“A Sernovodsk non ho incontrato la Cecenia, ma il mondo interiore dell’esercito russo vomitato sul Paese. L’entità dei danni superava la mia capacità di percezione. Benché volessi concentrarmi, la mia memoria era in grado di trattenere solo dei frammenti.”
Irena Brežná parte, negli anni Novanta, alla volta della Cecenia in fiamme. Lascia la sua comfort zone in Svizzera, dove vive, per raccontare, più che la guerra, quelle donne che ha visto in televisione mettersi, le une strette alle altre, di fronte ai carri armati russi. Quell’immagine le aveva dettato un’urgenza: raccontarle.
Quelle donne, quelle lupe, che piangevano strette le une alle altre, tra le macerie della loro vita, Irena le racconterà in una serie di reportage dal 1996 al 2011. Quei reportage, sono diventati un libro, Le lupe di Sernovodsk, edito in italiano da Keller, nella ormai mitica collana Razione K.
La traduzione di Alice Rampinelli, la dolorosa e straordinaria introduzione di Anna Politkovskaja, la postfazione di Lucia Sgueglia: tutto concorre a fare da cornice a testi davvero taglienti, senza sconti, onesti.
Brežná non prova neanche a essere imparziale, inaugurando all’epoca una metodologia di reportage di guerra che oggi è sdoganata, ma che un tempo risultava sgradita ai sostenitori dell’imparzialità (vera o presunta) delle cronache dei conflitti.
Brežná ammette, da subito, che parte del suo magro bagaglio da inviata è la sua ingombrate memoria personale. La donna che, nel 1968, fuggì con la famiglia dalla Cecoslovacchia per un esilio senza alternative. Quella donna, oggi, vedeva lo stesso destino violento in quelle donne cecene che non avevano scelta.
I reportage della scrittrice e giornalista sono un elenco di piccole cose. I funerali, i sopralluoghi delle famiglie nelle case distrutte. Oggetti, animali, pezzi di vite a pezzi che raccontano più delle stesse persone. Reportage abitati da assenze, scritti vergati con la rabbia del testimone oculare e impotente.
La guerra viene raccontate per immagini, molto forti, per voci, frammentate, minime. Ma dolorose e civili, davvero civili, nel senso delle vittime di tutte le guerre.
“Viene prima la guerra, o le parole per raccontarla? Quando le nubi di un conflitto armato si addensano su una terra, il linguaggio è già pronto ad afferrarle? Un vocabolo sbagliato può segnare la condanna di un intero popolo?”
“E’ la prima volta che faccio l’inviata di guerra. Davanti a me c’è il mio primo cadavere di guerra. Quando nel fango vedo un buco nero che si apre al posto di un viso distolgo lo sguardo e con le mani copro il mio, di viso, indietreggio, mi unisco al doloroso ululato delle contadine con le quali ho rinvenuto il corpo.”
Nel corso degli anni, Brežná è capace sempre di trovare un eccellente equilibrio tra l’analisi e il racconto, tra il quadro generale e le storie minime, personali.
Attraverso i suoi scritti seguiamo le conseguenze di quel conflitto, sui russi e sui ceceni, gli sviluppi politici che hanno portato alla situazione attuale, l’evolversi del conflitto e della situazione interna alla società cecena, l’avvelenamento di un pozzo di tradizioni, valori, rapporti.
La guerra ammala chi la subisce e chi la fa, corrode, corrompe, esseri umani e città, terreni e fonti, presenti e futuri.
Al di là delle valutazioni sul conflitto, i suoi attori principali, i leader politici, il giornalismo di guerra e quello televisivo, ciò che colpisce e resta è la capacità di una grande autrice di partire dalle persone, dalle vite, dalle case, dagli oggetti quotidiani per raccontare un mondo intero.
Una donna, tra altre donne, che attraversa macerie. Si proteggono a vicenda, una di loro racconterà al mondo, le altre racconteranno a lei. Anche questo è giornalismo, quello che si offre come veicolo di umanità.