9 Ottobre 2019
Lo spettacolo teatrale di Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, un’intervista alla ricerca di un racconto urbano
In prossimità del debutto nazionale al Teatro Nazionale di Genova – Anna Dora Dorno e
Nicola Pianzola di Instabili Vaganti – compagnia teatrale bolognese che si distingue nel panorama internazionale per il teatro di ricerca – ci raccontano i differenti aspetti delle città globali visitate durante i workshop da loro organizzati ai quattro angoli del globo.
Il titolo del nuovo lavoro The Global City – con il contributo di Mibac e Siae nell’ambito del programma Per chi crea – prende spunto proprio dalla sintesi dei ricordi e delle personali percezioni che queste megalopoli hanno lasciato sulla loro pelle.
Cosa si intende esattamente per città globale dal vostro punto di vista?
A.D.D.: Per me la città globale è sempre quella che si ricompone nei miei ricordi, regolarmente piuttosto confusi, sia a causa dei nostri velocissimi passaggi nello spazio in talune megalopoli, sia per la vorticosa dinamicità che vi si trova: quindi una massa informe di percezioni da dove riemergono in seguito una serie di aspetti chiari, anche se spesso incollocabili. Io memorizzo molto bene le immagini abbinate alle sensazioni di precisi contesti, ma maggiorente fuori dal loro collocamento geografico.
Voi che viaggiate molto e incontrate da vicino attraverso il teatro – e non solo – numerose persone di differenti lingue e culture, potete affermare che esista davvero una città globale?
A.D.D.: Le città sono sempre costruite a strati di cui il più superficiale, quello che tutti riescono a vedere, è indotto dalla politica e di ciò che si vuol far apparire, l’impressione che si vuol dare di quel luogo, specialmente nelle megalopoli. Da questo punto di vista è vero che esiste la città globale perché ultimamente molti luoghi si assomigliano, c’è una direzione precisa verso la globalizzazione, un sistema che ovunque è lo stesso ma per fortuna le città le puoi spogliare – quasi come una cipolla – nelle loro differenti stratificazioni. Più ci entri dentro e le vivi non come turista o di passaggio, più a contatto con le persone, allora ti accorgi che ci sono moltissimi altri aspetti che rendono ogni luogo unico.
Nell’accezione comune di “città globale” si intende una area geografica che può influenzare altri luoghi nel mondo, sia economicamente che per tendenze sociali, quindi un appiattimento, un livellamento degli usi e dei costumi che da sempre hanno contraddistinto i differenti popoli. Dalle righe del libro “Stracci della memoria” – dove si racconta lo specifico vostro progetto teatrale internazionale – si evince però che non dappertutto sia proprio così: per esempio i giovani performer cinesi a Pechino faticano a ricollegarsi a frammenti delle loro millenarie tradizioni, contro i messicani di Città del Messico che invece ancora le vivono nella quotidianità. Dove si trova il gap tra i differenti contesti?
A.D.D.: I motivi sono soprattutto storici, fatti importanti e evidenti: in Cina con la Rivoluzione Culturale è stato cancellato tutto il passato; il comunismo ha eliminato totalmente quella che era la tradizione precedente, dando nuovi strumenti intellettuali uguali per tutti. Negli anni tutto ciò ha prodotto il reset della memoria più lontana conservando solo la memoria recente, quella relativa al comunismo. In opposto invece la tradizione messicana, molto forte e molto ricca culturalmente, viene sì influenzata dai trend americani, egemoni anche dal punto di vista economico ma la conservazione delle tradizioni rimane salda – in contrapposizione alle contaminazioni – come reazione usata da strumento di resistenza. Però, qui come ovunque, l’influenza di Internet, dei social e dei nuovi media spinge molto il livellamento: la comunicazione si espande anche in luoghi
prima impensabili per posizioni geografiche. La standardizzazione è una conseguenza del capitalismo arrivato ovunque.
