7 Ottobre 2021
Per molti ridurre o eliminare il consumo di carne della propria dieta è una questione ambientale, etica o di salute. Ma per chi segue il Mahabhārata è anche una questione spirituale.
L’unione vegetariana internazionale celebra il primo di ottobre di ogni anno la giornata mondiale del vegetariano che fu istituita poco più di quarant’anni fa dalla North American Vegetarian Society; il primo novembre invece è la giornata internazionale del veganesimo.
Questo sembra il periodo ideale per rievocare l’antichità di un dibattito che oggi come allora risulta sempre molto attuale. Varie statistiche confermano che in Europa vegetariani e vegani sono un trend in veloce espansione. Anche in Italia, secondo un’indagine dell’EURISPES 2021 si evince che l’8,2 per cento della popolazione si dice vegetariana o vegana. Sempre più negli ultimi anni ci si pone la questione del consumo della carne e persino i nostri supermercati hanno notevolmente ampliato l’offerta vegetariana e vegana dei loro reparti. L’astensione dalla carne sembra essere facilitata dalla domanda di ecologisti, salutisti e amanti degli animali.
L’India fra tutti risulta il paese con la maggiore percentuale di vegetariani al mondo (tra il 20 e il 30 % circa), ed è proprio qui che migliaia di anni fa, la questione veniva dibattuta in una delle maggiori opere dell’epica Indiana, il Mahabhārata. Secondo le tradizioni religiose indù di cui il Mahabhārata è un’importante testimonianza, esiste un insieme di regole che dovrebbe essere seguito da tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro religione, il sāmānya dharma o legge universale. Una di queste leggi universali è la non violenza (ahiṃsā).
Qual è il miglior modo di vivere per l’uomo secondo il Mahabhārata? La sorprendente risposta di quest’opera incentrata sugli eventi della famosissima guerra del Kurukṣetra, è la non violenza; ed il vegetarianesimo ne è una delle espressioni più elevate. Alcune branche della saggezza popolare indiana osservano che in natura gli animali carnivori leccano l’acqua con la lingua, gli animali erbivori invece si abbeverano succhiando o bevendola. L’uomo che – fino a prova contraria – non ha la necessità di leccare l’acqua per abbeverarsi, viene detto ‘animale erbivoro’, e la dieta vegetariana viene vista come un fatto naturale per l’essere umano.
Il Mahabhārata assume un carattere militante nel trattare quest’argomento, esortando veementemente tutti gli esseri umani al vegetarianesimo, contemplando solo poche eccezioni alla regola per i guerrieri ed i sacrifici vedici. Una delle questioni che sorgono immediate è quella dell’empatia nei confronti degli animali. Molti di noi non pensano al fatto che dietro ad una confezione di bistecche del supermercato si nasconda la storia di un animale allevato e poi abbattuto appositamente. Eppure, ci dice il Mahabhārata, tutti gli esseri viventi temono la morte; la vita è il più grande dei doni, e tutti, uomini o animali, hanno a cuore la propria pelle.
Riflettendo su questo punto, dovremmo immedesimarci nei panni degli altri, e, nel caso in questione, negli animali che rischiano la macellazione. Questo pensiero potrebbe creare in alcuni di noi un forte sentimento di compassione e indurci così a rinunciare al consumo della carne.
Questa argomentazione però potrebbe non convincerci del tutto, ed infatti molti di noi non accetteranno questo tipo di “umanizzazione” dell’animale. Ed è proprio per costoro che il testo si immerge qui nel pragmatismo puro ed assoluto, illustrando il rapporto causale tra vegetarianesimo e karma. Come tutti noi sappiamo, la legge del karma è facilmente descrivibile con il vecchio adagio “si raccoglie ciò che si semina”.
E infatti scopriamo qui una dettagliata esposizione dei vantaggi, tutti pragmatici, che la dieta vegetariana porta con sé. A colui che rifiuta la carne si apre una cornucopia di premi e riconoscimenti. La riscossione di questi si confonde tra vita presente e vite future, ma comprende fama, bellezza, ricchezze, longevità, gloria, rinascite in paradiso (svarga), e ogni felicità. Al contrario, chi mangia carne, uccide o abusa di un animale, in questa o nelle vite successive, verrà a sua volta mangiato, ucciso o abusato. Così, allo stesso modo in cui il termine inglese ‘meat’, attraverso un piccolo anagramma diventa ‘eat me’, il termine Sanscrito per carne, ‘māṃsa’, viene scomposto in ‘sa’ e ‘māṃ’, operando così un gioco di parole che induce a credere che il significato nascosto della parola ‘carne’ sia in realtà ‘egli [mangerà] me’, e con ‘egli’ si intende proprio quell’animale che, divenuto bistecca, rinascerà in una vita futura per cibarsi di chi in precedenza lo aveva mangiato.
Un discorso diverso si introduce poi per coloro che nutrono un interesse nei confronti della vita spirituale. Primi fra tutti i monaci rinuncianti indù (saṃnyāsī) sono coloro che si dedicano completamente alla spiritualità e ad uno stile di vita ritirato: dopo aver fatto voto di non violenza verso ogni essere vivente, essi abbandonano la famiglia, il lavoro e gli averi, e vivono di elemosine allo scopo di raggiungere la liberazione dal ciclo delle nascite e morti (mokṣa). Coloro quindi che tendono ad una vita contemplativa o che si dedicano anche solo parzialmente ad essa si impegnano a controllare i propri impulsi e desideri, che normalmente ci proiettano nel mondo dell’azione, implementando le nostre azioni e quindi la catena delle nascite e delle morti. Importante ai fini dell’autocontrollo è governare l’azione fisica e mentale.
Il controllo sulle proprie facoltà e sui propri sensi risulta possibile quando le colpe di azioni precedenti sono state espiate o annullate da azioni meritevoli e/o dalla meditazione (di nuovo la legge del karma). Il consumo della carne è un grande ostacolo per l’estinzione delle colpe, sia perché esso presuppone un’azione violenta che di per sé comporta conseguenze “karmiche” nefaste, sia perché la carne è un elemento che inficia il controllo di facoltà e sensi.
Infatti, secondo la tradizione indù, la carne è un cibo di qualità infima, che porta all’insorgere di rabbia, eccitamento, torpore e ignoranza, tutte qualità che non vanno d’accordo con l’accrescimento spirituale. Seppur la carne sia quindi considerata una pietanza negativa, si ammette che essa sia alquanto gustosa.
Ed è proprio questo suo forte sapore che dà vita a quella che viene definita la “conoscenza della lingua”, quella brama che la lingua genera nelle sue papille gustative ogniqualvolta il sapore della carne torni alla memoria. È proprio quel senso di brama creato dalla salivazione delle papille gustative – che tutti noi conosciamo molto bene – che si pone come ulteriore ostacolo al controllo dei sensi e alla padronanza delle nostre azioni.
Il Mahabhārata chiaramente esorta ad abbandonare la carne poiché questa (seppur con talune eccezioni) risulta essere la migliore delle scelte per l’uomo. Anche se alcune delle argomentazioni che abbiamo visto risultano essere piuttosto insolite per il nostro modo di vivere o pensare, quest’antica esortazione, lontana da noi in tempo e spazio ci testimonia l’antichità e l’universalità di un dilemma che sempre più si fa spazio tra noi e gli scaffali delle nostre dispense.