Sangue nelle tracce dell’identità

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27 Luglio 2020

Minori stranieri non accompagnati kosovari

Partire e non tornare

Ogni anno centinaia di MSNA[1] kosovari entrano in Italia dal confine orientale e vengono ospitati nelle comunità educative fino al raggiungimento della maggiore età. Si stabiliscono nelle città, lavorano, fanno famiglia.

Alcuni deliquono e hanno problemi ad ottenere i documenti, altri riescono a costruirsi un’alternativa di vita fatta di soddisfazioni e guadagni, nel rispetto delle regole e delle leggi. Anche se si parla di minori, non bisogna pensare a dei bambini.

I kosovari albanesi raggiungono il Bel Paese perlopiù a sedici o diciassette anni, raramente ad un’età inferiore. Sono migranti economici e non hanno diritto a nessuna forma di protezione internazionale.

Il loro modello migratorio è sempre lo stesso, perseguito anno dopo anno da nuovi ragazzi che si muovono su percorsi collaudati da chi li ha preceduti.

Sono tutti maschi, adolescenti, sulla soglia dell’età della responsabilità. Sanno quali sono i loro diritti in quanto minori non accompagnati: alfabetizzazione, sanità gratuita, percorsi professionalizzanti, abbigliamento e pasti. Conoscono bene e sfruttano il sistema di accoglienza più che possono.

Non è una critica o un giudizio di valore, è così, tanto vale dirlo apertamente.

I ragazzi migrano per sollevare le famiglie dagli oneri economici del loro mantenimento, per qualche tempo, e nelle comunità si preparano ad entrare a tutti gli effetti nella società italiana.

Imparano a compilare i moduli per il permesso di soggiorno, ad orientarsi nel mondo del lavoro e ad esprimersi con le basi della nostra lingua. Si costruiscono un futuro. Le famiglie stesse li incentivano a partire. Non sono realmente non accompagnati, né durante il viaggio né durante la permanenza nel paese d’arrivo.

Il percorso attraverso i Balcani segue “una rotta sulla rotta”: compiuto con i mezzi e non a piedi, perciò alternativo rispetto alla Rotta Balcanica tradizionale. Viene gestito dai passeurs, che di villaggio in villaggio reclutano giovani aspiranti migranti.

Previo lauto pagamento (dai 1000 ai 3000 euro circa), i trafficanti accompagnano i minori tra gli Stati e le frontiere, fino a destinazione.

Quindi ripartono e ritornano indietro, pronti a prendersi carico e a lucrare sui prossimi giovani intenzionati a partire. I minori kosovari non sono soli neanche in Italia. Ci sono numerose comunità di kosovari, sparse soprattutto nelle città del centro e del Nord (Firenze, Brescia, Milano, Treviso, Trieste su tutte) che si prendono cura di loro.

Fratelli e sorelle, cugini e cugine, zii e zie, amici, conoscenti o altri soggetti che compongono le loro “famiglie allargate” tessono reti di solidarietà, di vicinanza, di supporto e orientamento lavorativo ed economico attorno ai nuovi arrivati.

Quasi tutti i kosovari sanno dove andare dopo il compimento dei diciotto anni, a differenza dei minori che provengono ad esempio dai paesi medio-orientali a cui spesso mancano solidi network di connazionali a cui appoggiarsi. La maggior parte dei kosovari finisce a lavorare nell’edilizia, come muratori, o nella ristorazione, come camerieri o aiuto-cuochi.

I più intraprendenti e ambiziosi, virtuosi anche a livello comportamentale (fattore obbligatorio per ottenere il parere positivo dal Tribunale dei minori e quindi il permesso di soggiorno) e sotto il profilo linguistico, riescono a costruirsi percorsi professionali anche più appaganti e meno faticosi.

Ma sono l’eccezione, non la norma. Il frutto dei loro guadagni serve a sollevare le sorti delle famiglie, in madrepatria, e a costruire un avvenire migliore, qui, o in Svizzera, in Germania, dove il capitalismo funziona e si possono fare bei guadagni, a loro stesso dire. Rispetto alla generazione precedente, quella che scappava dalla guerra, i giovani di adesso non hanno nessuna intenzione di tornare stabilmente in Kosovo, fare casa e famiglia lì. Per loro sarebbe una sconfitta, il ritorno. Significherebbe aver fallito e disatteso le aspettative delle loro famiglie, i loro stessi sogni di gloria.