Se non troppi decenni fa le differenze culturali e sociali dei popoli erano ancora ben evidenti, adesso il concetto di diversità sembra essersi spostato e radicato piuttosto su ricco-povero, bianco-nero, bello-brutto, cattolico-islamico, uomo- donna. Se è anche vero che quanto citato si ritrova un po’ a tutte le epoche, le tradizioni – oggi sempre più fragili – risultavano un legame che teneva molto più coesa la popolazione di una determinata area geografica, un manto caldo dove ci si poteva rifugiare.
N.P.: Paradossalmente io vedo che le tradizioni si sono conservate di più in popoli che sono emigrati in altre nazioni, rimasti molto attaccati alle proprie memorie folcloriche più autentiche, tramandando queste forme di generazione in generazione in maniera più forte, legate probabilmente alla nostalgia per il proprio paese. In contrapposizione io vedo alcuni simboli di livellamento della globalizzazione che sono presenti anche nelle aree più remote che raggiungiamo: smartphone e internet – spesso nei villaggi più isolati di Cina e India – sono in mano a molti, magari incollati allo schermo del telefonino a guardare un video, mentre non è ancora presente la corrente elettrica in maniera costante. Tutto questo è avvenuto negli ultimi 10 anni: per esempio in Corea del Sud, dove siamo stati la prima volta nel 2009, in metropolitana erano già tutti incollati al cellulare con il quale, attraverso le app, facevano qualsiasi cosa. Nessuno aveva più una borsa a tracolla con gli effetti utili, ma uno smartphone appeso al collo. Il concetto di città globale in teoria e in pratica sono due cose differenti: Mumbai ne rispecchia le caratteristiche principali, altre megalopoli indiani resistono e affermano la propria identità. Ma è proprio grazie alla globalizzazione che abbiamo conosciuto il vero volto della città contemporanea e abbiamo deciso di svilupparne un concetto personale: chi abita in mezzo alle megalopoli è come se abitasse in mezzo alla campagna, è il suo habitat naturale; di questo noi parliamo con i performer che partecipano ai nostri workshop, per indurli a riflette su tematiche a cui non hanno mai pensato e che vivono in maniera spontanea, qualcosa che gli appartiene. Delle tradizioni mi hanno colpito quelle forme di sopravvivenza che resistono in maniera spontanea, come per esempio il fedele che prega in un tempietto rimasto in piedi – in Nepal o India – in mezzo a una strada a quattro corsie. Mi colpisce anche la drammatica dicotomia di queste città dai palazzi con le facciate bellissime e all’avanguardia dei centri commerciali, che uscendo dal dietro trovi invece l’underground della città sporco e buio. Aspetti che ci affascinano perché noi abbiamo scelto di vivere in mezzo alla natura, un luogo privilegiato dal quale poi poterci immergere in queste città e godere del loro senso di spaesamento e sovrastimolazione, arrivando qui acerbi e purificati per poterne a captare tutte le sensazioni che la città ti può offrire.
Il vostro lavoro di ricerca teatrale è indirizzato più alla denuncia o alla possibilità?
A.D.D.: Non lo definirei di denuncia, e possibilità mi piace molto di più come concetto. Soprattutto lo definirei di riflessione intesa in vario modo: di riflettere attorno a dei temi, che comunque potrebbero avere l’aspetto della di denuncia in forma collaterale, ma di riflessione in senso di qualcosa che si riflette, anche esteticamente, e che combina insieme contenuto e contenitore, forma e sostanza.
I vostri componimenti si esprimono più attraverso i cinque sensi che le parole ma talvolta, a causa del vissuto di una persona, non si riesce subito a trasmettere ciò che si vorrebbe: mi riferisco genericamente a un pubblico di differenti paesi, lingue, culture, e la ricetta potrebbe equivalere anche tra singoli – o in senso più esteso – tra popoli. Una sorta operazione di diplomazia drammaturgica? Come si arriva a un messaggio universale?
