24 Settembre 2020
La quarta e ultima puntata del reportage di Giulia Oglialoro, scelto nel 2019 dalle giurie dei Pitching di Meglio di un romanzo
Alla periferia di Limbiate, nella provincia di Monza-Brianza, ci si può imbattere nelle rovine di un gigantesco parco di divertimenti, una «città dei giochi in mezzo alle fabbriche» aperta negli anni del Boom economico e ormai inaccessibile. Pochi chilometri separano questa zona abbandonata da Milano e da una delle aree più ricche e popolose d’Italia, ma la memoria di ciò che ha rappresentato si intreccia nitidamente ai destini di un Paese (il nostro) e a quelli di pochi abitanti che continuano a vivere ai suoi confini. Città Satellite di Giulia Oglialoro è il reportage scelto a Festivaletteratura 2019 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato a puntate sul sito del Festival e su Q Code Magazine. In quest’ultimo capitolo, le storie al centro del reportage (leggi qui la prima, la seconda e la terza puntata) si riannodano tra i ruderi del Parco delle Groane, alla ricerca di un luogo mitico.
LA CITTÀ E IL BOSCO
[di Giulia Oglialoro]
Nelle Mille e una notte, la principessa Sherazade cerca di rimandare la propria esecuzione raccontando ogni sera una storia diversa al sultano. Inginocchiata al cospetto del letto reale, tra cuscini e tende damascate, Sherazade racconta di geni e mercanti, di mele dorate e ladri che fuggono su tappeti volanti. Rimanda il finale di ogni storia alla sera successiva, cosicché il sultano, commosso e incuriosito da quei racconti, non può che risparmiarle la vita.
Mentre raccoglievo voci e testimonianze di Città Satellite, ho pensato più volte a Sherazade e al potere che hanno le storie di scongiurare la morte, di dare tempo e senso alle nostre esistenze. Città Satellite è stato il luogo della mia infanzia, la Città amata che ho frequentato infinte volte da bambina, poco prima che chiudesse, alla fine degli anni Novanta. Ma prima ancora dei compleanni trascorsi scalando montagne di gonfiabili, dei pranzi a base di mele caramellate e delle ginocchia sbucciate sfrecciando in bicicletta sui viali cosparsi di tiri al bersaglio, la Città era il luogo mitico di cui parlavano i miei genitori, nonni e famigliari, una mitologia che si rinnovava ogni pranzo domenicale o attorno a un tavolo in pietra nelle umide sere d’estate. Tutti quei ricordi e aneddoti ascoltati negli anni, sono per me altrettanto reali quanto le scene che ho vissuto, cosicché, se ci penso bene, non so davvero dire quando la Città sia iniziata, o se abbia mai smesso di esistere.
Stando alle impressioni racimolate da quei racconti, Città Satellite aveva raggiunto il momento di massimo splendore negli anni Ottanta, quando non rappresentava più solo un disperato punto di ritrovo per operai e migranti meridionali. A quel primo strato di “Città dei sogni”, di passatempo tra gli estenuanti turni in fabbrica (la Città del miracolo economico, insomma), nel tempo se ne era sovrapposto un altro, più vivo e scintillante.
La nascita di Star’s World, l’enorme sala giochi inaugurata nel ’78 a pochi metri dai cancelli d’ingresso, rappresentava a tutti gli effetti l’atto decisivo di quella trasformazione: il futuro era arrivato sotto forma di flipper, cabine foderate di luci al led e pistole azzurre da puntare contro schermi che con il tempo sarebbero divenuti sempre più liquidi, digitali e sofisticati.
Entro la fine degli anni Ottanta, anche il Comedia Club aveva ormai cambiato veste, e se i ragazzi con giubbotti chiodati facevano la fila per ore davanti all’ingresso, non era più per ascoltare i concerti di Mina o Patty Pravo, ma per ballare sotto un palco disseminato di sintetizzatori e batterie elettroniche, dove qualche sgangherata cover band locale intonava pezzi dei Duran Duran in un inglese smozzicato.
