Hrant Dink. Un armeno di Turchia

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7 Febbraio 2022

Il giornalista assassinato e la questione dell’identità e della memoria armena

Erano decine di migliaia in strada in quel giorno a Istanbul, quindici anni fa, una coda lunga più di quattro chilometri di persone venute da lontano. 

Si radunarono in un punto preciso, dove tre giorni prima avevano ucciso un uomo. Tre colpi di pistola esplosi da un ultranazionalista di diciassette anni. 

Quell’uomo si chiamava Hrant Dink. Era uno scrittore, un giornalista e un armeno. Ma al suo funerale vennero armeni, turchi, curdi, stranieri, insieme ad attivisti per i diritti umani e militanti di sinistra. Nelle mani tenevano cartelli con la scritta Hepimiz Hrant Dink’iz e Hepimiz Ermeniyiz. Siamo tutti Hrant Dink. Siamo tutti armeni.

Dal 1915, anno del genocidio degli armeni dell’Impero Ottomano voluto dai Giovani Turchi, per circa un secolo gli armeni di Turchia avevano vissuto nell’ombra. Per decenni la parola “armeno” aveva avuto il valore di un insulto, ma ora quella stessa parola scorreva ovunque, nel fiume di folla che finalmente aveva rotto gli argini e si era riversato in strada.

Hrant Dink era non solo il sessantaduesimo giornalista ucciso dal 1909 in Turchia, ma anche l’ennesima vittima della repressione di stato perpetrata nel nome del nazionalismo. 

Dalle pagine del giornale Agos, di cui era fondatore e redattore, Hrant Dink era diventato la voce di molte altre voci apparentemente separate e distanti, riuscendo ad avvicinare la comunità armena di Istanbul a parte dell’opinione pubblica turca e a creare una connessione fra persone impegnate su fronti diversi:  dai diritti umani al riconoscimento delle minoranze, dalla costruzione di un modello democratico in Turchia all’integrazione turca all’interno dell’Unione Europea. 

Agos, che vuol dire “Il Solco”, era nato nel 1996, in una fase particolarmente difficile per gli armeni di Istanbul, che nei primi anni Novanta, infatti, erano stati vittime di molti episodi di intolleranza. Nel 1993 un gruppo di nazionalisti turchi, pronunciando slogan anti-armeni, aveva manifestato a Bakırköy, un quartiere che ospitava una numerosa comunità armena. Nello stesso periodo furono profanati tutti i cinque cimiteri armeni della città e si contarono oltre venti attacchi contro chiese armene e centri di comunità. 

In un’atmosfera infiammabile, che sembrava ancora una volta pronta a esplodere in un pogrom antiarmeno, Agos iniziò le sue pubblicazioni, significativamente in due lingue, l’armeno e il turco.

Fra gli obiettivi principali di Agos, fare in modo che la comunità armena di Istanbul provasse a raccontare se stessa per demistificare l’immagine negativa che ne restituivano i media e ad aprirsi alla città, in cui gli armeni erano marginalizzati nonostante ne fossero parte integrante da secoli. 

Dink scriveva in un articolo del 2004: “i rapporti fra turchi e armeni e le loro interazioni reciproche non sono così banali da essere liquidati in due parole. Si tratta di corredi identitari, tanto positivi quanto negativi, che sono il frutto di scambi reciproci avvenuti nel corso di relazioni plurisecolari, al punto che talvolta è assai difficile distinguere gli uni dagli altri per quanto riguarda i comportamenti” 

Ma l’orrore dei massacri subiti dagli armeni ottomani a inizio novecento e il rifiuto turco di riconoscerli come genocidio avevano sfregiato le trame di quella lunghissima storia di relazioni. “[…] Oggi il rapporto fra turchi e armeni si risolve nel modo in cui gli uni guardano gli altri. Entrambi rappresentano casi clinici: gli armeni hanno i loro traumi, i turchi le loro paranoie. Non redimendosi da questa condizione patologica in cui si dibattono […] non sembra possibile che gli armeni ristrutturino in modo sano la loro identità. In particolare, fino a quando i turchi eviteranno un approccio empatico nel loro modo di considerare il 1915 continuerà lo spasmodico contorcimento dell’identità armena”. 

Per Dink, che guardava al di là degli scudi identitari e aspirava alla riconciliazione, era necessario che la Turchia  affrontasse con empatia e riconoscesse i fatti del 1915. Tuttavia, il riconoscimento del genocidio, inteso come atto legale che fa riferimento alla Convenzione dell’ONU, non poteva essere considerato il punto di arrivo di questo cammino di riconciliazione. Come spiegò in una conferenza a Erevan, la capitale armena, nel 2005, quello che era accaduto agli armeni era qualcosa che andava al di là della definizione di genocidio tracciata nei trattati internazionali. L’aspetto più radicale della tragedia armena, spiegava nel suo intervento, era lo sradicamento dalla terra d’origine, che nel corso di quasi un secolo si era trasformato in un atto definitivo anche per gli stessi sopravvissuti, costretti al silenzio. 

