“La Juventus ruba le coppe, il regime ruba la nazione”, recitava uno dei tanti cartelli esposti in Algeria durante le manifestazioni nei mesi di febbraio e marzo del 2019. A reggerlo, mostrandolo a favore di camera, era un ragazzo come tanti altri, sulla ventina, sceso in piazza assieme a centinaia di migliaia di concittadini per manifestare contro la candidatura dell’ultraottantenne Abdelaziz Bouteflika al quinto mandato presidenziale.
Il capo dello Stato, costretto in sedia a rotelle a seguito di un ictus, si era ripresentato alla guida del Paese dopo che la cerchia di apparati economici e militari che formano “il pouvoir” non era riuscita a organizzare per tempo una successione.
Quel cartello, improntato ad un’ironia a sfondo calcistico in grado di unire popoli lontani anche migliaia di chilometri, sembrava parlare proprio all’Italia. Un Paese che, nonostante la vicinanza geografica e una lunga storia culturale in comune con l’Algeria, in quel momento sembrava guardare altrove, come dimostrano le prime pagine dei quotidiani nazionali all’epoca dei fatti.
Oggi, a distanza di due anni, quell’indifferenza sembra essersi fatta granitica, nonostante gli algerini continuino a manifestare non solo in patria, ma anche in diaspora. Ovviamente in Francia, dove si stima una presenza di 4-5 milioni di persone tra cittadini algerini e cittadini francesi di origine algerina. Ma anche in Italia, Paese in cui vivono circa 80 mila persone provenienti dal paese nordafricano. Nel mese di febbraio, a due anni dalle prime manifestazioni del 2019, attivisti algerini si sono dati appuntamento a Milano nei weekend per gridare al capoluogo meneghino la loro delusione per come sono andate le cose in Algeria negli ultimi due anni. Da allora, in realtà, alcuni cambiamenti ci sono stati. Bouteflika ha rinunciato al quinto mandato, dopo l’ennesimo ricovero in Svizzera a seguito di un peggioramento delle sue condizioni, per poi dimettersi su impulso del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Ahmed Gaid Salah. A gennaio di quest’anno, il nuovo presidente Abdelmadjid Tebboune ha promulgato la nuova Costituzione del Paese, approvata da un referendum popolare cui ha preso parte solo il 23,7% degli aventi diritto (complice la pandemia di Covid-19).
Ciononostante, nel movimento Hirak – nato dalle piazze algerine – permangono dubbi e malumori sul raggiungimento degli obiettivi e dei principi delle manifestazioni, che Tebboune e il sistema post-Bouteflika comunque affermano di incarnare. “Gli algerini chiedono alla classe politica un cambiamento radicale e di passare a una vera democrazia”, spiega Ben, uno degli algerini scesi in piazza a Milano. “Sono passati due anni e non è cambiato nulla – prosegue – tanti attivisti restano in carcere ma la rivoluzione pacifica continua fino alla liberazione della Stato dalla mafia finanziaria e militare che lo controlla”.
A tal proposito – dopo che nelle ultime settimane il movimento Hirak è tornato in piazza nonostante le misure anti-Covid – Tebboune ha negato per l’ennesima volta che l’esercito abbia alcun ruolo nella vita politica del paese, stigmatizzando lo slogan delle piazze ‘Stato civile e non militare’. Il 17 febbraio, in vista dell’anniversario delle manifestazioni che convenzionalmente cade il 22 del mese, Tebboune ha inoltre concesso la grazia ad oltre 60 prigionieri di coscienza nel tentativo di ammansire le piazze. Tra loro anche il famoso giornalista Khaled Drareni, fondatore del sito Casbah Tribune e corrispondente di TV Monde e RSF in Algeria.
Queste iniziative presidenziali, compreso l’annuncio dello scioglimento del parlamento e la convocazione di nuove elezioni, non hanno convinto i manifestanti, che in diverse località sono tornati in strada.
“Ad Algeri si manifesta nelle strade principali, stessa cosa a Orano, maggiormente a Tizi e Bejaia”, racconta in un perfetto italiano Ahmed, autoctono della capitale algerina. “Nell’ambito delle 48 regioni del paese si sono viste manifestazioni relativamente in poche zone”, spiega in riferimento alle ultime settimane. Ahmed è uno di quelli che nel 2019 parteciparono con entusiasmo alle colorate e festose manifestazioni delle piazze algerine, ma che oggi ritengono quell’esperienza passata, se non esaurita. Secondo lui, i manifestanti di oggi “non considerano le elezioni come una soluzione, cercano solo di prendere il potere con la transizione” e per questo “non ci sono tante persone come prima nelle strade”. “Praticare la politica è essere presente alle elezioni non nelle strade, no?”, chiede ironicamente Ahmed, per poi aggiungere che la delusione ancora presente deriva “dall’attuale situazione a livello economico, sociale, accademico”.
Lui concorda con Tebboune: attribuire ai militari la responsabilità esclusiva della situazione è un errore. “Tanti sono delusi perché non hanno avuto il loro candidato ideale alle elezioni – prosegue Ahmed – E allora oggi non accettano nulla dal governo”. Se gli si chiede perché non partecipa più alle manifestazioni, risponde così: “La strada non mi dà le soluzioni, dopo i primi due mesi ho smesso di scendere in piazza, quando i manifestanti hanno iniziato a usare slogan contro i militari e a portare altre bandiere”. Il riferimento è soprattutto alla bandiera Amazigh, molto presente oggi come nel 2019 tra i manifestanti. “Nessuno presentava un progetto politico o una candidatura, e allora ho messo”, conclude.
L’Algeria si dimostra per quello che è: un paese composito, con un popolo dalle grandi ambizioni democratiche ma bisognoso allo stesso tempo di giustizia sociale e serenità quotidiana. Diversi attivisti dell’Hirak rimangono in carcere, come il blogger Ameur Guerrache, condannato a sette anni di reclusione con l’accusa di “apologia del terrorismo, incitamento ad atti sovversivi, raduni illegali e offese al presidente”. Nuove manifestazioni si sono tenute nella provincia meridionale di Ouargla per chiederne la liberazione. La questione è tornata, anche se in sordina, anche sul tavolo delle Nazioni Unite. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha affermato che il governo di Algeri dovrebbe “rilasciare immediatamente tutte le persone arrestate per aver partecipato alle dimostrazioni” e procedere “sulla via del dialogo” con il movimento pro-democrazia.
E’ difficile, dunque, tracciare un bilancio di quel che resta delle manifestazioni che due anni fa hanno animato le piazze algerine. Più facile evidenziare che quanto accadde nei primi mesi del 2019 fu tutto sommato una specie di miracolo. L’Algeria, infatti, non era rimasta indifferente alla stagione delle rivolte arabe del biennio 2010-2011, ma probabilmente le ferite del cosiddetto “decennio nero” degli anni novanta erano ancora troppo fresche per consentire al popolo di arrischiarsi in uno scenario potenzialmente troppo instabile. Non a caso, però, oggi alcuni osservatori concordano sul fatto che le manifestazioni del 2019 in Algeria, Sudan, Libano e Iraq – offuscate l’anno successivo dalla pandemia – hanno rappresentato a tutti gli effetti la “seconda ondata delle primavere arabe”. Posto che il concetto di “primavera araba”, mutuato dal paradigma di Praga 1968, resta una chiave di lettura eurocentrica, orientalistica e – spesso – anche insufficiente a cogliere appieno le dinamiche che caratterizzano l’altro lato del Mediterraneo.