Per quanto sembri incredibile, nella vita di provincia quei concerti rappresentavano momenti di pura avanguardia: durante una cena estiva protratta oltre l’inverosimile, una cara amica dei miei genitori ha confessato che, quando non aveva il permesso di andare alla Città, sgattaiolava fuori dalla finestra in piena notte, incontrava le amiche all’angolo della via e insieme a loro camminava per chilometri lungo strade rotte e male illuminate, con le scarpe da ginnastica ai piedi e quelle da ballo tenute in borsa. Quando le ho chiesto se si sia mai sentita in pericolo, ha risposto di no, o comunque non le importava: ad attenderla, c’era “la Città del futuro”, non esisteva altro posto per cui valesse la pena rischiare.
Quando ho cominciato a cucire insieme i pezzi di questa storia, nell’inverno 2018, mi sono chiesta quanto ci fosse di vero nella fiaba che mi era stata tramandata negli anni.
Talvolta, per brevissimi momenti, mi era capitato di percepire un’ombra, qualcosa che incrinava quei racconti spensierati: poteva capitare che chi raccontava l’aneddoto si interrompeva, come sul punto di annunciare un dettaglio spiacevole – ma subito quel dettaglio veniva eclissato, si arenava in una risacca di sottintesi, rimandi, vaghe allusioni di cui io non coglievo assolutamente nulla.
Se invece mi giungeva voce di risse finite in malo modo, di sparatorie vere e proprie che in passato si erano consumate a poca distanza dall’arena in cui si tenevano gli spettacoli del Far West, chiedevo spiegazioni ai miei famigliari o a qualcuna delle presenze adulte che costellavano la mia vita: nel migliore dei casi, il tutto veniva liquidato come una sciocchezza, pura leggenda – “E poi” mi si diceva, “A te che interessa sapere queste cose?” C’era “la Città”, con i suoi concerti, gli amori sconvenienti, le giostre aperte fino all’alba, i viali scintillanti…
L’incontro ravvicinato con Gino e i suoi compari del Comedia Club avrebbe in parte confermato quel racconto, anzi: proprio ascoltando i ricordi dei “reduci”, avrei scoperto che molti dei vecchi figuranti erano degenti del manicomio di Mombello, un fatto che non poteva che alimentare l’immagine mitica che già avevo di Città Satellite.
Persino quel nome – chissà, forse scelto sull’euforia delle conquiste spaziali – dopo quella scoperta si colorava e dilatava a dismisura: all’ombra di una Milano sempre più moderna e automatica, ecco sorgere una “Città Satellite” di zingari, matti, migranti, diseredati, senzatetto – tutti quegli irregolari che si erano trovati a convivere per bizzarro piano del destino cristallizzavano per me un’idea di futuro possibile molto più degli aeroporti, dei grattacieli e altre profezie della modernità che non si sarebbero mai avverate.
Ma qualcosa di non mappato in quei racconti c’era, me ne rendevo conto; un cuore nero che palpitava appena sotto la superficie. Solo le rivelazioni di Ottavio Sardena – l’ultimo giostraio rimasto a vegliare sulla Città – avrebbero finalmente dato corpo a quel sospetto, solo le minuziose conversazioni nella penombra della sua roulotte, tra faldoni, documenti e giornali d’epoca, mi avrebbero aiutato a ricostruire la parte di storia mancante. E, come in ogni fiaba, per affrontare i pericoli, sventare le insidie, bisognava inoltrarsi nel bosco.
Il Quartiere Quadrifoglio sorgeva ad appena un chilometro dalle mura di Città Satellite, su un apprezzamento incolto oggi noto come Parco delle Groane. Inaugurato nei primi anni Settanta, si componeva di sedici palazzi di sette piani ciascuno; edifici austeri, grigi e industriali, ma quell’aspetto desolato era niente in confronto alle condizioni degli appartamenti, metrature imbarazzanti appena rischiarate da minuscole finestre, con pareti che trasudavano muffa e perdevano pezzi d’intonaco solo a sfiorarle.
