Tàlia‘àt: le donne palestinesi insorgono contro la violenza

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30 Settembre 2019

Una mobilitazione nata dal basso, attraverso i social network, dopo l’ennesimo femminicidio

“Non può esserci liberazione per la Palestina senza la liberazione delle donne. Donne libere in una patria libera”. E’ stato questo lo slogan che, il 26 settembre scorso, è risuonato per la strade della Palestina occupata e nei territori del ‘48.

Da Ramallah a Rafah, da Haifa a Gerusalemme, passando per Jaffa e Taybeh e fino alla diaspora libanese ed europea, le donne palestinesi sono scese in piazza, fra cartelli gialli, canti e grida che inneggiavano alla “rivoluzione” e alla “libertà”.

E’ nato così, nel giro di poche settimane, un movimento dal basso che promette di mantenere il suo “stato di agitazione permanente”: si chiama Tàlia‘àt, “quelle che escono”, un termine che deriva dalla radice Tala‘a, in arabo “emergere, rendersi visibile”, utilizzato anche per descrivere il sorgere del sole.

Le donne scendono in strada e allo stesso tempo insorgono, si sollevano, per lanciare un messaggio chiaro: non è più accettabile anteporre la lotta per la liberazione nazionale della Palestina alla liberazione individuale e collettiva delle donne dall’oppressione e dalla violenza patriarcale. Un tema, questo, che le interroga e le mobilita da molti anni, con numerosi tentativi di spingere le istituzioni palestinesi ad una presa di parola chiara rispetto alla stigmatizzazione del patriarcato.

Ma che rappresenta anche l’elemento costante di una duplice oppressione contro la quale si sono sempre dovute battere, sin dall’inizio della loro battaglia, agli albori del Novecento.

Parte attiva della rivolta anti-coloniale, della lotta armata e delle sollevazioni che hanno puntellato la lunga storia di resistenza in Palestina, le donne palestinesi si sono sempre dovute scontrare con l’oppressione israeliana ma anche con un “nemico interno”: la struttura patriarcale della loro stessa società, e la politica del “passo indietro” richiesta loro sulle rivendicazioni di genere, in nome di una liberazione nazionale sempre considerata prioritaria rispetto alla loro battaglia.

A tutto questo, una nuova generazione di attiviste indipendenti sta dicendo basta. L’iniziativa di Tàlia‘àt è nata sulla scia dell’ennesimo femminicidio: quello della giovanissima Israa Gharib, 21 anni, trovata morta il 22 agosto scorso nella sua casa a Beit Sahour, vicino Betlemme.

Morta, dopo essere stata dimessa dall’ospedale in cui era stata ricoverata a causa delle percosse subite da fratelli e cugini, colpevole di aver diffuso sui social network un video insieme al ragazzo di cui era innamorata.

Le indagini per accertare l’accaduto sono ancora in corso, intanto però le piazze palestinesi si sono
riempite. Hanno iniziato a farlo all’indomani del femminicidio di Israa, all’inizio di settembre, quando centinaia di donne e uomini hanno manifestato a Ramallah, Betlemme e in altre città per rivendicare l’approvazione della Legge sulla Protezione della Famiglia e delle Donne.

Una legge ferma sul tavolo del presidente Mahmoud Abbas da anni nonostante, in passato, le organizzazioni femminili abbiano consegnato una petizione accompagnata da 12mila firme per richiederla. Ferma, come fermo è il Consiglio Legislativo Palestinese, paralizzato ormai dal 2006 in seguito alla frattura politica tra Hamas e Fatah.

Eppure, come ricordano le attiviste, basterebbe un decreto presidenziale per sbloccare la situazione e approvare strumenti normativi che tutelino le donne. A rendere ancora socialmente accettabile il femminicidio in Palestina concorrono molte cause, tra cui un complesso sistema legislativo che non lo stigmatizza. Risultato di decenni di dominazioni straniere e controllo coloniale, oggi il sistema legale palestinese combina norme egiziane, giordane, britanniche, e l’uso di diverse corti sia laiche che religiose. In particolare, a rendere applicabile l’attenuante del “delitto d’onore” in caso di femminicidio è l’articolo 99 del Codice Penale giordano del 1960, attualmente in vigore nei territori occupati della Cisgiordania.

