di Carolina Muzzillo and Luca Nania
4 Settembre 2020
Da Belgrado a Minsk: l’Ue e l’approccio alle repressioni delle proteste popolari
A distanza di due settimane dalle elezioni presidenziali in Bielorussia e dallo scoppio della “rivoluzione delle ciabatte” – le manifestazioni popolari tuttora in corso nate per protestare contro la corruzione del governo e represse nel sangue dalla polizia – ci preme molto richiamare alla memoria quanto accaduto in Serbia a inizio luglio e aprire uno spazio di riflessione critico sulle risposte dell’Unione Europea nei confronti della violenza di stato ai suoi confini.
Martedì 7 luglio 2020 Aleksandar Vučić, il leader del partito progressista serbo (SNS), ha annunciato alcune nuove restrizioni dopo che era stata rilevata una seconda ondata di nuovi casi di Covid19.
Nel discorso ufficiale la popolazione è stata accusata di essere completamente responsabile di quanto accaduto. La sera dell’annuncio, un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione nella sede principale del Parlamento serbo, seguiti poi da migliaia di cittadini che si sono uniti spontaneamente.
La polizia ha represso la protesta con arresti, pestaggi gratuiti e lacrimogeni. Due filmati hanno avuto una diffusione piuttosto massiccia sui social media: quello del pestaggio di tre ragazzi seduti su una panchina da parte delle forze dell’ordine (mercoledì 8 luglio) e quello di una carica della polizia in cui un manifestante accasciato a terra veniva manganellato a turno dagli agenti (giovedì 9 luglio).
Altri filmati e foto mostravano gli agenti nell’atto di immobilizzare alcuni manifestanti schiacciando loro il collo a terra col ginocchio prima di arrestarli – la stessa “tecnica” entrata al centro delle polemiche dopo l’omicidio di George Floyd negli States.
Altre proteste sono avvenute anche a Novi Sad e Niš, ma non hanno ricevuto la stessa attenzione mediatica perché meno violente. Il governo riporta 150 arresti e la polizia ha reso noto che 130 agenti hanno richiesto aiuto medico; il numero dei feriti non è ancora stato reso pubblico.
L’appello presentato da numerose ONG serbe a Nils Mezer, relatore speciale alle Nazioni Unite sulla tortura, per chiedere di denunciare quanto accaduto in Serbia è caduto nel vuoto, come spesso succede quando le richieste vengono direttamente dai Balcani.
La narrazione da parte dei canali di informazione mainstream degli avvenimenti in Serbia – riportata anche dall’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS – ha seguito acriticamente il filone propagandistico delle dichiarazioni di Vučić e dei media filogovernativi, gli unici rimasti in Serbia. Le immagini delle proteste di Belgrado hanno poi raggiunto la stampa internazionale, ma non hanno avuto la risonanza sperata.
Nel trattare la questione è stato enfatizzato il ruolo dell’estrema destra nell’organizzazione e nella gestione delle manifestazioni, lasciando intuire che la popolazione serba si stesse opponendo a un rinnovo del lockdown.
I motivi che hanno spinto la popolazione serba a protestare sono molteplici e non è mai stato possibile intercettare un messaggio univoco, se non un’ampia richiesta di giustizia sociale e il bisogno di denunciare la diffusione di informazioni false da parte del governo.
Durante le nostre interviste la narrazione mainstream degli eventi è stata però denunciata e smantellata fin da subito. “Le proteste sono nate spontaneamente,” ha spiegato durante un’intervista I.V., studentessa dell’Università di Belgrado, “nessuno aveva pianificato di scendere in piazza. Davanti al parlamento ci siamo trovati a fianco di persone che hanno fatto largo uso di violenza per provare a entrare, ma i gruppi erano assolutamente scoordinati ed eterogenei. Noi studenti non avevamo nulla a che vedere con loro.”
Le proteste sono risultate completamente destrutturate e confusionarie, con varie fazioni in contrasto ed infiltrazioni di gruppi di estrema destra che hanno portato ad escalation di caos e violenza.
Come emerso dalla dettagliata indagine del Balkan Investigative Reporting Network (BIRN), per tutta la durata del lockdown i dati ufficiali del governo sulle morti e sui contagi non hanno coinciso con quelli riportati nel Covid19 information system nazionale.
La discrepanza era nell’ordine delle due o tre volte superiore tra le due raccolte dati.
“Tra il 19 marzo e il 1 giugno, 632 persone sono morte in Serbia dopo essere risultate positive al Coronavirus,” rivela Balkan Insight divulgando il report del BIRN, “più del doppio rispetto ai dati ufficiali che riportavano solamente 244 vittime”.
