21 Aprile 2020
La seconda puntata del reportage scelto nel 2019 dalle giurie dei Pitching di Meglio di un romanzo – Festivaletteratura di Mantova
Alla periferia di Limbiate, nella provincia di Monza-Brianza, ci si può imbattere nelle rovine di un gigantesco parco di divertimenti, una “città dei giochi in mezzo alle fabbriche” aperta negli anni del boom economico e ormai inaccessibile.
Pochi chilometri separano questa zona abbandonata da Milano e da una delle aree più ricche e popolose d’Italia, ma la memoria di ciò che ha rappresentato si intreccia nitidamente ai destini di un Paese (il nostro) e a quelli di pochi abitanti che continuano a vivere ai suoi confini. Città Satellite di Giulia Oglialoro è il reportage scelto a Festivaletteratura 2019 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato a puntate sul sito del Festival e su Q Code Magazine, che coordina la giuria con il condirettore Christian Elia.
In questa prima puntata incontriamo Gino, titolare di una sala da ballo e testimone di un luogo “scomparso sotto la scure del tempo”.
LA CITTÀ DEL FUTURO
[di Giulia Oglialoro]
Seconda puntata
Se ne stava acquattato nel bosco, con la tunica sempre cosparsa di resina e macchie d’erba, attento che i raggi di sole non sciogliessero il trucco dal viso. Quanto sentiva il fischio del treno si alzava di scatto, sistemava il copricapo di piume e prendeva a correre a piedi nudi verso i binari, lanciando grida di battaglia con tutta l’energia che aveva in corpo.
Di mestiere Guidone faceva l’indiano a Città Satellite: sei volte al giorno doveva fingere di assaltare le carrozze del trenino panoramico, ma spesso improvvisava, si abbandonava a danze convulse, oppure saltava su se stesso battendo i pugni sul petto. Le signore non sapevano se essere più spaventate o divertite da quelle performance, ai bambini piaceva molto e i cani ululavano al suo passaggio.
Viveva in una delle villette alle porte della Città che negli anni Settanta erano il sogno di tutti – gli era stata assegnata dal Comune per favorire il suo reinserimento sociale – eppure quasi mai rincasava a fine giornata: dopo trent’anni passati nel manicomio di Mombello, l’unica cosa che voleva era camminare per il bosco fino a perdere l’orientamento. Durante quelle esplorazioni inesauste raccoglieva pezzi di corteccia, foglie secche e tappi di bottiglia, li usava per costruire strambi acchiappasogni oppure collane da regalare alle bariste.
La storia di Guidone mi è stata raccontata da più persone e in mille varianti diverse, ma nessuno sa di preciso perché sia stato internato. Stando alla versione più accreditata, fino ai nove anni era stato un bambino indisciplinato e riottoso come tanti, rubacchiava dalle botteghe e spintonava i compagni a scuola.
Dopo l’ennesima marachella, sua madre gli aveva messo scarpe di vernice, pantaloni di lino, un panciotto elegante cucito per l’occasione, e l’aveva portato “de la del mur”: l’Istituto Psichiatrico Antonini di Mombello era stato una reggia napoleonica in passato, nel 1938 aveva ancora l’aspetto di un’incantevole villa di campagna, con un sontuoso giardino punteggiato da querce e pini ingialliti, non era stato difficile convincere Guidone che stava solo andando in vacanza.
Anche se aveva trascorso i primi anni in uno stanzino umido e impregnato di muffa, senza sapere della guerra, di Milano bombardata o dei dittatori giustiziati nelle piazze, in manicomio Guidone non era immune alla Storia.
Oltre agli epilettici e ai figli di famiglie povere e troppo numerose, a Mombello venivano internati anche gli alcolisti, i soldati impazziti per davvero o solo per fuggire dal fronte, e gli sfollati a causa di qualche calamità naturale, com’è accaduto per l’alluvione del Polesine nel ’51.
Guidone percepiva il mondo per contraccolpo, attraverso quei corpi irregolari o indigenti a cui lo Stato non aveva abbastanza pazienza o risorse da dedicare, individui sconfitti e macinati dalla Storia a cui mancava il talento per assumere un ruolo quantomeno di comparsa nel patriottismo imperante negli anni della guerra, manovalanza inutile nel periodo della ricostruzione. Pare che a Mombello fosse ricoverato anche il figlio illegittimo di Mussolini, ma Guidone non l’ha mai incontrato.
Fino alla metà degli anni Cinquanta, gli annunci di lavoro per i sorveglianti dell’Antonini somigliavano a provini per controfigure di un film d’azione: si cercavano individui alti almeno un metro e settanta, robusti e decisi, dei “gorilla” (così venivano chiamati) pronti a fronteggiare qualsiasi situazione.
Indossavano pigiami del tutto simili a quelli degli internati, ma a righe più larghe, ed era solo quel dettaglio a distinguerli quando camminavano tutti insieme attorno a panche ben allineate, come criceti in gabbia.
Quella ginnastica insensata aveva lo scopo di sedare gli individui più irrequieti, quando non era sufficiente si ricorreva a dosi di camomilla e bromuro, oppure a bagni di acqua gelida o bollente. Nei casi peggiori veniva somministrata l’acquavite alemanna, una purga potentissima propinata agli internati mentre erano distesi nei letti di contenzione. Quando calava il buio cominciavano le urla, andavano avanti tutta la notte.
Poi era arrivato un uomo. Lo chiamavano “il medico dei matti”. Aveva un sorriso largo e bonario, occhi celesti, capelli folti e sempre scompigliati, dai primi anni Sessanta le sue foto tappezzavano le reti televisive e i principali quotidiani, non solo italiani.