Le violenze del 1915 sono stata prolungate nel tempo dalla politica negazionista turca e, infine, avevano rimosso secoli di storia comune e di convivenza. Convivenza che, secondo Dink, rappresentava l’antidoto ai veleni che alimentavano i traumi armeni. “Adesso gli armeni sono ovunque nel mondo e ricordano i turchi come li lasciarono nel 1915 o all’epoca dell’imposta patrimoniale (ndr: legge tributaria del 1942 che colpiva i patrimoni  delle minoranze con una tassazione più alta), o, ancora, come li lasciarono il 6-7 settembre (ndr: riferimento ai disordini del 1955 che scoppiarono a Istanbul e degenerarono in atti di violenza verso le comunità greca e armena)

Per loro “turco” è sinonimo di crudele, inumano, cattivo. La differenza fra loro e noi armeni di Turchia è che noi conviviamo con i turchi. Il “fattore turco” che li avvelena è il nostro antidoto”. 

Non stupisce che le sue posizioni fossero causa di grande perplessità fra gli stessi armeni, soprattutto fra quelli che, rimanendo saldamente ancorati all’immagine del turco crudele e disumano, non potevano vedere davanti a sé alcuna prospettiva di riconciliazione. 

Allo stesso modo, Dink fu largamente incompreso quando, in seguito all’emanazione della legge francese che sanziona penalmente la negazione del genocidio armeno, commentò: “Andrò in Francia a dire che non ci fu alcun genocidio, e starò in Turchia a dire che ciò che avvenne fu un genocidio”. L’affermazione, che suonò come un paradosso, era invece perfettamente coerente con uno dei punti fermi della visione di Hrant Dink, ovvero la convinzione che condizione indispensabile per arrivare alla riconciliazione fosse formare  una opinione pubblica libera e garantire un’informazione trasparente, eliminando il concetto di reato di opinione.  

Così la causa di Dink diventò la causa di molti: armeni, turchi, curdi, giornalisti, attivisti, sindacalisti, accomunati dall’essere bersaglio di un atteggiamento repressivo da parte dello stato. 

Il paese a cui Dink aspirava era uno stato laico, dove tutti gli individui, nella loro diversità, fossero concessi pari diritti di “cittadinanza”. Un’idea, quella di Dink, che non poteva non scontrarsi con l’ostilità delle autorità turche, arroccate su posizioni rigidamente nazionaliste e repressive nei confronti del dissenso. 

Dink fu largamente criticato e ostacolato da più fronti, sia dalle autorità, sia da gruppi di ultranazionalisti, al punto che la ricostruzione delle controversie legali che lo hanno coinvolto e delle minacce subite suona oggi come la cronaca di una morte annunciata.  

Le sue affermazioni erano finite più volte sotto processo, una volta dopo aver partecipato nel 2002 a un convegno nella città di Urfa in cui si rifiutò di definirsi turco “Non sono un turco, ma un armeno di Turchia”, aveva detto Dink. In seguito alla dichiarazione fu accusato, processato e condannato per “insulto all’identità turca”. Due anni dopo subì un nuovo processo con la stessa accusa a causa di un articolo in cui invitava la diaspora armena a liberarsi dei turchi, intesi come ossessione che avvelenava i rapporti degli armeni con questi ultimi. L’affermazione fu decontestualizzata e diventò un pretesto non solo per sottoporre Dink a un nuovo processo, ma anche per screditarlo nuovamente in pubblica piazza. 

Quell’accusa era come una macchia, dichiarò Dink in un’intervista. “C’è il mio quartiere, il mio droghiere, il mio macellaio. Sull’isola ci sono i miei amici pescatori, ci sono persone con le quali mi siedo al bar per fare quattro chiacchiere. Adesso leggono i giornali, seguono le televisioni. Diranno che un uomo è stato condannato per aver insultato l’identità turca. Lo sa cosa significa questo per me? Io non disprezzo le persone con le quali convivo”. 

Fu una condanna difficile da accettare, per Dink, che si sentiva cittadino di Turchia e aveva le radici salde in quella terra che non avrebbe mai lasciato per un’altra.

Ma non fece in tempo a lasciarsi alle spalle questi eventi spiacevoli, che si ritrovò coinvolto in una nuova controversia per i contenuti di un articolo dedicato a Sabiha Gökçen, figlia adottiva di Mustafa Kemal Atatürk. La storia ufficiale racconta che Sabiha Gökçen fosse un’orfana di dodici anni che Atatürk aveva incontrato in un orfanotrofio di Bursa e adottato.   Le vicende successive l’avevano ammantata dell’aura dell’eroina nazionale: Sabiha Gökçen è nota infatti per essere stata la prima donna turca a diventare pilota di aereoplani militari. La sua figura incarnava l’ideale di donna della Turchia di Atatürk, una nuova repubblica proiettata verso il futuro. 