[1]     Minori Stranieri Non Accompagnati

La copertina del libro scritto, per Infinito Edizioni, da Riccardo Roschetti sul tema

Preservare “l’altro da sé” nell’ottica dell’integrazione

Nello spazio liminale delle comunità di accoglienza, dentro ma al contempo ai margini della società, i minori kosovari performano le loro esistenze in una convivenza imprevista, che li spinge a (raf)forzare i legami e le ritualità sociali con i  propri connazionali.

Rielaborano tra di loro il vissuto e la memoria storica comune, con modalità inedite e calate nella nuova e temporanea situazione. Ricreano lo spazio e le dinamiche della comunità etnico-nazionale che hanno abbandonato, aggrappandosi ai valori che li accomunano. Non di rado esasperandoli.

Nella mia esperienza come educatore di comunità e come insegnante di italiano lingua seconda, ho potuto constatare come, nella quasi totalità dei casi, i kosovari dimostrassero di essere refrattari al compromesso con il contesto ospitante, con l’autorità e le regole, e in particolar modo nei rapporti interpersonali con soggetti di altre nazionalità.

Sempre pronti a difendere il loro imprinting con ostinazione, se non vera e propria ostilità, messi di fronte al primo sentore di minaccia o scontro ideologico. Questo comportamento si spiega con il cambiamento concettuale che la loro identità ha subìto con l’emigrazione.

In Italia e nella comunità di accoglienza in cui sono ospiti, i ragazzi si trovano circondati da persone che attribuiscono valori differenti alle loro intenzioni, affermazioni e scelte, rispetto ai paradigmi che hanno elaborato durante la loro crescita e formazione umana in Kosovo. Controllati e giudicati da educatori che parlano un’altra lingua e che li identificano come esseri portatori di una cultura “minore” e “marginale”.

Molti operatori del sociale non sanno neanche – né gli importa – dove si trovi fisicamente il Kosovo, né quale sia il loro retaggio storico, culturale e linguistico. Li trattano come se fossero dei minori qualsiasi, al fine di omologarli e di annichilirne la diversità di cui sono portatori.

Questa aberrazione educativa è la prassi più diffusa nelle comunità. Disinnescare l’alterità per poterla gestire meglio. Un approccio deleterio, a mio avviso, tanto quanto quello che si pone al polo opposto, incarnato dalla controparte razzista e xenofoba che alimenta e propaganda l’odio verso gli immigrati. Anche se opposte sul piano metodologico e ideologico, queste due categorie convergono sulle finalità.

Lo straniero per essere integrato deve essere annullato, deve diventare uno di noi.

Per quel che riguarda le logiche delle comunità, questa pratica è la conseguenza di una metodologia di assistenzialismo inficiata da un certo buonismo di ispirazione cristiana, che spesso alberga negli ambienti di gestione degli stranieri, ma anche dei disabili, dei tossicodipendenti. Di tutti quei soggetti considerati “deboli”: i diversi, i reietti, gli inconciliabili. Ma soprattutto, è il risultato di un’impreparazione interculturale di fondo. Di questo sono responsabili gli enti di formazione accademica, le Università, che dovrebbero fornire gli strumenti teorici adeguati agli aspiranti educatori. A ciò si aggiungono i pregiudizi radicati nell’immaginario collettivo nostrano, di cui siamo tutti, spesso inconsapevolmente, “portatori sani”.

La difficoltà più insormontabile, non solo dei singoli ma delle istituzioni stesse, è quella di saper riconoscere e dare dignità all’estraneità dello straniero, in contrasto con i valori e i dettami socio-culturali italiani. “Questa correttezza morale presuppone che si riceva lo straniero annullando sulla soglia la sua estraneità […] ma lo straniero insiste e fa intrusione”[2]

Narrare la memoria

Un ruolo fondamentale nella quotidianità dei minori kosovari è rivestito dal tempo e dalla cura che questi dedicano alla costruzione delle narrazioni sulla liberazione del Kosovo. Canzoni e slogan, accompagnati dalla simbologia nazionalista, nei tatuaggi e nel vestiario. I video su youtube con le gesta del Comandant Adem Jashari.