Nonostante la Palestina abbia adottato la Cedaw nel 2004, e abbia tentato di allinearsi agli standard internazionali in tema di contrasto alla violenza di genere e rispetto dei diritti delle donne, la strada per conciliare teoria e pressi resta ancora lunga, anche alla luce di un controllo
sul sistema politico, legislativo e sociale limitato dall’occupazione israeliana. Ed è per infrangere una volta e per tutte questo status quo che le donne palestinesi sono scese nuovamente in piazza.

Il femminicidio di Israa è il numero 28 in Palestina dal 2019, stando ai dati ufficiali del Centro Statistico Palestinese. Ma i numeri, scrivono le attiviste di Tàlia‘àt, “non bastano a descrivere una condizione sistemica e troppo spesso non denunciata. La maggior parte dei femminicidi avviene all’interno delle mura domestiche, per mano di parenti, fratelli, padri. Non combattiamo solo per sopravvivere, ma per il diritto ad una vita sicura, e per fermare ogni forma di abuso e violenza – fisica, sessuale, politica, economica – che la maggior parte di noi vive ogni giorno”.

La mobilitazione è nata dal basso, attraverso i social network. “La novità è che nasce spontaneamente, non è guidata da alcuna realtà organizzata. Non ci sono a capo Ong, movimenti politici, partiti o sindacati, e neanche organizzazioni femminili. E’ stata pensata dalle donne per le donne, dalla volontà di riappropriarci dello spazio pubblico e far sentire la nostra voce”, spiegano le organizzatrici.

Nel corteo di Ramallah, in prima fila c’era anche Ahed Tamimi, la giovanissima attivista di Nabi Saleh arrestata nel dicembre del 2017 per aver schiaffeggiato un soldato israeliano, che ha scontato 8 mesi di detenzione nelle carceri israeliane. Lì, tra le mura della prigione, i suoi studi sono stati seguiti da Khalida Jarrar, storica attivista femminista del Fronte Popolare e prigioniera politica palestinese. E tra i cartelli delle manifestanti scese in piazza il 26 settembre c’era un pensiero anche per loro: le 38 detenute politiche che scontano sui propri corpi la violenza dell’oppressione israeliana.

Quello che le donne palestinesi elaborano e consegnano, è tuttavia un messaggio che va ben oltre la
denuncia, ma parla della necessità di ridefinire i paradigmi stessi della lotta di liberazione nazionale. “La questione della sicurezza delle donne deve ridefinire il discorso e l’agire politico nazionale”, scrivono nel loro manifesto. “Abbiamo scelto la strada come spazio di riappropriazione perché la nostra lotta sia considerata prioritaria. Viviamo all’ombra di un sistema oppressivo e violento come quello israeliano, che lavora alla destrutturazione e alla frammentazione della nostra società. Controlla il nostro spazio e vi impone la propria egemonia. La solidarietà femminista vuole attraversare questa frammentazione, ricomporre questo spazio, agire sulla società affinché diventi più giusta, anche attraverso la nostra lotta”.

Per questo, il movimento Tàlia‘àt ha preso una posizione chiara anche rispetto alla collaborazione con le realtà femministe israeliane, rifiutando ogni forma di collaborazione. “Abbiamo ricevuto molte pressioni perché invitassimo le femministe israeliane a partecipare alla nostra azione nei territori del ’48. Ci sembra che sia un tentativo di imporci questa presenza come un fatto compiuto”, scrivono sulla piattaforma social creata per coordinare le mobilitazioni. “Tàlia‘àt è un’iniziativa organizzata da donne che vivono ogni giorno sotto il regime coloniale israeliano. E’ all’interno di questo contesto che lottiamo per porre fine alla violenza maschile nella nostra società. Ma non accettiamo che la nostra lotta sia usata per legittimare la violenza del colonizzatore. Imporci la sua presenza equivale all’imposizione egemonica israeliana con cui ci
confrontiamo ogni giorno”.

Non è più tempo, insomma, di conciliazioni e “passi indietro”, né di gerarchie delle priorità. Per le attiviste che hanno riempito le strade palestinesi come non accadeva da anni, è tempo che la lotta si faccia intersezionale, superando ogni imposizione egemonica sulle subalternità. Che sia quella dell’occupazione militare, o di un’agenda politica interna che le ha messe sempre da parte. E’ tempo che la voce delle donne palestinesi sia ascoltata, e che dalla loro battaglia nasca la motivazione perché le strade della Palestina tornino a rivendicare libertà e dignità.