Il confine della speranza

di

27 Febbraio 2019

Cúcuta e le città colombiane al confine col Venezuela sono lo scenario dello scontro sull’ingresso degli aiuti umanitari ma anche la frontiera già attraversata da tre milioni di persone in fuga. Un progetto multimediale cerca di raccontare storie e scenari

Tre camion carichi dati alle fiamme, diversi militari venezuelani disertori rimasti in Colombia, decine di feriti, colonne di fumo sul ponte Simon Bolivar.

Gli aiuti umanitari e il loro ingresso in Venezuela in queste ore sono stati il simbolo del braccio di ferro politico tra Maduro e il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Guaidò sulla legittimità della presidenza del paese. La tensione sfociata in violenza sul confine ha rotto il già difficile
equilibrio che in questi ultimi tre anni le autorità locali colombiane stavano cercando di mantenere accogliendo senza riserve un flusso ininterrotto di 5mila venezuelani al giorno: la crisi economica da cui fuggono ha per corrispettivo la più grave crisi migratoria del sud America.

E i ponti da cui quella fuga avveniva, sono a loro volta il simbolo di un equilibrio regionale delicato.

Un’odissea

Prima erano solo uomini in cerca di lavoro, adesso ad attraversare i ponti sul fiume Táchira come il Francisco de Paula Santander a Ureña e il Simón Bolívar, direzione Cúcuta in Colombia, sono famiglie intere.

A piedi, con le valige, i passeggini, carrozzelle con anziani e malati. Molti arrivano per curarsi,
comprare viveri e medicine e rientrare a casa. Altri sono stranieri che transitano per poi lasciare il paese, oppure sono colombiani di ritorno che per sfuggite alla guerra tra paramilitari e governo, e alla povertà, avevano scelto proprio il Venezuela.

3,4 milioni di uomini, donne, e bambini in totale dal 2015: di questi, un milione è rimasto in Colombia, 400 mila hanno raggiunto il Perù, 600mila l’Ecuador, 40mila il Brasile, perché in Venezuela un chilo di carne costa 400 bolívares su uno stipendio base di 1.800.

Per curarsi in ospedale, partorire, fare una qualsiasi operazione, occorre portare da casa garze e medicinali. Anche avere il passaporto è un’impresa.

Ci sono liste di attesa di anni e il pagamento della tassa per ottenerlo deve avvenire con la cripto-moneta venezuelana. Chi invece affronta il viaggio senza documenti, si ritrova ad attraversare le correnti del fiume con oggetti di plastica e corde addosso per non essere trascinati via.

Oppure sentieri nella boscaglia e altezze proibitive per il freddo e la fatica. 2.200 chilometri di frontiera, diversi punti per passarla illegalmente e storie che ricordano quelle di chi dal Messico vuole entrare negli Stati Uniti.

Cúcuta

I consigli su come viaggiare, indirizzi utili, prezzi e dritte si leggono su molte pagine Facebook. Serve farsi un’idea di cosa si deve affrontare e poi fa comodo leggere storie, esperienze, trovare contatti prima di partire. Perché una volta arrivati a Cúcuta, tutto è caotico: persone vagano senza saper dove andare o si ammassano lungo le strade per riposarsi; code si allungano fuori dall’ufficio immigrazione; la polizia non riesce a far fronte a problemi di ordine pubblico; abusivi si offrono di portare valigie per pochi pesos.

Ong e Chiesa curano l’accoglienza di chi arriva: pasti, distribuzione di kit di emergenza, alloggi temporanei. Ma poi bisogna provvedere a sé stessi e per farlo sono fiorite attività di ogni tipo, specie per chi è arrivato senza documenti.

Molti si fermano per ottenere un permesso di lavoro e inviare soldi alle famiglie rimaste a casa.
Anche elemosinando, vendono dolci e oggetti ai semafori o offrendo piccoli servizi, o prestandosi al contrabbando. Molte donne vendono i capelli per 10 dollari, altre finiscono nel giro della prostituzione.

Chi può si stabilisce nelle aree più povere della città o nelle baraccopoli sorte ai margini della boscaglia. I bambini, che spesso arrivano malnutriti e in cerca di cure oppure si ammalano per le epidemie dovute a condizioni igienico sanitarie scarse, corrono il rischio concreto di finire nelle reti dei trafficanti di esseri umani, o vengono reclutati dalle organizzazioni del narcotraffico. C’è chi invece prosegue il cammino verso altre città o verso altri paesi dell’America Latina, ma deve affrontare, nella maggior parte dei casi a piedi per via dei costi, prima gli oltre 3 mila metri della Cordigliera delle Ande e poi centinaia di chilometri. E anche in questo caso sono proprio i più piccoli a non farcela. Della loro sorte spesso non si ha neppure notizia.

Cifre in crescita

Al netto dell’aumento di episodi di razzismo contro i venezuelani e delle loro uccisioni, Bogotà fa fronte da sola ad un’emergenza migratoria che sta superando nei numeri quella siriano-irachena in Medio Oriente: ha lasciato aperte le frontiere, concesso permessi di mobilità che consentono di attraversare il confine più volte e creato programmi di scolarizzazione per i bambini venezuelani, con l’obiettivo di rendere la crisi una risorsa.

Ma il flusso di persone è enorme, il sistema ormai vacilla, e la rottura dei rapporti diplomatici voluta da Maduro nei confronti del governo di Bogotà per la questione dell’ingresso degli aiuti, ricade ora su chi affronta il viaggio diretto in Colombia.

Il flusso di migranti nell’ultimo anno è aumentato del 62%. Secondo le stime Onu, alla fine del 2019 ad aver lasciato il Venezuela potrebbero essere più di 5 milioni di persone, il 17% dell’intera popolazione.

Un progetto multimediale che vuole raccontare i volti e le voci dei venezuelani che stanno vivendo o hanno vissuto la crisi economica del loro paese e il viaggio sul confine.

Foto, video, interviste e reportage – con Cristina Mastrandrea – per non dimenticare che dietro i numeri ci sono le persone. Per promuoverlo è nato un crowdfunding su Produzioni dal Basso.

Per sostenerlo e conoscere i dettagli:
https://www.produzionidalbasso.com/project/border-of-hope/