Una ragazza fenicia scappa dalla città di Tiro in fiamme sotto assedio. Scappa, e inizia a correre e il piede affonda nella sabbia perché c’è il deserto, e continua la sua fuga finché il piede si bagna perché incontra il mare sterminato davanti. Compare un toro, bianco, che si curva, le offre il dorso facendosi barca, la ragazza sale, attraversa il Mediterraneo. E sbarca, approda, nell’isola di Creta. Il nome della ragazza è: Europa. Questa è la nostra origine. Noi siamo figli di una traversata in barca.
La mano dell’uomo che racconta questa storia smette di fendere l’aria, si chiude istantaneamente in un pugno:
Scuru.
E il buio avvolge la sala. Lo spettacolo è finito.
L’uomo che racconta è Davide Enia, drammaturgo, attore e scrittore siciliano che conclude così, al teatro India di Roma, lo spettacolo L’abisso, tratto dal suo libro Appunti per un naufragio (Sellerio, euro 15). Accompagnato dal musicista Giulio Barocchieri, Enia si fa cantastorie e il suo cuntu ci porta a Lampedusa, isola-approdo sulla quale gli sbarchi dei migranti si susseguono da decenni, isola-teatro nella quale va in scena quella cosa complessa e contraddittoria e meravigliosa che noi chiamiamo umanità. Isola che politicamente è parte di un’altra formazione insulare, la Sicilia e quindi dell’Italia, dell’Europa, ma che geologicamente appartiene alla placca tettonica africana ed è dunque, necessariamente, per legge di natura, un ponte tra là e qua, tra Africa ed Europa.
Questo dettaglio sull’appartenenza geologica di Lampedusa all’Africa, a Enia viene rivelato da suo zio Beppe, figura di riferimento affettivo preziosissima, che nel periodo in cui l’autore viaggia tra Palermo e Lampedusa per conoscere e comprendere la realtà della migrazione e dell’accoglienza, di cui poi ci narra, combatte contro il cancro.
Il racconto che Enia fa, prima nel libro e poi a teatro, intreccia infatti storie privatissime – come il rapporto con il padre e lo zio (e tra loro due, fratelli) – con la Storia che si compie durante gli sbarchi. Perché dentro la Storia ci sono sempre le storie dei singoli: dello scrittore che vuole conoscere per raccontare, di suo padre che lo accompagna in questo viaggio bellissimo e atroce, dello zio che li segue a distanza mentre lotta per la vita, del sommozzatore grande come un gigante che scoppia a piangere nel descrivere cosa significa salvare un bambino in mare aperto, del custode del cimitero che accudisce le tombe dei morti senza nome, dell’amica Paola che accoglie i minori sbarcati al molo Favaloro con dei pupazzetti di plastica a forma di dinosauro perché se non ci fossero quelli come lei ad accoglierli, chi lo farebbe? Nuddu, nessuno.
Ho incontrato Davide Enia a Roma, dopo il suo spettacolo.
Due parole mi sono venute in mente già dopo aver letto il libro, ma soprattutto dopo averti visto in scena: grazia e rispetto. Che tra l’altro sono caratteristiche di quell’umanità che fai emergere così forte nei tuoi racconti. Ho pensato che sono forse le uniche cifre possibili per rendere raccontabile e fruibile l’orrore dei viaggi in mare, degli sbarchi. È così?
Io e Giulio Barocchieri avremmo potuto straziare, fare un lavoro di grande impatto, raccontare elementi ancora più crudi e brutali, ma il risultato sarebbe stato una grandinata di pugni, schiaffi e coltellate che dopo tre giorni sarebbe stata assorbita e dimenticata. Invece con questo spettacolo abbiamo la pretesa di lanciare dei semi, convinti che tra qualche mese, chi lo ha visto lo ricorderà per intero. Abbiamo strutturato ogni passaggio in modo che questa grazia a cui facevi riferimento renda tutto non soltanto fruibile, ma depositabile nell’interiorità dello spettatore.
In effetti, come scrivi anche nel libro, chi subisce un trauma (come potrebbe essere per lo spettatore “preso a pugni”) cerca di dimenticarlo in fretta…
Sì, però se io prendessi lo spettatore a pugni, prenderei a pugni anche me stesso. Dentro questo progetto c’è una grande componente di egoismo da cui non si può prescindere: io ho iniziato a lavorare allo spettacolo per creare distanza tra me e i fatti che avevo vissuto a Lampedusa, una distanza che il romanzo non aveva esaurito. Dopo la scrittura ho avuto bisogno di continuare questa rielaborazione attraverso l’altro mio linguaggio che è quello scenico, del corpo. Io sono figlio della Sicilia, dove a megghiu parola è chidda ca nun si rici, la parola migliore è quella che non viene detta: e allora o la si scrive o la si agisce nel corpo. Ho dovuto comprendere come potevo raccontare qualcosa di smisurato con tutti gli strumenti che avevo a disposizione: parole, gesti, musiche.
