Nel 2011, presi da noi stessi come solo i giornalisti che si trovano a coprire eventi storici sanno essere, non ci siamo resi conto subito che stava avvenendo una rivoluzione. Si, ne parlavamo, addirittura qualcuno aveva scomodato la categoria della rivoluzione di ‘facebook’, ma era un processo molto più profondo di questo.
Ecco che un fiume si è fatto oceano. Uno tsunami di immagini, testi, racconti che dai social network, negli ultimi nove anni, è straripato fino a travolgere determinate categorie del racconto di realtà.
Per alcuni è l’inizio dell’era dell’auto racconto, per altri è una rivoluzione vera è propria: c’è l’eterno oggetto del racconto che reclama il diritto alla sua storia, anzi meglio, alla sua versione della sua storia. Pretende di essere soggetto del racconto.
Questa rivoluzione, che si nutre dei social network all’inizio, ha generato la produzione di contenuti di altissimo livello. Still Recording, su tutti, ma non solo. L’impostazione non ha nulla da invidiare alla scuola migliore del reportage e del documentario, solo che lo declina e lo racconta come fosse un social network, coinvolgendosi nella storia.
Il giornalismo non è finito, anzi. Viene solo inchiodato all’idea che o saprà farsi verifica e approfondimento, competente e aggiornato, sul posto e senza mediazioni, o sarà relegato in un altro mondo, non in quello che oramai si informerà direttamente alla fonte. Che potrebbe essere falsa, ma ci vuole studio e preparazione di settore, senza orientalismi e colonialismi, per rendersene conto.
Di questa epoca resteranno, fino alla prossima rivoluzione nei media, tante opere e tra loro merita un posto anche Midnight Traveler.
Il regista afgano Hassan Fazili finisce nel mirino dei talebani. Il suo lavoro, proprio su un comandante talebano, oltre alla sua attività culturale con l’ArtCafé, a Kabul, diventano obiettivo delle minacce dei conservatori. Che come al solito, in Afghanistan o altrove, usano la religione per mettere nel mirino gli oppositori e chi ne denuncia i misfatti.
Fazili sa di non aver scelta: deve fuggire. E con lui devono fuggire le due figlie e la moglie, Fatima Husseini, a sua volta regista. Inizia un viaggio che decidono di raccontare – giorno per giorno – con i loro cellulari.
Proprio quei cellulari che sono spesso al centro del berciare di chi non capisce come facciano questi poveri rifugiati ad averne di moderni, quelli con cui ti orienti nella notte in un posto mai visto prima e che serve per dire a casa che sei vivo, diventa lo strumento di questo racconto – capolavoro.
La famiglia, ogni volta che può, cerca di utilizzare le vie legali per la fuga. Chi meglio della civilissima Europa (che per liberare l’Afghanistan da talebani ha speso centinaia di milioni di euro e di dollari e decine di migliaia di vite nel 2001 ha dato vita a una guerra che dura ancora oggi) potrebbe capire la storia di Fazili e della sua famiglia? Registi che per il loro lavoro son nel mirino, una categoria perfetta per l’Unione dei diritti umani. Ma quell’Europa, ammesso che sia mai esistita, non c’è più.
E allora sono solo trafficanti e confini, detenzioni in centri fatiscenti, aggressioni xenofobe e odio. Dall’Afghanistan all’Iran, fino in Turchia e in Bulgaria. Poi la Serbia e l’Ungheria. Fino all’agognata Germania. Un’odissea, raccontata in presa diretta.
Come nessuno potrebbe fare mai, impigliando il racconto tra discussioni sul velo tra madre e figlia, con video di Michael Jackson e riflessioni sui rapporti sociali tra moglie e marito.
C’è un mondo intero all’interno di una famiglia. E nessuno avrebbe potuto e saputo raccontarlo meglio.