9 Ottobre 2018
Nel decadente paradiso sciistico del Kosovo, tra sogni di gloria e un doloroso presente.
In una pentola ribolle, odoroso di aglio e di peperoni, l’ajvar preparato dagli abitanti dell’hotel Lahor. La legna di faggio sfrigola nella cucina economica, e tutt’intorno, a godersi il tepore, si è raggomitolato un piccolo branco di cani randagi.
Il fumo entra dal portone divelto e inonda i corridoi bui, si insinua sotto le porte delle stanze, fuoriesce dai numerosi spifferi per disperdersi in cielo, dentro la nevicata.
I fiocchi scendono copiosi sul tetto piramidale trasformandosi, sulla grondaia sfondata, in grosse gocce d’acqua che ricadono in secchi predisposti davanti all’ingresso, a due passi dal muso dei cani.
Marko mi fa strada nei corridoi di quel che resta del vecchio albergo jugoslavo, usando il telefonino come una torcia. La corrente manca da due giorni, da quando ha iniziato a nevicare: il peso della neve ha spezzato i rami, ancora verdi di foglie all’inizio di ottobre, che hanno tranciato i cavi.
“Sai com’è”, sghignazza “la neve a Brezovica, la località sciistica più importante del Kosovo. Imprevedibile!” Nella penombra ci avvicina una figura ondeggiante.
Sorride, barcolla, mi stringe la mano, e in un serbo che, biascicato così, sembra pastoso e fluido come l’albanese, ci invita nella sua stanza a bere una domaća rakija, ottima, a suo dire.
Si perde in discorsi sconnessi, e di tanto in tanto ammutolisce, come sorpreso dalle sue stesse parole. Infine Marko, delicatamente, lo convince ad andare a riposare.
“Tutti viviamo qui dalla fine della guerra”, spiega. “Qualcuno regge, ma qualcuno non ce la fa più”.
Anziane signore, appena visibili nella penombra, fanno capolino dalle loro stanze e salutano incuriosite.
La luce di un cellulare illumina i volti di due ragazzine sedute su una rete metallica abbandonata nel corridoio – al nostro passaggio balzano in piedi, sorridenti e ansiose di presentarsi. Marko deve essere una vera celebrità, con gli amici stranieri che negli ultimi mesi, ogni tanto, presenta a tutto l’albergo.
“Siamo una grande famiglia”, dice, “una famiglia con dei problemi, ma andiamo avanti. Da soli, avremmo solo questo”.
Indica con lo sguardo la stanza allungata, rischiarata da alcune candele che abbiamo trovato nei cassetti. Sei letti, un vetro incrinato, un vecchio televisore, le uova colorate di una Pasqua ortodossa di chissà quanto tempo fa, un dito di polvere.
Ci vive una famiglia che adesso è a Belgrado, e stasera ci dormo io. La stanza di Marko è troppo piccola.
L’Hotel Lahor ha raccolto una nuova categoria di montanari: quelli involontari. Sono sfollati interni, serbi del Kosovo costretti a lasciare le loro case durante la guerra.
La Serbia è ancora proprietaria della struttura, dove ospita gratuitamente i connazionali che hanno perso tutto. “Della guerra non ti racconto, se non ti dispiace”, dice il mio ospite, che allora aveva dodici anni.
Ormai ha passato più anni qui che a Pristina, la sua città natale, e ha visto l’albergo disfarsi poco a poco, insieme alla speranza di Belgrado di riprendersi la vecchia provincia autonoma.
Niente più cucina, niente più acqua calda, perdite e spifferi dappertutto. Per fortuna che il riscaldamento funziona, nonostante i vetri rotti e i continui blackout. “Domani inizieranno a finire le batterie di riserva dei telefonini, ci sarà da divertirsi!” scherza Marko, che non si stacca mai dal suo.
Sta chattando con una ragazza lontana, una ragazza albanese.
“Ma è un segreto… o quasi”, ammicca: a Brezovica tutti sanno tutto di tutti. Ma se lo venisse a sapere il padre di lei, lo farebbe fuori seduta stante. Ma, assicura, è solo un vecchio sbruffone: il vero problema per lui sono la distanza e i megabyte, sempre pochi. Non si è mai identificato con le montagne.
È un cittadino senza più una città, e con il mondo di fuori può interagire soltanto attraverso il suo precario traffico dati.
Con i capelli rasati e le felpe rigorosamente nere, ha l’aspetto di uno di quelli che, grande e grosso com’è, in un altro contesto potrebbe fare persino paura, almeno prima che si sciolga nelle sue risate lunghissime e cristalline.
“Ragazza albanese, gelosa”, spiega nel suo inglese che perde articoli e verbi quando il discorso entra nel vivo. “Se domani non potrò scriverle, le sue urla si sentiranno fino a qui!”.
Prende un filone di pane e una lattina di carne in scatola, che va a ad appoggiare sul fuoco di faggio che ancora scalda i cani randagi sul portone. “Ogni giorno, stessa cena. Siamo serbi, amiamo la carne. Cucinarla in maniera diversa? Roba da femmine. Vita dura, cibo robusto, non trovi?” E ride.
