L’aereo atterra ad Istanbul in orario. Inizia allora la lunga corsa del velivolo sulla pista. Per oltre una ventina di minuti i passeggeri si lanciano occhiate di stupore e di stizza. Vorremmo prendere i nostri bagagli e scendere in fretta. Nessuno lesina battute sulla megalomania del presidente.
L’aeroporto è stato inaugurato da un anno e punta a diventare il più trafficato al mondo nel giro di qualche anno. Dal finestrino si vedono i cantieri ancora aperti.
All’uscita mi infilo in un taxi arancione. Le vetture sono nuove, sul display accanto allo specchietto retrovisore scorrono i numeri dell’importo a pagare. Siamo fermi al semaforo, a meno di cinque minuti da Eminönü, sulla riva del Bosforo, quando un ragazzino di meno di dieci anni mi chiede qualche lira. Il tassista aggrotta la fronte e ripartiamo.
Nel quartiere storico di Sultanahmet si staglia la sagoma della Moschea Blu. È presa d’assalto dai turisti. Somiglia al Vaticano il cartello sulle regole d’abbigliamento posto all’entrata. Con un gesto quasi blasfemo le turiste si coprono malamente il capo con un pezzo di tela grigia e infilano le scarpe in un sacchetto trasparente.
Al di là del credo siamo tutti accomunati dal fanatismo per i selfie. Quando si avvicina l’ora della preghiera gli addetti alla sicurezza chiedono ai turisti di uscire. Solo allora il culto del sacro si riprenderà questi luoghi.
Mi colpisce la pubblicità di una modella con l’hijab sul tranvia che attraversa il quartiere di Eminönü. Ad occhi occidentali anche lei diventa un simbolo del ventennio di Erdoğan, fra investimenti in infrastrutture e nazionalismo islamico. Sulle due rive del Bosforo è un intrico di minareti e grattacieli, sacro e profano in una colata di cemento.
Gruppi di ragazzine a capo coperto somigliano all’immagine della mannequin sugli autobus, con i foulard colorati in pendant con scarpe e borse. Strette nelle mani hanno le borse dello shopping, con le scritte di Zara e Bershka.
Ma Istanbul, giovane e politicizzata, rimane la mecca del multiculturalismo. Proprio dalla capitale lo scorso giugno è arrivata una frenata allo strapotere di Erdoğan, che per la prima volta ha perso le elezioni.
Complice il rallentamento dell’economia, a cui il populismo del presidente non ha saputo rispondere. Mentre l’inflazione cresce, il salario minimo resta ferma a 420 euro mensili e le condizioni di lavoro spesso estremamente precarie.
Gökhan, che pulisce le stanze affittate ai turisti su Airbnb mi dice: “Se si vuole in Turchia si può lavorare, si può lavorare 24 ore al giorno, e si può anche lavorare e vivere in strada.”