L’Istituto Romano Beni Immobili, l’ente che aveva finanziato il progetto, aveva un’idea precisa di chi avrebbe abitato quegli edifici nuovi e già in sgretolamento: in accordo con il comune di Limbiate, i numeri dispari sarebbero stati destinati alle famiglie meridionali che non avevano trovato assegnazione nei complessi popolari (solo tra il ’60 e il ’68 la popolazione era quasi raddoppiata, passando da 17mila a 30mila abitanti); i numeri pari, invece, sarebbero stati messi in vendita, e non erano pochi gli acquirenti disposti a pagare cifre spropositate pur di vivere accanto al primo parco divertimenti d’Italia. È qualcosa che non sono mai riuscita a spiegarmi, un cortocircuito di miseria e privilegio che ha sempre fatto parte di Città Satellite.
Il progetto si realizzò solo in parte: poco dopo la fine dei lavori, gli edifici pari vennero occupati abusivamente da un’organizzazione criminale che faceva capo ad Angelo Epaminonda, il boss di un clan catanese stanziatosi a Milano, responsabile di un cospicuo giro di bische e scommesse clandestine, traffico di droga e prostituzione. Nei primi anni Ottanta il quartiere si era ormai trasformato in una cittadella inespugnabile, con veri e propri posti di blocco che impedivano l’accesso ai non residenti: gli operai che rincasavano a fine turno dovevano sottoporsi a quelle verifiche umilianti, i mitra esibiti in bella vista scongiuravano le richieste di aiuto alla polizia, e in ogni caso le poche pattuglie in ricognizione se ne andavano quasi subito, con i vetri infranti e le carrozzerie ammaccate per via delle pietre gettate dai balconi.
“Nessuno osava avvicinarsi” racconta Ottavio, “Quello era il limite, la fine del bosco… nessuno si è spinto oltre.”
La notte del 7 giugno 1985, Ottavio ricorda di essersi svegliato di soprassalto per il rombo degli elicotteri che squarciavano il cielo.
Per un riflesso involontario era balzato fuori dal letto e si era precipitato alla finestra del salotto, ma prima di scostare la tenda aveva atteso qualche secondo, “Per paura di quel che avrei visto”. Nell’altra stanza, sua moglie cercava di calmare i pianti dei bambini, terrorizzati dalle sirene delle volanti che passavano senza sosta.
Non era la prima volta che la polizia si presentava a Città Satellite nel cuore della notte. In passato qualche residente aveva denunciato un furto d’auto, o si era lamentato per una combriccola di ragazzini che sparavano ai lampioni lungo la strada, “Ma uno schieramento del genere non s’era mai visto”: i giornali raccontano di un’ operazione clamorosa, con oltre 250 automezzi, 1600 militari, decine di elicotteri e cani antidroga, ma tutto quel che Ottavio ricorda sono i lampi delle volanti che sfilavano lungo le mura della Città, dirette verso il Quadrifoglio – “Un incendio denso e azzurro, nel cuore del bosco.”
Era stata una serata come tante. Una tranquilla domenica di giugno, tiepida e chiara. Gli ultimi visitatori se ne erano andati poco prima della mezzanotte. Ottavio aveva lucidato il bancone del suo tiro a segno e chiuso la saracinesca con i catenacci, mentre una pioggia leggera accompagnava i passi dei figuranti a fine turno. Il congedo era sempre stato il suo momento preferito della giornata, quando tutti quegli sceriffi, quegli indiani scombinati, finti monaci e cavalieri gli sfilavano accanto, qualcuno lo salutava con un inchino. In pochi minuti la Città tornava quieta e sgombra di uomini, un segreto che conosceva lui soltanto.
“Rientri in casa. Non può stare qui” gli disse un poliziotto che aveva accostato l’auto sul ciglio della strada, poco distante dalla sua roulotte. Fece scorrere il dito su una mappa che occupava metà dell’abitacolo, poi impartì alcune istruzioni su una radiolina. Ottavio, in vestaglia e capelli scompigliati, insisteva per avere informazioni, che qualcuno perlomeno gli dicesse cosa stava accadendo.