Lo scrittore pachistano Mohsin Hamid, a proposito del senso della nostra umanità messo a rischio da questi tempi difficili mi ha detto: “Se vediamo un bambino che annega e non ci buttiamo in acqua per salvarlo, ecco cosa accade: il bambino muore, ma anche qualcosa di noi svanisce per sempre”. Tu, similmente, scrivi: “Alla fine, tutto si riduce a un bivio: se c’è una persona che sta affogando nel mare in tempesta, io chi sono? Quello che si tuffa, anche a rischio della propria vita, o colui che, terrorizzato dalla morte, rimane aggrappato alla terraferma”? Ed è una domanda terrificante, perché se ti rendi conto che tu sei quello che rimane sulla terraferma, è come se scoprissi l’abisso dentro di te…
No, è come se scoprissi che dentro il tuo abisso, che tu possiedi a prescindere, c’è uno specchio che riflette l’immagine di un miserabile: te stesso. L’abisso lo abbiamo tutti: puoi scegliere o meno di fronteggiarlo, ma c’è. Se lo fronteggi scopri, là in fondo, la risposta che tu dai all’abisso stesso, che è la qualità del tuo agire. Una cosa sconcertante per la mia identità culturale di persona che ha avuto il privilegio di studiare e ha sempre dato grande importanza allo studio, è che in certi momenti la cultura non conta niente. Non sono i libri a decidere di che pasta è fatto un essere umano.
Ci sono persone che hanno la quinta elementare e portano sulle spalle il peso del mondo dando seppellimento ai corpi giunti dal mare privi di vita, piantando per loro alberi nel cimitero di Lampedusa; e ci sono persone che hanno studiato e devastano l’umanità.
Tu sei, in un dato momento, come decidi di agire. E l’azione viene determinata da un impulso, da scelte che fai sul momento e che non sono prevedibili. Non puoi sapere se sarai paralizzato dalla paura, se penserai ai tuoi figli, e non è nemmeno detto che sia sempre giusto tuffarsi in mare, perché potresti andare incontro a morte certa e in quel caso vale la logica dei numeri di cui mi ha parlato il sommozzatore di Lampedusa: meglio che muoia una sola persona, piuttosto che due. La verità è che ti trovi di fronte a una smisuratezza che, qualunque cosa tu faccia, avrà un deposito dentro di te. Ogni persona reagisce in maniera diversa. Il comandante della Guardia Costiera che io chiamo il Samurai, per esempio, si porta dentro le stimmate di tutte le morti che non è riuscito a evitare, nonostante sia molto più elevato il numero delle vite che ha salvato. Però è così che funziona, si ridà pienezza alla parabola della pecorella smarrita: si lascia un intero gregge per cercare il singolo. È un impulso connaturato all’essere umano, uno degli universali che oggi si vogliono negare. Ma quanto sta accadendo, che è la Storia, richiede il confronto con gli universali, con le parole più assolute che abbiamo per processare questo tempo. Parole come misericordia viltà, pietas. Come orrore.
Quando la tua amica Paola si accorge che fuori dalle sue finestre è in corso uno sbarco, la sua prima reazione è: “Chiudiamoci dentro”. Dura pochi secondi. Poi apre le porte e da allora non ha più smesso di essere attiva, a Lampedusa. Ma il ricordo di quell’impulso alla chiusura le fa provare, ancora oggi, una profonda vergogna. Eppure la paura è normale. C’è chi la supera e chi non ci riesce, magari per mancanza di strumenti. Credi che un racconto come il tuo possa incidere su questo sentimento così umano e che oggi, in Italia, sembra prendere il sopravvento?