Sempre secondo le stime ufficiali, da metà aprile il bilancio delle vittime affette da coronavirus era diminuito drasticamente. Il governo ha dunque revocato lo stato di emergenza con ampio anticipo rispetto a tutti gli altri paesi dell’Eurozona (6 maggio), indetto le elezioni nazionali per il 21 giugno e, last but not least, permesso lo svolgimento di qualsiasi tipo di evento politico, sportivo o religioso – inclusi comizi elettorali, partite di calcio con tribune piene e cerimonie pubbliche. Tutto in piena pandemia.
Vučić, forte della sua retorica e premiato da un’ampia fetta dell’elettorato per essere riuscito a debellare il virus così velocemente, ha ottenuto il 63% dei consensi, assicurandosi una maggioranza schiacciante in Parlamento. Le istituzioni EU si sono congratulate per il risultato elettorale, sottolineando il proprio appoggio e l’intenzione di continuare a collaborare.
Già a marzo erano emersi numerosi dubbi circa le modalità e il tempismo con cui era stato proclamato lo stato di emergenza. Il primo caso di Covid19 nel paese era stato annunciato il 6 marzo a Subotica, proprio due giorni dopo la stessa dichiarazione dell’Ungheria di Orban.
Le misure restrittive sono entrate in vigore dopo settimane passate a schernire la diffusione del Coronavirus in Europa con argomentazioni semplificatorie e machiste tipiche della onnipresente cultura militarista serba: “Quando il coronavirus arriverà in Serbia, per noi sarà solo un semplice raffreddore. Noi serbi siamo più forti dei cagionevoli europei. Ci basterà bere un bicchiere di rakija”.
Rimane un interrogativo sul perché la propaganda di Vučić sia stata ritenuta così affidabile da essere divulgata da parte dei principali mass media italiani ed europei.
Il problema dell’indipendenza dell’informazione in Serbia dovrebbe essere cosa nota a chi si occupa di giornalismo nel resto d’Europa. Con l’ascesa di Vučić i media nazionali sono stati assoggettati e strumentalizzati per zittire l’opposizione e soggiogare la popolazione, in modo tale da assicurarsi una base di consenso politico sempre maggiore.
Come riportato da Reporters Senza Frontiere e Media Freedom Index, dal 2014 in poi la dipendenza finanziaria dai fondi governativi ha aumentato la pressione sui mass media e causato la totale assenza di pluralismo, favorendo un tipo di informazione interamente pro-governativa e soffocando la libertà di stampa in Serbia.
Guardando alla politica del leader dell’SNS questi dati non dovrebbero sorprendere. Quando Vučić cominciò la sua carriera politica come Ministro dell’Informazione, durante il regime di Milosević, introdusse una serie di misure restrittive verso i giornalisti per assicurare l’efficacia della propaganda di regime.
Al tempo Vučić militava come esponente di spicco del Partito Radicale Serbo (PRS), partito ultranazionalista e di estrema destra di cui prese le redini in seguito all’arresto e trasferimento al tribunale dell’Aja del leader Vojislav Seselj, non mancando di appoggiare pubblicamente criminali di guerra del calibro di Radovan Karadzić e Ratko Mladić.
Vučić abbandonò poi il PRS nel 2008 per entrare a far parte dell’SNS, rimodellando la propria figura di leader su una retorica di stampo moderato.
Nel 2014 si è trasformato, da euroscettico, in europeista di ferro, disposto a disinnescare le tensioni con il Kosovo pur di coronare l’adesione della Serbia all’Unione Europea. Negli anni Vučić ha più volte dichiarato di aver rotto i rapporti con gli ambienti di destra estrema, ma numerose inchieste hanno dimostrato come questi invece costituissero un elemento di continuità col passato.
I gruppi extraparlamentari ultra-nazionalisti e gli hooligans sono sempre stati arruolati dalla politica istituzionale per compiere attività criminali e di infiltrazione fin dai tempi delle guerre in Jugoslavia. Il caso più conclamato è quello di Željko Ražnatović, conosciuto con il nome di Arkan, capo del corpo ultras Delije della Stella Rossa di Belgrado.
Allo scoppiare della guerra in Jugoslavia il gruppo Delije si auto-organizzò e si divise in truppe paramilitari per compiere il “lavoro sporco” per conto dell’Armata Popolare Iugoslava prima in Croazia e successivamente in Bosnia-Erzegovina, mettendo in pratica un processo di pulizia etnica attraverso massacri, torture e stupri sistematici.