“Stiamo girando un film,” disse il poliziotto, “Adesso rientri in casa, non se lo faccia ripetere.” Piegò la mappa e si immise di nuovo nel traffico; Ottavio vide la sua auto sparire, confondersi in quella sfilata infernale.
Era stato l’unico a scendere in strada: dal punto in cui si trovava, poteva vedere le finestre delle case e delle roulotte illuminate, e in lontananza, all’estremo opposto della Città, l’insegna del Comedia. Ebbe la tentazione di chiamare Gino: i loro rapporti si erano sempre limitati a una cortesia distante – avevano, e hanno tuttora, caratteri e attitudini inconciliabili – ma quella notte, nel chiasso della Città presa d’assalto, Ottavio pensò di telefonargli. “Volevo sapere come stava, e cosa vedeva dall’alto della sua casa… Sapere quante macchine c’erano ancora, se prima o poi sarebbe finita.”
Quel pensiero occupò solo pochi secondi, e anche se Ottavio fosse rientrato in casa e avesse composto il numero di Gino, non sarebbe riuscito a parlargli: i magistrati avevano ordinato alla Sip di disattivare i telefoni della zona, in modo che nessun residente del Quadrifoglio potesse contattare dei complici o dare l’allarme. Mai come quella notte si è tratto di una “Città Satellite”, distante e slegata dal mondo.
Ottavio strinse la vestaglia, attraversò la strada e si avviò verso la Città. Non aveva idea di cosa stesse facendo – procedeva svelto, barcollante, come in preda a un sogno. C’erano molti animali, disseminati fra le giostre: dei cavalli, dei lama, alcune scimmie, persino degli orsi; dovevano essersi spaventati con tutto quel chiasso, Ottavio pensò di andare a controllarli. Pensò che doveva fare qualsiasi cosa, fuorché starsene lì, impalato, in attesa che tutto finisse. Gli altri se ne stessero pure rintanati in casa, se volevano; in fondo, era a lui che Brollo aveva affidato le chiavi dei cancelli, e se la retata di quella notte non avesse assestato un colpo mortale, se gli 85 arresti non fossero stati l’inizio di un inesorabile declino, sarebbe stato lui, un giorno, a ereditare la Città.
Anche se la tendenza generale, tanto per i clienti abituali quanto per gli impiegati di Città Satellite, fu di eclissare quanto accaduto, di liquidare la retata come una parentesi nera, un episodio feroce ma ormai concluso, ignorarne le conseguenze fu impossibile. Per settimane cronisti, reporter e fotografi d’assalto piantonarono i palazzi del Quadrifoglio – entravano nei condomini sigillati dalla polizia e immortalavano le porte sfondate, importunavano gli altri residenti o bussavano alle roulotte dei giostrai, ansiosi di strappare loro un dettaglio, una rivelazione, un’informazione inedita sulle vicende di quella notte.
Nessuno era davvero convinto che gli affari illecitidel Quadrifoglio fossero del tutto estranei a Città Satellite, e il legame divenne evidente quando le indagini rivelarono che il bosco aveva rappresentato per il clan di Epaminonda un avamposto speciale, un luogo in cui disfarsi delle vittime di regolamenti di conti e sequestri di persona. È il caso di Giuseppe Trotta e Mauro Angelico, due ragazzi di vent’anni anni giustiziati per una dose di eroina non pagata; o di Paolo Giorgetti, un sedicenne sequestrato e poi ucciso dal narcotico usato per addormentarlo, e di altre decine di vittime che infestano le cronache di quegli anni.
Ma più ancora delle scavatrici che rivoltano il terreno in cerca di corpi, o degli scheletri rinvenuti per caso da qualche spensierato cercatore di funghi, a impressionarmi sono le notizie di ritrovamenti delle discariche abusive nel corso degli anni Novanta – i quintali di sostanze tossiche interrate senza scrupoli dai funzionari dell’Acna, azienda chimica attiva a Cesano Maderno fino alla metà degli anni Ottanta e tristemente nota come “fabbrica del cancro” per le decine di casi di tumore alla prostata contratti dai suoi operai.
