Bucarest per principianti

di

12 Aprile 2019

Geronimo Mesisca era andato a Bucarest per un workshop di scrittura e fotografia.
Non aveva portato con sé la macchina fotografica, in realtà non ne aveva mai posseduta una. Avrebbe dovuto scrivere quindi. La verità? Non gli interessava la scrittura.

Gli piacevano le storie certo, viaggiava per quello, appena poteva, ma era stanco di vagare per le città d’Europa da solo. Così avrebbe avuto qualcuno con cui condividere il tempo lontano da casa.

Di Bucarest non conosceva quasi nulla. Qualche immagine sfocata al telegiornale della sera mentre suo padre fumava Marlboro rosse seduto in cucina con La Stampa distesa sul tavolo.

L’esecuzione di Ceaușescu, i cani randagi, i bambini che vivevano nelle fogne e poi, anni dopo, le badanti che erano sempre, per definizione, rumene, anche quando non lo erano. Sua nonna, per dirne una, aveva avuto per anni una badante colombiana.

Il volo da Bergamo era come tutti i voli low cost del XXI secolo: una merda.

Orario da metronotte e sedili da polli in batteria. I suoi quasi novanta chili avrebbero sofferto. Lo sapeva, ma sperava nelle poche ore di sonno per svenire appena salito sull’aereo.

Prima di partire aveva letto un pezzo che Raccontava di una specie di malattia chiamata Italy syndrome, la sindrome dell’Italia.

Le donne rumene che avevano lavorato per un lungo periodo in Italia, magari al servizio di qualche vecchio rincoglionito con la bava alla bocca e l’uccello agonizzante dentro il pigiama di flanella, una volta tornate a casa, soffrivano di depressione, ansia, attacchi di panico e afasia. Se ci aggiungevi la paura e all’alienazione cui erano costrette nelle poche ore libere dal lavoro in città che non conoscevano, in strade che non avevano nulla di familiare, non ne veniva fuori un bel quadro.

Erano stati due psichiatri ucraini a inventare il termine Italy sindrome ma i medici italiani lo ritenevano una forzatura antiscientifica.

Mesisca aveva preso una stanza d’albergo lontana dal centro, vicino alla Gara de Nord, la principale stazione ferroviaria di Bucarest.

L’entrata dell’albergo era incastrata tra le pompe di benzina di un distributore e un kebabbaro aperto h24. Era uno di quei posti dove la gente sembrava non fermarsi mai più di un paio di giorni.

Le valige rimanevano chiuse, giusto il tempo di una doccia, un
notte di sonno e via. Altrove.

Dalla Gara de Nord – una volta si chiamava Targovistei come la strada su cui si affacciava (anche il nome della via era stato cambiato) – partono treni per tutte le principali città del paese, ma non solo. Duecento convogli al giorno con cui si possono raggiungere anche Budapest, Vienna, i Balcani e perfino Mosca.

Le facce dei pochi ospiti che incontrava per le scale, fuori dalla sua stanza, avevano gli zigomi appuntiti dell’est, la pelle olivastra dell’oriente, giubbotti di nylon con le spalle larghe, tute di raso e scarpe da ginnastica o, in alternativa, duri mocassini fuori tempo massimo.

Quando non era in giro con gli altri se ne stava in camera a leggere.

Si era portato dietro il libro di un irlandese dal nome impronunciabile, Philip Ó Ceallaigh. Si intitolava Appunti da un bordello turco ma quasi tutte le storie che raccontava erano ambientate a Bucarest.

Ó Ceallaigh si era trasferito in città quindici anni prima, dopo un lungo pellegrinaggio da working class hero in posti poco raccomandabili tipo il Kosovo. Di solito i lavoratori, quando scappano in cerca di fortuna vanno a Ovest, Ó Ceallaigh aveva deciso di andare a est. Una specie di Tom Joad al contrario.

Nelle poche interviste che aveva trovato in rete, alla domanda su cosa diamine lo avesse portato in Romania,

Ó Ceallaigh rispondeva sempre che per scrivere gli serviva un paese povero.
La Romania era, decisamente, un paese povero e comunque, ormai, era impossibile fermare il suo viaggio per i buchi del culo del mondo.
Non poteva tornare indietro, in Irlanda, per cui Bucarest era una città come un’altra.

Uno dei responsabili del workshop aveva inviato a Ó Ceallaigh una mail prima dell’arrivo del gruppo. Lui aveva risposto che sarebbe stato felice di incontrarli. La cosa difficile sarebbe stata trovarlo. Non abitava più nel famigerato Block di cui parlavano i suoi racconti. Ora aveva acquistato una casa in un quartiere residenziale semi periferico.

