affligge il Piano, e più in generale le politiche ambientali del nostro paese, non sia dovuto ad una più generale mancanza di cultura intesa come formazione della classe politica, sul piano intellettuale e morale, delle “cose di scienza”.
Una formazione che, a ben vedere, dovrebbe coinvolgere chiunque fin dalla più tenera età. E veniamo, dunque, all’ultimo punto: l’educazione. Annoverata dalle Nazioni Unite come uno degli obiettivi dell’Agenda 2030, l’educazione è lo strumento attraverso il quale possiamo sperare di dare avvio ad un cambiamento davvero radicale del modello di sviluppo. E questa sì, sarebbe una reale innovazione.
Entrare nelle scuole, promuovere a gran voce l’importanza di rivedere il rapporto che ogni singola persona ha con la natura, dovrebbe essere compito obbligato delle Istituzioni che, invece, sono le grandi assenti della partita. E non solo. Oltre a non rispondere alla chiamata, sono spesso anche totalmente sorde alle richieste di scienziati ed esperti di settore.
A colmare questo vuoto è in molti casi, fortunatamente, almeno il Terzo Settore che, attraverso virtuose realtà associative e gruppi di volontari, promuovono un cambiamento radicale dei comportamenti quotidiani. Con pochissimi fondi a disposizione, sono queste realtà a entrare nelle scuole, organizzare dibattiti e seminari, promuovere campagne dal basso per la pulizia del territorio associate, spesso, a trekking naturalistici o corsi di yoga – è il caso di Inspire Ecoparticipation, nata a Roma dalla volontà di tre ragazze di promuovere uno stile di vita basato su “rifiuti zero”.
Forse, il grande problema del Piano Nazionale, o del paese in generale, è l’incapacità di uscire dalla reiterazione continuativa dello stesso errore: una dinamica che, in psicologia, è definita “coazione a ripetere” gli stessi schemi fallimentari e la cui soluzione richiederebbe elasticità mentale, umiltà, coraggio, e volontà. Tutti aspetti che, la storia ci insegna, non sono per nulla ovvi.