N.P.: Sicuramente lasciando contaminare il nostro linguaggio dai diversi codici, stilemi, imprinting culturali che abbiamo trovato nei paesi che abbiamo attraversato. Come noi abbiamo trasmesso qualcosa agli artisti con i quali siamo venuti a contatto, anche noi abbiamo assorbito da una comunicazione performativa della gestione del tempo, del ritmo, dello spazio, una comunicazione intima e di approccio allo spettatore. Nel corpo qualcosa diventa universale aumentando le sue capacità espressive, seppur potendo tornare al proprio imprinting, visto che siamo tutti figli di una qualche cultura, ma talvolta dimenticandolo e lasciandosi andare a imparare altri codici espressivi. Universale è poi l’immagine che, attraverso la multimedialità, globalizza e uniforma: mai come ora l’immagine è stata così potente. Siamo nell’era dello slogan visivo che diventa virale. In questo noi abbiamo fatto un’operazione semplice e onesta attraverso alcuni appunti visivi catturati in queste città e riportati con delle proiezioni che restituiscono l’attimo, l’atmosfera, il glimps – scorcio. Quello che anche ha segnato il nostro percorso è il testo plurilinguistico: dopo diversi anni di lavoro abbiamo deciso di tradurre le nostre composizioni drammaturgiche in altre lingue, soprattutto dove c’era una sorta di denuncia politica. Made in Ilva è stato il primo testo tradotto in due lingue, anche se partiva da una situazione italiana, trasversalmente comprendeva tematiche universali riscontrate in tutte le grandi città del mondo: la condizione delle morti sul lavoro, l’inquinamento, la salute pubblica. Desaparecidos 43– ulteriore nostro lavoro – viene rappresentato in tre diverse lingue contemporaneamente, ovunque lo portiamo. Stiamo globalizzando il nostro teatro e anche noi stessi perché siamo immersi spesso in altre lingue e culture, per rimanere un po’ fedeli anche agli spunti da dove nascono i nostri lavori. Il nostro teatro in questo si lascia contaminare, così come siamo nati analogici per mezzi espressivi ma ci lasciamo sedurre dal digitale, un contrasto che ci piace molto e che apre la mente in più direzioni, attingendo dal passato ma tuffandoci nel futuro senza rifiutare il progresso.
Siete ormai vicinissimi al debutto: quali sono le vostre aspettative?
A.D.D.: Intanto speriamo che vada tutto bene visto che nel percorso alcune vicende ci hanno già esso alla prova, ma siamo molto curiosi di vedere come andrà il lavoro perché ci affiancheranno un gruppo di giovanissimi attori e danzatori che sono entrati a far parte della produzione grazie al bando Per chi crea di Mibac/Siae che abbiamo vinto di recente e ci ha permesso di includerli come coro scenico facendo un passo avanti nella messa in scena: non solo lavorando attraverso i nostri specifici ricordi ma di condividerli con i nostri giovani colleghi e, simultaneamente, con gli spettatori.
N.P.: L’impressione che abbiamo è di costruire una città virtuale di cui non rimarrà niente di materiale ma solo dei ricordi, come per le città che attraversiamo. Speriamo che questi ricordi attivino altre esperienze negli spettatori che potrebbero aver vissuto le stesse città ma ricevuto, in tempi diversi, altri tipi di percezioni. Inoltre è per noi un passo importante aver sul palco dei giovani che hanno seguìto dei percorsi pedagogico-performativi da noi proposti su progetti specifici e passano a far parte di una produzione effettiva, seppur come coro. Quindi a far compiere a queste persone una formazione completa all’interno di
un lavoro di ricerca di un progetto complesso, criterio che dovrebbe sempre far parte della formazione di un’artista. Concludo con i ringraziamenti al Teatro Nazionale di Genova che ha scommesso su un prodotto di più piccole dimensioni, e poi si è ritrovato con una produzione molto più composita grazie al contributo che abbiamo ricevuto con il bando: un bel risultato anche per loro. Insieme a Mibac e Siae ringraziamo anche tutte residenze che ci hanno ospitato e ci hanno consentito step-by-step di costruire questa città.