Similmente, come sottolineato dall’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCPR) e Alexander Shea, molte di queste compagini attualmente vengono arruolate da Vučić per effettuare processi di “controllo urbano” o di infiltrazione in caso di manifestazioni e/o proteste anti-governative al fine di scatenare caos e violenza e ledere la credibilità della natura stessa delle proteste, oltre che rendere “ammissibile” e “giustificabile” l’utilizzo di pratiche violente e abusive da parte delle forze anti-sommossa.
Ciò che troviamo ragguardevole circa la repressione delle manifestazioni del mese scorso è che queste costituiscono un cambio di tattica di Vučić all’alba del suo nuovo mandato, ma non differiscono nella pratica dalla strategia politica seguita scrupolosamente nei decenni precedenti: smantellamento dell’opposizione a ogni costo, controllo capillare sull’informazione e arruolamento di gruppi extraparlamentari nazionalisti e di tifoserie organizzate.
Anche se questa è la prima volta che le proteste dei cittadini serbi vengono represse con tale violenza da parte della polizia – quanto meno dalla caduta di Milosevic – riteniamo che la svolta sia avvenuta in un momento in cui l’uso sproporzionato della violenza sia oggettivamente diventato prassi politica non solo in stati a trazione militarista, ma anche nelle cosiddette democrazie liberali europee.
Nonostante le sue propensioni autoritarie e populiste, la figura di Vučić ha continuato a mantenere potere e legittimazione grazie alla sua capacità di far propria, almeno formalmente, l’agenda politico-economica di governi alleati, donors e investitori internazionali.
Nel caso specifico dell’EU, gli investimenti nei progetti di peace-building dagli anni ’90 a oggi hanno fatto sì che la priorità fosse fatta ricadere sulla stabilità regionale – anche al costo di istituire democrazie fantoccio come nel caso della Bosnia Erzegovina o supportare governi autoritari come quello serbo. Tra i vari investimenti che dimostrano aver avuto scarsa efficacia se non addirittura un impatto negativo sono indubbiamente quelli fatti per finanziare le riforme del settore della sicurezza (SSR) e più nello specifico quelle della polizia – centrali per le recenti proteste.
Le SSR erano indubbiamente necessarie nel periodo post-Milosević proprio per l’uso e abuso che ne era stato fatto negli anni ’90, ma le modalità con cui sono state messe in pratica sono tuttora motivo di controversie.
Tra le maggiori critiche mosse contro la comunità internazionale per indicare i fallimenti del SSR in Serbia si possono trovare: policy implementate su progetti di breve periodo e a limitata titolarità locale, assunzione di un expertise con scarsa conoscenza del contesto in cui operavano, assenza di coordinamento tra donor e il sovrapporsi di diverse priorità (geo)politiche.
Se da una parte la scarsa efficacia degli interventi va anche attribuita a fattori endogeni – quali la resilienza dell’intelligence serba dall’epoca di Milosević, ad esempio –, dall’altra è importante ricordare che questi hanno portato a un rafforzamento di un esecutivo dalla limitatissima accountability democratica.
A questo rafforzamento contribuisce anche l’ormai conclamata politica estera militarista del governo a guida SNS. “Nel 2019 il Ministero della Difesa ha ricevuto quasi 800 milioni di euro dalle casse dello stato,” riporta European Western Balkans, “oltre il 25% in più rispetto all’anno precedente. Un aumento mai visto da qualsiasi altro ministero”.
La stessa cifra è stata confermata anche per il 2020. L’aumento di spesa militare è spiegabile dal con il fatto che Vučić continua a mantenere le proprie alleanze grazie a programmi di scambio bilaterale che includono l’acquisto di armi e expertise militare con altri paesi. Tra i principali partner si trovano sono Russia, Francia, Cina, ma anche Israele, le cui relazioni sono andate consolidandosi anche a costo di mentire spudoratamente sulla storia dell’antisemitismo in Serbia.
Questi investimenti bellici sono stati motivo di polemiche diplomatiche che sono, culminate con la minaccia di sanzioni da parte degli States, ma sono stati criticati anche da figure di rilievo legate alla sicurezza nazionale: “Il bisogno di investire in capacità militari non è da contestare,” commenta il generale Petar Radojčič, ora vicepresidente del Strategic Policy Council, “ma è inappropriato equipaggiarsi senza prima fare una valutazione realistica delle condizioni ambientali, sfide in materia di sicurezza (militare e non), rischi e minacce, o un’analisi tecnica dettagliata delle esigenze di finanziamento o delle opportunità”.
Al consenso ottenuto attraverso la propria politica militarista va aggiunto che Vučić resta “l’autocrate preferito dell’Europa”: un leader considerato affidabile per quanto riguarda il dialogo con il Kosovo e la stabilizzazione di quello che può essere considerato un conflitto congelato con le autorità di Pristina – nonostante tenda contemporaneamente le mani verso Russia e Cina.