Quando non leggeva Mesisca provava a cercare qualche storia per il lavoro di scrittura previsto dal workshop.

Più che altro faceva finta di impegnarsi. La connessione wifi dell’albergo era buona, abbastanza da caricare rapidamente i video di YouTube sul cellulare. Ce n’erano parecchi che riguardavano Bucarest. Tolti quelli delle televisioni locali, dei quali non capiva nulla, aveva trovato un documentario inglese di Channel 4 su un uomo chiamato Bruce Lee, King of Romania’s tunnel underworld.

Un tizio rasato a zero, il cranio cosparso di Aurolac – lo smalto per verniciare con solventi allucinogeni che trasforma un uomo in un aureolaci – un giubbotto di jeans strappato portato a petto nudo, un corpo pieno di cicatrici, tatuaggi fatti con ago e china, le braccia circondate da lunghe catene fissate con piccoli lucchetti. Non aveva mai visto nessuno incarnare così da vicino i predoni dei deserti post atomici di Ken il Guerriero.

Da ragazzino era cresciuto nei famosi tunnel della città fatti costruire dal dittatore Nicolae Ceaușescu per portare il riscaldamento in tutta l’area urbana e mai terminati.

Dopo una vita fatta di abuso di droghe, spaccio e violenza era diventato una sorta di santo redentore, protettore di una numerosa comunità di diseredati: impediva ai ragazzini della sua cerchia di fare uso di sostanze, li teneva lontani dagli abusi e dalla prostituzione.

Aveva anche costruito in superficie una specie di baracca dove i tossici potevano andare a farsi, protetti dalle rappresaglie della polizia e con “strumenti” sterilizzati.

Una grande storia. Solo che era già stata raccontata. Qualche blog di viaggio aveva ripreso il servizio di Channel 4 e con un paio di aggiustamenti e qualche particolare in più sulla misera fine toccata a Bruce Lee, aveva reso la vicenda abbastanza nota, almeno sul web.

Un’altra serie di video interessanti era quella sul quartiere di Ferentari, descritto come il ghetto più pericoloso e degradato dell’intera Europa. Cristo santo che posto. Secondo le immagini si trovava nel Sector 5, Google Map parlava di dieci minuti di metropolitana da Bulevard Unirii, il viale principale della città.

Durante gli anni del regime, Ceaușescu lo aveva trasformato nella “città degli zingari”, ci aveva rinchiuso dentro tutti gli uomini e le donne di etnia rom. Pare non potessero uscire ne avere contatti con il resto degli abitanti di Bucarest.
Caduto Ceaușescu tutto era andato in malora.

Niente acqua, niente luce per le strade, palazzoni fatiscenti simili a ruderi bombardati da obici, immondizia dappertutto, disperazione. Ancora oggi gli abitanti di Bucarest preferivano girare alla larga e anche la polizia, a quanto pare, faceva parecchia fatica a entrare a Ferentari.

A cena, i responsabili del viaggio, avevano discusso sulla possibilità andarci, ma così, in gruppo, come una specie di scolaresca in gita non sarebbero durati un minuto. Avevano letto qualche racconto di chi c’era stato. Una corsa in macchina accompagnati da un tassista con qualche gancio nel quartiere, nessuna sosta, qualche foto rubata dal finestrino.

Giusto per dire di essersi fatti una passeggiata all’infermo. Capita spesso di incrociare racconti del genere, un giro in un campo profughi palestinese, un tour in uno slum dell’Asia o in una baraccopoli africana.
Rapido, veloce, indolore.

Per Mesisca significava, soprattutto, un’altra storia già raccontata. L’ennesima.
Il venerdì sera Bucarest si riempiva, improvvisamente, di visitatori. Qualcuno li chiamava ancora viaggiatori. Erano in tanti i nuovi coloni del fine settimana. Mesisca li aveva intravisti alla partenza; le Ceres in bottiglia lasciate mezze vuote prima dei controlli: giovani, occhiali da sole, capelli rasati, pantaloni stretti al fondo con le caviglie scoperte.

Molti di loro erano diretti al Pellagio, la discoteca più cool di Bucarest. Il nome gli ricordava un vecchio casinò di Las Vegas.

Uno di quelli gestiti dai “bravi ragazzi” di Scorsese, prima che le multinazionali si impossessassero anche del gioco d’azzardo. Un centone e il tavolo riservato con vodka e champagne. Scopare, l’obbiettivo, l’unico. Scopare da ricchi, come i russi, dopo aver scopato a Praga negli anni novanta, a Budapest all’inizio del nuovo millennio, ora toccava alla Romania.

