13 Febbraio 2019
Recensione del libro “Sconfinare. Viaggio alla ricerca dell’altro e dell’altrove” della giornalista Donatella Ferrario
Anche quando si cerca di banalizzarle, di appiattirle a un solo significato, le parole contengono un mondo. Cambi il punto di osservazione e ne scorgi un nuovo aspetto. Ti sposti ancora e la geografia si arricchisce di ulteriori elementi. Per scoprirli, però, occorre avere l’audacia e la pazienza di s-comodarsi, uscire dalle proprie confortanti certezze per intraprendere un cammino dagli esiti imprevedibili.
La parola confine, per esempio, indica la linea di demarcazione tra uno spazio e un altro, il punto esatto dove uno finisce e inizia quello di chi sta di fronte: la frontiera, appunto.
Oltrepassare un confine vuol dire, certo, porsi nella condizione di dover esibire un documento che attesti il tuo diritto a trovarti in uno spazio che non è il tuo – o meglio, non è quello in cui il destino ti ha depositato alla nascita – e, nel caso in cui tu non dovessi possederlo, essere perseguito in quanto fuori legge. Ma è davvero tutto qui? Non è forse confine lo spazio vitale che ogni giorno ciascuno di noi, istintivamente, rispetta? Non c’è un confine anche tra un comportamento sano e uno patologico?
Non si valicano forse frontiere quando si diventa amici di qualcuno, si scatta una fotografia, si traduce un testo in una lingua diversa da quella in cui è stato scritto?
La giornalista Donatella Ferrario ha assunto su di sé audacia e pazienza ed è andato a visitarlo, il mondo racchiuso nella parola confine. Come guide si è scelta gli scrittori Antonia Arslan, Pap Khouma, Claudio Magris e Abraham Yehoshua, lo psichiatra Eugenio Borgna, il fotografo Uliano Lucas, il sacerdote e poeta José Tolentino Mendonça, il giornalista Paolo Rumiz e il regista e scrittore Giorgio Pressburger (parte sin dall’inizio di questo progetto anche se scomparso prima che fosse concluso).
Il risultato è un bel libro che si intitola Sconfinare. Viaggio alla scoperta dell’altro e dell’altrove (edizioni San Paolo, euro 16) che definire una raccolta di interviste sarebbe riduttivo. Perché Donatella Ferrario non intervista ma s-confina, lei per prima, nel mondo dell’altro. Bussa alla porta, rispettosamente si accomoda e, parlando, intesse un dialogo.
«La parola è sempre frontiera, perché mette in relazione», afferma non a caso il portoghese José Tolentino Mendonça, attuale Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, durante uno degli incontri più ricchi di suggestioni del libro. Sono le parole a creare la magia del contatto.
Tanto che, racconta il sacerdote, l’inizio del Vangelo di Giovanni, solitamente tradotto con: “In principio era la Parola” si è prestato nei secoli a molteplici interpretazioni, tra cui “In principio era il desiderio di comunicare” o “In principio era la relazione”, come propose Simone Weil. Ma per costruire un rapporto con l’altro, per esempio qualcosa che si possa chiamare amicizia, occorre tempo. «L’amicizia è un’arte, è un cammino paziente. È costruita nel tempo, è una scultura fatta di giorni. Ed è l’amicizia che, a volte, ci fa camminare oltre la frontiera», aggiunge Mendonça.
Le parole creano il ponte, dunque: poi siamo noi che, guidati dal desiderio, dobbiamo percorrerlo fino in fondo, fino a raggiungere l’altro e scoprire il suo mondo.
Ma non solo, perché come dice il giornalista e viaggiatore Paolo Rumiz: «Di fronte all’altro scopri cose di te che non sapevi. È la “ricerca di sé” della cultura greca: il conosci te stesso nasce proprio lì e non è una cosa che puoi coltivare riempiendoti di libri, ma che devi affrontare attraverso l’elemento fisico dello spostamento spaziale, che deve avvenire con i suoi tempi e offrire la possibilità di incontrare delle persone».
Che lo si faccia in senso reale o metaforico, addentrarsi nel territorio dell’altro, avverte Rumiz: «È sempre frutto di un attentissimo e sapiente compromesso tra la nostra identità e il rispetto delle identità altrui».
Quando si entra in relazione si cammina in costante equilibrio tra la piena consapevolezza di sé e il riconoscimento dell’altro. Lo spiega bene lo psichiatra Eugenio Borgna: «Riconoscere i confini significa ammettere istantaneamente i nostri limiti. Ci sono confini geografici, psicologici, ma anche etici: devo rispettare il confine che mi separa dall’altro senza spezzare un ponte di dialogo, un colloquio senza fine con l’altro da me. Quindi percepire i confini significa riconoscere anche che dall’altra parte ci possano essere capacità, attitudini, esperienza maggiori, più intense, significative delle mie».
È questo, forse, a creare allarme in molti. La prospettiva di scoprire che dall’altra parte esista qualcosa, qualcuno, capace di annientare la propria certezza di sapere come si sta al mondo.
Ma se chiudersi non è la soluzione, non lo sarebbe nemmeno cancellare i confini. Perché ne abbiamo bisogno: per distinguere il bene dal male, per esempio. Non si tratta di barriere invalicabili, però, di muri sormontati da filo spinato, come quelli che oggi si vorrebbero costruire nell’illusoria convinzione di poter evitare la contaminazione, la messa in discussione. Si tratta piuttosto di spazi di mediazione. Di relazione. Di scoperta.
«Ognuno di noi ha bisogno del proprio confine. Ma il desiderio di sentirsi a casa, in un mondo familiare, non è un impedimento a riconoscere il fascino, la ricchezza di un altro mondo, nel quale possiamo entrare varcando un confine ma senza cancellare il nostro, senza rinnegare la nostra origine, al contrario, arricchendola», afferma lo scrittore Claudio Magris.
Chi è emigrato lo sa. Porta sul corpo i segni dell’attraversamento del confine, anche fisico.
Sa cosa vuol dire camminare sul ponte che conduce all’alterità e conosce lo spaesamento interiore di diventare egli stesso un ponte vivente, sospeso tra due culture.
Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad parlava di “doppia assenza” a proposito degli immigrati maghrebini in Francia: assenti fisicamente dal luogo di origine, assenti culturalmente ed emotivamente da quello di arrivo. Lo scrittore Pap Khouma, senegalese di nascita e italiano di adozione, racconta invece di aver elaborato per sé, nel corso di lunghi anni, il concetto di “doppia presenza”: appartenere a più luoghi, contemporaneamente.
Presenza, non assenza. Ricchezza, non deprivazione. E capacità, allenata con la sofferenza, di cogliere l’essenziale: «Quando sono arrivato in Italia ho dormito per troppo tempo in macchina, alla stazione, nelle spiagge e nei parchi. Oggi per me la casa è diventato il posto in cui puoi entrare e chiudere la porta. Ha il tetto, i muri, se vuoi apri e chiudi le finestre: questo è stato sempre il mio sogno. Sono io che faccio entrare e faccio uscire il mondo».
Perché se il corpo è il nostro confine più intimo, subito dopo c’è la porta della nostra dimora. E non si conosce nessuno che sia riuscito a sopravvivere senza mai varcarla o consentire a qualcun altro di farlo.