Il cameratismo tra shqipe, albanesi e albanesi kosovari che si riconoscono nella comune radice etnica. L’odio verso i serbi. Questo è il pane quotidiano dei minori kosovari. La componente albanese del Kosovo ha pagato sulla propria pelle una persecuzione etnica devastante alla fine degli anni ’90, nessuno può metterlo in discussione senza macchiarsi di revisionismo.

I minori che emigrano oggi in Italia sono nati durante o subito dopo il conflitto, e arrivano qui portandosi dietro il bagaglio delle atrocità patite dal loro popolo. Si fanno carico di una memoria collettiva e si impegnano a portarla avanti, con rabbia e orgoglio, dirigendola verso chiunque si interponga tra loro e l’eredità di un passato di cui si fanno garanti.

Le narrazioni dei minori non rispecchiano la realtà, la elaborano.  Ad un’attenta comparazione delle fonti disponibili i loro racconti sono risultati quasi sempre il risultato di omissioni, iperboli e revisionismi propagandistici. Le manipolazioni non sono però da intendersi come fake news.

Non sono false perché alterate, anzi. Se pure risultano inaffidabili per ricostruire oggettivamente quello che è accaduto, fanno emergere chiaramente l’auto-percezione identitaria di un popolo. Vero e falso, storia e mito, si alimentano e completano a vicenda, danno vita a nuovi significati.

I minori cercano di ridurre la portata degli episodi tragici e macabri della guerra inserendoli in uno spazio ben preciso, meno minaccioso e più controllabile: dentro la storia (la narrazione) e fuori dalla Storia (il fatto concreto). Attraverso questo processo “creativo” gli episodi e i massacri rivivono, prendono la forma di un discorso la cui funzione è quella “di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiare l’evento aleatorio, di schivarne la pesante temibile materialità”[3]. Una cosa è certa: l’impronta della guerra ha lasciato sangue nelle tracce dell’identità kosovara.

I minori, paradossalmente, ne portano i segni di più della generazione che li ha preceduti. Questo è potuto accadere perché essi sono cresciuti e sono stati formati dall’ideologia di uno stato nascente, in cui l’eredità dell’antagonismo con il vicino serbo era la base su cui ricostruire, il Paese, e ricostruirsi, l’identità.

In questo processo formativo i valori nazionalistici intrinsecamente “contrastivi” (albanesi versus serbi) si sono acuiti e hanno predisposto un discorso politico-identitario su cui riflettere e riflettersi.

La distanza fisica e temporale, anche se convenzionalmente si sostiene il contrario, non aiutano sempre ad osservare meglio le cose. Invece, proprio perché distanti dal Kosovo, e attori delle loro vite in un paese straniero, i minori kosovari manifestano la necessità di preservare, o meglio costruire, una memoria, in tutta la sua drammaticità e fierezza: “quel che resiste al tempo e ai poteri di distruzione, ed è qualcosa come la forma che l’eternità può assumere in questo incessante transito”[4].

I ragazzi esprimo la loro essenza in un flusso continuo, in continuo cambiamento. La loro identità non è un’entità immutabile e statica, ma matura all’interno delle relazioni in cui viene vissuta, soggetta alle rielaborazioni narrative nel contesto della migrazione e della permanenza in un paese straniero.

Da quando sono arrivati qui in Italia gli shqipe kosovari non sono più gli stessi di prima, ma qualitativamente diversi. Il loro tentativo di preservare ciò che erano è una reazione a ciò che sono adesso: irrimediabilmente anomali, irriducibilmente altri.

NOTE

[1] MSNA – Minori Stranieri Non Accompagnati

[2] Jean Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, Collana Tessere, Napoli, 2006

[3]  Michel Foucault, L’archeologia del sapere, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1999

[4] Ernesto Sàbato, Sopra eroi e tombe, Einaudi, Torino, 2009

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La masnada delle aquile

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Pristina, Kosovo