Un sole tiepido mi sveglia attraverso le incrinature del vetro. Fuori, una coltre bianca scintillante ricopre i boschi e le case, e lontano la cima del monte Sharr, contro il cielo luminosissimo, si accende di riflessi bluastri.
Le strade hanno ripreso vita e colore: chi spala, chi chiacchiera, qualche automobile slitta, mentre di tanto in tanto un ramo si libera rumorosamente della neve, rivelando il il verde e il giallo delle sue foglie.
Ci incamminiamo lungo la strada che si lascia alle spalle villini in costruzione, qualche elegante caffè e ristorante con il suo rumoroso gruppo elettrogeno, e gli amici di Marko: un ragazzone che vende formaggio e grappa in bottiglie dal tappo ammaccato, un vecchio che osserva beato il lavoro degli altri, in piedi dietro ai loro precari banchetti sul ciglio della strada.
Dopo qualche tornante, ci inoltriamo nel bosco sprofondando nella neve fino alla vecchia capanna di caccia “Tito”, dove il mio amico, adolescente, ha avuto un incontro ravvicinato con l’orso.
La vista è mozzafiato. Il sole filtra tra le foglie vive, la neve riflette, e i boschi si perdono in lontananza sotto le vette rocciose dei monti Sharr, lungo il crinale che divide il Kosovo dalla Macedonia.
Un’oasi di biodiversità, in bilico tra il clima alpino, continentale e mediterraneo, che ospita pascoli d’alta quota tra i più vasti d’Europa. Da vari decenni era una stazione sciistica importante, e nel 1984 c’è mancato un pelo che non ospitasse una gara delle Olimpiadi di Sarajevo.
Negli anni ‘80, mi dicono, ci venivano i migliori Dj da Belgrado e le serate si protraevano fino al mattino. La stazione ha resistito alla guerra, ma non alla pace: come per l’hotel Lahor, la proprietà pubblica, prima jugoslava e poi serba, ha progressivamente interrotto i finanziamenti.
Le nuove autorità kosovare non smaniavano certo di risanare un’area a maggioranza slava, e così Brezovica è stata condannata a una morte neanche troppo lenta.
Fino agli ultimi dieci anni: con la dichiarazione d’indipendenza è arrivata la privatizzazione, e una grande multinazionale dello sci, la francese Compagnie des Alpes, ha promesso enormi investimenti per fare dei monti Sharr l’area sciistica più importante di tutti i Balcani.
Numeri impressionanti: oltre cento chilometri di piste, settemila posti letto, quindicimila sciatori al giorno per quattro mesi di apertura l’anno.
Pazienza se siamo in un paese dove la maggioranza della popolazione non potrà permettersi nemmeno una discesa: l’aeroporto è a meno di due ore, e grazie ai prezzi bassi si potrà fare concorrenza alle località più gettonate delle Alpi.
Se i soldi non finiranno nelle tasche sbagliate, cosa tutt’altro che improbabile, il nuovo resort potrebbe, secondo gli investitori, creare fino a tremila posti di lavoro.
“E intanto, i nuovi ricchi si portano avanti”, mi indica Marko. “Costruiscono ville, disboscano, inquinano. Quasi tutto illegale, ma in Kosovo c’è sempre qualcuno al di sopra della legge”.
Lo sviluppo a tutti i costi non è l’unica delle idee che circolano nelle periferie del Kosovo. Quest’estate, alcune associazioni hanno organizzato Brefest, un festival dallo slogan eloquente: Sharr mountain is more than snow.
Una serie di attività rivolte alla popolazione locale, dai bambini agli anziani, e che ha cercato di coinvolgere le diverse componenti etniche del paese, serbi, albanesi e rom. Concerti, escursioni naturalistiche e laboratori nel segno della sostenibilità e della pace.
Sensibilizzazione alla tutela dell’ambiente, pulizia dei rifiuti, divertimento. Ingenui? “Forse”, dice Marko.
Ma vedere tanta gente motivata per qualcosa, volontari da tutta Europa, né investitori né militari dell’Onu, è stato un evento importante da queste parti. “Anche senza guardare lontano: ho visto più serbi e albanesi fare amicizia in quei giorni che in tutta la vita”.
Quando la sera scende, la neve è ormai quasi sciolta, e nel villaggio l’inverno ha lasciato nuovamente spazio all’autunno. Dopo tre giorni e un paio di tentativi durati il tempo di qualche lampo e ronzio, è ritornata anche l’elettricità.
Mentre mangiamo la solita carne in scatola, l’hotel Lahor, con tutte le lampadine accese, sembra quasi un posto normale. Chiedo a Marko se preferisce sperare nel comprensorio sciistico ultramoderno o nelle idee dei nuovi amici che si è fatto al Brefest.
“Mah”, risponde amaramente. “Comunque vada, questo non è un posto per quelli come me. Quando avrò i soldi mi trasferirò a Belgrado, e quando avrò i documenti emigrerò in Germania. Di questo paese e delle sue delusioni ne ho già avuto abbastanza”.