La pretesa, con il libro e con lo spettacolo, è quella di provare a instillare delle domande, modificare il punto di vista. All’inizio io stesso non sapevo perché avessi deciso di inserire nella narrazione il rapporto tra me e mio padre: solo con il tempo ho capito che l’obiettivo era rendere umano ciò che stava accadendo intorno a noi. L’assoluta personalizzazione che faccio rispetto al mio “naufragio”, alla malattia di mio zio, al rapporto con mio papà, serve a umanizzare qualcosa che nella narrazione è disumano, freddo, lontano. Serve a rimettere il fuoco su ciò che accade, facendo in modo che le persone si domandino: “Ma io cosa faccio? Io cosa sono?” squarciando quell’indifferenza che a volte è anche una difesa. E poi c’è un altro aspetto, legato alla mia professione che mi porta a cercare continuamente risposte. Le domande in questo caso erano: come si può scrivere del tempo presente e farne uno spettacolo, senza spettacolarizzare ciò che accade e strumentalizzare i corpi? La risposta è stata dare voce alle persone, astenere il giudizio, recitare senza caricare nulla. Buttare lì le parole, lanciarle con la grazia di chi si è a lungo esercitato in quel gesto, calibrandolo in modo che il peso arrivi esattamente dove deve arrivare. Questo è il rispetto che io e Giulio abbiamo nei confronti del pubblico e di coloro le cui storie portiamo in scena. Io cerco, tramite gli strumenti che ho – le parole, i gesti, i silenzi, le luci, le musiche – di ricostruire un nucleo di senso. È come fare il lavoro del sarto: hai il linguaggio, ago, filo e cerchi di tessere assieme le cose. E a volte il ricamo ti regala una coperta per superare l’inverno.
Quindi è questo filo a legare la narrazione di quanto avviene a Lampedusa con la tua storia personale?
Il leit motiv di questo progetto non è la migrazione, né lo spostamento, né la morte, ma l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontri l’alterità di un essere umano diverso da te, con i suoi limiti, le sue miserie, i suoi splendori. Incontri la malattia. E incontri l’oltranza che è l’indicibile, la morte, la Storia, la mancanza di parole per processare quanto sta accadendo, la consegna di te stesso a un silenzio che non è rassegnazione, ma accettazione della smisuratezza.
Però, nel frattempo, in questo abisso emergono gesti di fortissima fratellanza e misericordia, esempi luminosi.
Nello spettacolo dico una cosa che mi colpì molto quando la ascoltai da mio zio: lui, che era un medico, quasi in punto di morte dichiarò che era contento che il nostro servizio sanitario garantisse le stesse identiche cure a lui, che nell’ospedale dov’era ricoverato aveva lavorato, e al ragazzo libico giunto dal mare con cui divideva la stanza. Perché quello che abbiamo di più prezioso è la vita. Io devo tantissimo a tutte le persone che ho nominato nel libro: è stato grazie a questa rete che sono riuscito a salvarmi quando io stesso sono naufragato. E il mio naufragio sono stati la morte di mio zio, lo scoprire il fallimento della parola, la difficoltà di scrivere, l’accettazione del fatto che se mio padre non aveva mai comunicato molto con me, era perché neanche io ero disposto al dialogo.
Se le parole sono contenitori – come nel libro dici bene a proposito di Lampedusa – cosa racchiudono per te le parole Naufragio e Abisso?
Le parole hanno luci e ombre. Naufragio ci porta immediatamente a una situazione di disperazione, in cui rischi di morire. Però è anche l’unica condizione per poter approdare a un altrove dove altrimenti non saresti mai andato.
Se hai la fortuna, la forza, l’abilità di sopravvivere al naufragio, ti trovi in territori da esplorare che ti raccontano molto di più non solo della realtà, ma di te stesso: perché sei sopravvissuto, ce l’hai fatta.
Ogni cosa ha dentro di sé una possibilità. Quello che sta accadendo in questo presente macilento e derelitto ne ha una positiva: sta svelando esattamente di che pasta sono fatte alcune persone che abbiamo attorno a noi. Per quanto riguarda la parola Abisso, si dice che i Greci conobbero la misura perché riuscirono a fronteggiare l’abisso: quindi, nel momento in cui tu metti di fronte al vuoto sterminato, là inizi a pensare a qualcosa che possa misurarlo. Affrontare il fatto che dentro di noi c’è uno sbalanco è l’unica condizione per capire fin dove esso arriva e quanto tempo ci possiamo impiegare per arrivare al fondo e scoprire cosa c’è. E secondo me c’è sempre uno specchio: sia esso pozzanghera, fiume o vetro. C’è il riflesso di chi siamo noi quando arriviamo là sotto. Stare sull’orlo dell’abisso è prendere conoscenza del fatto che tu magari hai l’abilità e la forza per non sprofondarci o – se sei fortunato come me e hai una rete di esseri umani che ti sorregge – ti puoi lanciare perché sai che qualcuno ti aiuterà a risalire. Anche l’abisso è una possibilità.
Credi nel potere curativo della parola?
È l’unico strumento che possa curarci. Ma scrivere non basta: bisogna leggere ad alta voce. Solo quando ascolti la tua voce che nomina i fatti, anche in maniera confusa, prendi coscienza di quello che ti è successo. Da quel momento può iniziare la guarigione.
L’Abisso è in scena al teatro India di Roma fino al 28 ottobre, poi andrà in tournée in altre città italiane, qui tutte le date.
Le foto di questo articolo sono di Dante Farricella.