Droga tagliata male, alcol e donne compiacenti. I risparmi tirati via dagli stipendi di mille euro che qui il Leu, la moneta corrente rumena, trasformava in – social dreams – in stile Gianluca Vacchi da caricare sulle stories di Instagram.

A dirla tutta i tassisti di Bucarest sembravano pretendere che i turisti scopassero. Riuscire a tornare in albergo senza passare da qualche night, bar o appartamento di un amico che – nessuno problema, parlo io, tu dai a me i soldi io aggiusto tutto – era un fottuto problema.

Prima di risalire in camera e tenere a bada la sbronza di ţuică, la feroce grappa rumena, Mesisca si fermava da Pizza Hut per un trancio di pizza che assorbisse l’alcol. I ragazzi che ci lavoravano erano cordiali. Dopo il terzo giorno avevano cominciato a scambiare qualche parola n inglese, poi, qualcuno, capendo da dove veniva aveva tentato con un discreto italiano.
Mesisca sorrideva.

A dirla tutta si sentiva uno stronzo a pensare che la loro conoscenza della lingua derivasse, molto probabilmente, dal fatto di avere una madre o una sorella che lavorava in Italia.
La sensazione ubriaca che qualcuna di loro fosse una delle vittime della Italy sindrome era un modo di merda di andarsene a dormire

Uscito da quel pezzo luccicante di futuro capitalista infilato in mezzo al brutalismo architettonico sovietico se ne andava in giro per le vie intorno alla stazione. Nel video su Bruce Lee e in altri servizi della Abc aveva notato che spesso i giornalisti sudaticci e adrenalinici – dopo avere visitato i tunnel in cui viveva il la “gente di sotto” di Bucarest – emergevano da un punto preciso, proprio di fronte alla Gara De Nord, nei pressi delle paline degli autobus.

Il buco era ancora lì, nessun tombino a incorniciarlo, solo una grata arrugginita messa a protezione del foro scavato nel manto stradale. Nelle poche notti passate in quelle strade, Mesisca non aveva mai visto nessuno entrare o uscire. Forse la storia dei ragazzi di strada di Bucarest era davvero una storia conclusa. Un’altra.

Alla fine qualcuno aveva telefonato a Philip Ó Ceallaigh, lo scrittore.
Arrivare all’appuntamento non si era rivelato un affare tanto semplice. Il quartiere dov’era rintanato era un susseguirsi di case basse e piccole palazzine di pochi piani. Qualcuna in perfetto stato, altre praticamente in rovina.
Le strade sembravano la bocca sbendata di un vecchio pugile. Uno di quelli che non a aveva preso abbastanza botte da rimetterci tutti i denti e conservava quei pochi rimasti come preziosi superstiti.

Ó Ceallaigh aveva con sé la figlia piccola, una bimbetta di circa cinque anni.
L’appartamento era un disastro. Stava ancora cercando i soldi per ristrutturarlo. Sull’unico mobile rimasto in piedi c’era una bottiglia di Jameson. Era il giorno di San Patrizio e quell’irlandese pazzo se ne stava seduto su uno sgabello circondato da un gruppo di italiani con velleità pseudo intellettuali a dividere la sua mezza bottiglia di whiskey.

Per tutto il tempo passato con lui, Ó Ceallaigh, non aveva mai dato l’impressione di essere quel tipo di uomo che avrebbe preferito bersi il suo bicchiere da solo.

L’ultimo giorno a Bucarest Mesisca lo aveva trascorso a Obor, uno dei mercati più antichi della capitale rumena. L’impressione che lasciava quel luogo era quella di un mondo senza donne.

Pranzare sotto i tendoni che distribuivano grosse salsicce con pane e salse era come stare in un polveroso magazzino pieno di vecchi arnesi. Nel caso di Obor erano tutti uomini con le mani pesanti e le facce deformate da grandi quantità di ţuică distillata in casa.

Uno dei compiti assegnati ai partecipati al workshop era quello di provare a raccontare quel lembo di terra alla periferia della città con dieci scatti. Non uno di più, non uno di meno.

Un esercizio di sobrietà visiva in un tempo dove le immagini erano la merce più inflazionata sulla piazza. A Obor non era permesso fare foto, la polizia controllava l’intero perimetro del mercato.

Mesisca aveva deciso di provarci, aveva tirato fuori il suo cellulare dotato di un pessima fotocamera e si era messo alla ricerca di quelle benedette immagini.
Dieci cartoline dell’Est Europa da caricare sul suo profilo Facebook una volta tornato a casa. Non ci era riuscito.

Testo di Tiziano Colombi, foto di Marco Belli