L’articolo di Dink, però, raccontava una versione diversa, secondo la quale Sabiha Gökçen sarebbe stata un’orfana armena, finita in orfanotrofio dopo aver perso entrambi i genitori nel genocidio del 1915. Sarebbe stata quindi una dei tanti armeni islamizzati, bambini strappati alle loro famiglie, orfani cristiani allevati da musulmani, donne che scamparono al massacro finendo per sposare gendarmi turchi, le cui storie facevano ancora fatica a venire alla luce. 

L’articolo fu percepito come uno sfregio volontario dell’immagine non solo di Sabiha Gökçen, ma anche di Atatürk e in generale dell’identità turca. 

Le reazioni, durissime, arrivarono da diversi fronti: dalla Lega dell’Aviazione Turca, dai piloti veterani, dall’Università di Istanbul, e ovviamente dai media. Alcuni parlarono della notizia delle origini armene come “di una ferita sociale”, altri di una cospirazione dell’imperialismo occidentale. 

Dink non andò incontro a conseguenze legali per il suo articolo, ma subì intimidazioni e minacce da parte delle autorità, supportate, probabilmente, dalla polizia segreta. A questo si sommarono gli attacchi degli ultranazionalisti, che si radunavano ripetutamente di fronte alla sede di Agos urlando “ama questo paese o lascialo” oppure minacciando “potremmo presentarci all’improvviso una notte”.

All’inizio del 2007 l’ostilità nei confronti di Dink era fortissima, ma non abbastanza da metterlo in crisi, come scriveva in un articolo del gennaio del 2007. Era certo che il malinteso generato dai suoi articoli si sarebbe chiarito e che la giustizia avrebbe fatto il suo corso. 

Ma si sbagliava. Qualche giorno dopo, il 19 gennaio, Dink venne ucciso con tre colpi di pistola all’uscita dalla sede di Agos. 

A sparare fu Ogun Samast, un ultranazionalista all’epoca dei fatti ancora minorenne.  Samast fu stato processato in un tribunale per minori e condannato nel 2011 a ventitre anni di detenzione per il crimine commesso.  Insieme a Samast furono condannati Erhan Tuncel che aveva fornito l’arma e Yasin Hayal, che si ritiene abbia istigato Samast all’omicidio.

Nonostante le condanne, però, sulla vicenda rimanevano delle ombre, gettate dal sospetto che le responsabilità fossero da ricercare più alto, fra le forze di polizia che, pur essendo a conoscenza del pericolo che correva il giornalista, avevano deliberatamente deciso di non intervenire. 

Nel luglio del 2016, settantasei fra ufficiali di polizia e membri della gendarmeria paramilitare della regione di Trabzon e Istanbul furono accusati di complicità nell’organizzazione dell’omicidio.

Nel marzo del 2021 è arrivata la condanna per molti degli imputati. Il tribunale di Istanbul ha  condannato all’ergastolo aggravato l’ex responsabile del dipartimento dell’intelligence, Ramazan Akyurek, e l’ex capo dell’ufficio dell’intelligence di Istanbul, Ali Fuat Yilmazer. Condannato a 28 anni di reclusione l’ex comandante della gendarmeria di Trebisonda, Ali Oz. 

La responsabilità del reato è stata attribuita dai giudici a FETÖ, acronimo turco di “Organizzazione Terroristica Fethullahnista” utilizzato dagli organi governativi per definire la rete legata a Fethullah Gülen, il predicatore turco, esiliato negli Stati Uniti dal 1999, accusato dalla Turchia di essere stato artefice del tentato colpo di stato contro il presidente Recep Tayyip Erdogan il 15 luglio 2016. Lo stesso Gülen era nell’elenco degli imputati al processo, venendone assolto. 

Dopo il verdetto, la famiglia e gli amici di Hrant Dink hanno annunciato l’intenzione di ricorrere in appello e chiedere che le indagini proseguano perché emergano i nomi dei veri mandanti. 

Sembra inoltre che i processi e le condanne non siano riusciti a gettare luce sull’atmosfera oscura in cui è maturato l’omicidio, ricostruendo le cause del  clima di astio e oppressione che ha fatto di un diciassettenne un assassino. 

Clima che nel tempo non sembra essersi schiarito. Per questa ragione, ancora oggi, per il quindicesimo anno di seguito, molti cittadini di Turchia sono tornati in strada, in quello stesso punto, a ripetere “Siamo tutti Armeni. Siamo tutti Hrant Dink”.