Proprio nel periodo in cui Città Satellite raggiungeva l’apice del suo splendore, l’Acna riversava ai suoi cancelli centomila tonnellate di collanti, inchiostri, vernici e pericolosi solventi che penetrarono nel terreno fino a settanta metri di profondità, corrompendo l’intero ecosistema e avvelenando la falda acquifera di Limbiate.
Quando Città Satellite chiuse i battenti nel 2002, affossata da crisi di proprietà e reati di abusivismo edilizio, il sogno di una “Città del futuro” si era già incancrenito da un pezzo, e il contagio era partito proprio da qui, da questo bosco tossico e malfermo, oggetto di speculazione selvaggia, cimitero chimico e umano che per anni aveva custodito ogni sorta di orrore.
Persino dopo la chiusura del parco squadre di geologi dovettero percorrere in lungo e in largo i suoi confini, valutavano lo stato del terreno e pianificavano bonifiche, con carotaggi e perforazioni sondavano i limiti e le follie di questo miracolo urbanistico, e di tanto in tanto tra le sterpaglie e i palazzi ormai vuoti e spettrali in attesa di demolizione affioravano corpi o rifiuti, vasche a cielo aperto colme di fanghi giallastri e nauseabondi, e tutta la violenza silenziata negli anni ora veniva a galla, impossibile da ignorare.
*
Ho guardato tutte le videocassette.
Ho sfogliato tutte le fotografie e tutti i provini a contatto che sono stati affidati. Ho ingrandito i dettagli e scavato sotto l’emulsione che si espandeva sui volti come un livido. Ho visto Brollo che taglia il nastro nel giorno dell’inaugurazione, le feste di compleanno sotto il gonfiabile, i ragazzi con i tagli a scodella che ballano a coppie dentro al Comedia, che poi salta la corrente e allora escono tutti fuori e ridono davanti alla sala giochi, le cantanti con i ghepardi al guinzaglio che si esibiscono tra i banchi di fumo del locale, intere generazioni sull’autoscontro e le ballerine con il caschetto bombato che fanno la ruota davanti a Speedy Gonzales.
Mi incammino un’ultima volta nel bosco che divide le case di Gino e i Sardena seguendo i binari del treno fantasma e so che a un certo punto il bosco finirà, gli alberi diventeranno meno fitti, spunterà una strada, con i cartelloni pubblicitari ai lati, qualche casa con le finestre illuminate, e allora sarò di nuovo in città, nel mondo che tutti conosciamo con il suo battito quotidiano.
Ma finché resto qui e cammino con il fogliame secco sotto ai piedi sono ancora a Città Satellite, in un limbo che sfugge al naturale scorrere del tempo. Costeggio il fiume che si disvela nero e placido tra i rimasugli dei vecchi chioschi, tenaci impalcature e insegne di cui è impossibile ricostruire il senso, finché un tronco abbattuto dal vento o dalle alluvioni non sbarra il sentiero e mi costringe a cambiare passo.
Provo un sottile piacere ogni volta che accade, ogni volta che questo luogo rivendica il proprio diritto a esistere: non c’è niente che mi faccia pensare alla rovina o all’abbandono, tutto vive e si rinnova in questa Città che non è più città e non è solo bosco, margine incolto che sempre rifugge i piani e gli investimenti. È forse questo l’unico finale possibile per una storia che si tesse da sempre, una fine che coincide con il suo inizio, con questa terra selvatica ormai del tutto simile a quel lontano 1964, prima che un uomo tentasse di disciplinarla, imbastendo strade e progetti, pianificando una Città impossibile. “Alle volte mi sembra sia stato tutto sogno” ha confidato Ottavio durante il nostro ultimo incontro, “Che tutto quel che è accaduto, tutti gli anni e i concerti, non siano stati altro che questo, un sogno, un brivido…” Nient’altro che una storia.