È proprio qui che va collocata la tendenza delle politiche di allargamento dell’Unione Europea verso i Balcani Occidentali, una tendenza volta a prioritizzare la stabilità regionale rispetto ai valori liberal-democratici di cui l’UE si autoproclama garante. Nel caso specifico della Serbia, alle istituzioni europee interessa ben poco la garanzia dello stato di diritto, la libertà di espressione e l’indipendenza dei media, l’unico campo su cui si giocano i negoziati di adesione è il riconoscimento della sovranità statale del Kosovo, ed è proprio questo il motivo per cui le istituzioni europee continuano a sostenere Vučić, sia apertamente che adoperando una forte negligenza nei confronti delle ormai palesi velleità autocratiche del presidente.
D’altronde l’inesistente interesse dell’Europa occidentale verso il problema democratico, civile ed umanitario nei Balcani Occidentali va inquadrato in un contesto storico specifico, che risale alle guerre in Jugoslavia durante gli anni novanta.
La malagestione di dieci anni di massacri nei Balcani Occidentali è una delle più vergognose pagine della politica estera della Comunità Europea.
L’Europa occidentale dovrebbe avere sulla coscienza non solo il sangue versato durante la guerra, ma anche il ricorso ai bombardamenti sui civili in Serbia e in Kosovo, l’adattamento alla cultura dello stupro sistematico da parte dei caschi blu olandesi in Bosnia, l’inabilità nella protezione della popolazione soggetta ai processi di pulizia etnica, l’ingiustizia transizionale del tribunale dell’Aja oltre che il rafforzamento dell’etnonazionalismo tramite i vergognosi Accordi di Dayton del 1995.
Le proteste, in ogni caso, si sono lentamente spente. Vučić ha vinto e la sua strategia ha funzionato; chi ha protestato pacificamente di fronte al parlamento si è stancato delle manganellate da parte della polizia, degli abusi, del sangue e dei gas lacrimogeni.
Le persone si sono stancate forse ancor di più a veder sminuite a livello internazionale le motivazioni per cui in quei cinque giorni si sono lasciate massacrare dalle forze anti-sommossa, o di essere associate a gruppi di estrema destra che, invece, loro stessi associano a chi li governa e che hanno più volte allontanato dalle manifestazioni in quanto personae non gratae.
Da questi avvenimenti si dovrebbero trarre delle valutazioni. Se si considera la convergenza delle pratiche anti-sommossa tra quelle che sono state definite “democrazie liberali” ed “illiberali”, non stupisce che le misure violente e dispotiche adottate per contrastare le proteste in Serbia non abbiano scatenato alcun tipo di reazione da parte delle istituzioni europee.
Al contrario, le proteste e la situazione democratica in Bielorussia oltre ad aver ricevuto una maggiore e più accurata copertura mediatica in questi giorni, hanno altresì provocato reazioni di dissenso da parte delle istituzioni europee.
Basti pensare alle dichiarazioni di solidarietà da parte dell’ex presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, oppure al comunicato ufficiale del Consiglio dell’UE rilasciato l’11 agosto in cui non solo sono state denunciate l’utilizzo della violenza e la repressione delle libertà dei media e di espressione, ma è stata espressa anche l’intenzione di adottare alcune misure nei confronti di Minsk.
È qui evidente una palese disparità nel trattare la questione bielorussa rispetto a quella serba dovuta, probabilmente, ad una diversità di interessi nei confronti dei due paesi.
L’unica reazione riservata a Belgrado è stata solamente quella di totale disinteresse da parte delle istituzioni e dei governi dell’Europa occidentale, perfettamente testimoniato dall’incontro a Parigi avvenuto nei giorni delle proteste tra Vučić ed Emmanuel Macron al fine di discutere dei negoziati con il Kosovo.
Da parte del presidente francese non c’è stato accenno alle proteste o preoccupazione a riguardo, le trattative politiche sono andate avanti ignorando totalmente quanto stesse accadendo nel frattempo a Belgrado.
Andrebbe sottolineato quindi che la società civile internazionale ha una parte di responsabilità se le proteste in Serbia si sono spente nel silenzio dopo essere state represse nel sangue.
Il fatto che i media europei facessero riferimento alla sola narrazione governativa ha portato le manifestazioni a essere tacciate come “irrazionali e stupidamente immotivate”, non riuscendo a ottenere pertanto neppure una denuncia ufficiale contro le pratiche violente e antidemocratiche del governo serbo. Ed è proprio l’assenza di solidarietà che ha contribuito a diffondere l’opinione che protestare non riuscirà a contrastare l’autoritarismo di Vučić e che non esiste un futuro per chi dissente.