Aveva diretto l’ospedale psichiatrico di Gorizia per alcuni anni, trasformandolo in una comunità all’avanguardia in cui medici e pazienti collaboravano in un rapporto più umano, aveva sostituito letti di contenzione ed elettroshock con terapie farmacologiche e allestito laboratori di pittura e teatro nelle sale comuni. Aveva scritto libri, e discusso conferenze, ovunque ribadiva che il compito di un medico non è curare i malati, ma “affrontare la vita”, perché la vita comprende entrambe le cose, salute e malattia. Si chiamava Franco Basaglia.
L’esperienza di Gorizia aveva provocato una deflagrazione nel mondo severo e inflessibile della psichiatria, un’onda inarrestabile di buonsenso che dev’essersi propagata fino a Mombello.
Entro la fine degli anni Sessanta, sotto la direzione illuminata di Riccardo Bozzi, anche l’Antonini aveva ormai abbandonato purghe e punizioni per diventare una struttura all’avanguardia. Un esempio su tutti, il Villaggio di Neuropsichiatria: invece di interrompere le lezioni come in passato, una volta ricoverati i bambini proseguivano gli studi dentro una piccola scuola decorata con disegni di fiori e carte da parati, potevano nuotare in un’incantevole piscina all’aperto e persino passeggiare in uno zoo in giardino, in mezzo a volpi, scimmie, fagiani e pappagalli donati dal Circo Togni.
Alla sera assistevano a pièce teatrali allestite dai “matti adulti” nella palestra dell’Istituto, ma nonostante gli sforzi di medici e infermieri che suggerivano le battute nascosti dietro le quinte laterali, quasi mai i pazienti riuscivano a recitare una scena per intero; più spesso lanciavano i costumi all’aria e si abbandonavano a improvvisazioni sgangherate.
Tra i cambiamenti istituiti, il più apprezzato era senz’altro il “torneo dei matti”, il campionato di calcio tra pazienti e infermieri – “Brocchi” raccontava spesso Guidone, mentre scroccava i pranzi seduto ai chioschi di Città Satellite, “Gli infermieri eran dei gran brocchi, credetemi”.
Di solito l’arbitraggio era affidato al paziente con patologie più gravi, non era raro che i giocatori protestassero per falli del tutto inesistenti, ma i medici restavano inflessibili: prima o poi i pazienti sarebbero usciti e avrebbero trovato un mondo ancora chiuso e ostile, dovevano abituarsi alle ingiustizie della vita.
Per quanto assurde, quelle confidenze a bordo campo avevano un fondamento di verità. Nella maggior parte dei casi lo stigma di Mombello impediva di trovare una casa o un qualsiasi lavoro, si appiccicava addosso come un alone maligno che attirava solo scherno e le cattiverie dei ragazzi di quartiere. Qualcuno non aveva nemmeno una famiglia a cui aggrapparsi e doveva rimanere in Istituto oltre il necessario, ed era il caso di Guidone.
Negli anni le visite di sua madre si erano ridotte fino a interrompersi del tutto, la sua famiglia aveva cambiato residenza e non ne aveva più avuto notizie. Guidone avrebbe potuto lasciare Mombello già alla metà degli anni Sessanta, ma non aveva messo piede fuori dall’Istituto fino al ’68, quando aveva trovato il coraggio di attraversare la strada, prendere il tram che portava fino a piazza Duomo e tornare indietro.
Quando a Città Satellite si sedeva al tavolo con sconosciuti oppure si presentava alle feste di compleanno senza essere stato invitato, pretendendo di avere anche lui un pezzo di carne o una candelina da soffiare, era sempre di quella fuga in tram che parlava.
Era difficile credergli, diceva di aver visto i grattacieli dal finestrino anche se al tempo grattacieli a Milano non ce n’erano, ma lui insisteva e sosteneva di aver visto anche i piccioni e in generale per quei due minuti che aveva trascorso a Milano la città gli aveva fatto una bella impressione, non se l’aspettava perché in manicomio gli avevano detto che era piena di schizofrenici.
Non so come Guidone sia arrivato a Città Satellite e non m’illudo che ricevesse tutta l’assistenza di cui aveva bisogno, ma il semplice fatto che avesse una casa, un lavoro che era stato inventato apposta per lui, che potesse assentarsi per giorni o sparire nei boschi senza che nessuno lo rimproverasse, che potesse pranzare nei ristoranti o fare infiniti giri sull’ottovolante senza pagare, stendersi vicino al lago nelle sere d’estate, a piedi nudi e con i costumi di scena ancora addosso, senza che nessuno si spaventasse o gli girasse alla larga, per me rappresenta tutta la bellezza che quel luogo è stato capace di irradiare.
L’esperienza del manicomio lo avrebbe svantaggiato in qualsiasi altro posto al mondo, ma a Città Satellite Guidone era solo un figurante come un altro, una delle tante creature solitarie e un po’ buffe che gravitavano tra le giostre e i chioschi.
Nel corso degli anni Settanta, come Guidone ne sono arrivati altri. Lasciavano Mombello e venivano assorbiti dalla “Città dei giochi”: spazzavano i viali, lavoravano in tabaccheria oppure assistevano i giostrai. I manicomi di tutta Italia avrebbero chiuso i battenti nel 1978, ma a quel tempo Città Satellite già rappresentava una comunità alternativa, quell’”utopia della realtà” tanto sognata da Basaglia.
“La Città del futuro”, l’ha definita il suo fondatore Giuseppe Brollo, nel giorno dell’inaugurazione. Ancora oggi non riesco a trovare una definizione migliore.