5 Novembre 2021
Fino al 2017 Gorizia ha ospitato l’unica Commissione per richiedenti asilo del Triveneto, diventando meta di molti migranti, tra polemiche e mosse politiche strategiche.
Gorizia è una città calma e, a tratti, sembra una di quelle cittadine balneari il cui ritmo è cadenzato dall’alternarsi della stagione estiva rispetto a tutto il resto dell’anno. Solo che qui a dettare i tempi è l’anno accademico, non l’estate. Al bar, comodamente sedute, ci sono signore anziane ingioiellate che parlano o fumano in compagnia delle amiche, signori anziani che chiacchierano davanti al caffè, a un bicchiere di prosecco o che sfogliano il giornale. C’è solo un particolare che stride con il contesto: l’inusuale dispiegamento di forze dell’ordine.
Polizia e scarpe consumate
Viaggiando verso Gorizia in treno nelle carrozze si aggirano poliziotti che, con sguardo attento, controllano i vari passeggeri e agiscono da deterrente verso i possibili disordini. Quando si esce dalla stazione salta all’occhio il numero di volanti presenti, ben due. Imboccando il viale che dalla stazione dei treni porta al centro di Gorizia, oltre alle signore e ai signori anziani seduti ai tavoli del bar, ci sono alcuni ragazzi seduti sul marciapiede. Non sono del posto. Lo si capisce dal fatto che non cercano di attirare l’attenzione, al contrario, fanno di tutto per non essere notati. Hanno l’aria stanca, le scarpe consumate e alcuni di loro escono da un bar con una bevanda energetica in mano. Ragazzi che cercano di non essere visti. Sono migranti.
Il confine
Gorizia è una città che nell’arco della Storia è spesso “saltata” da una parte all’altra del confine. Finché, alla fine della Seconda Guerra Mondiale è diventata essa stessa una città di confine. Nel 1947 un muro a base di calcestruzzo, con alte reti e filo spinato, divise Gorizia in due, all’altezza della piazza della Transalpina: in Italia il centro storico e in Jugoslavia la periferia. Da una parte la democrazia, dall’altra il socialismo. Da una parte i nonni, dall’altra i figli con i nipoti.
Un confine è una linea che stabilisce chi è dentro e chi è fuori e a Gorizia è stato così per quasi sessant’anni, fino a quando nel 2004 la Slovenia è entrata a far parte dell’Unione Europea. Adesso in piazza della Transalpina il confine è segnato per terra, da una piastra tonda posata esattamente a metà. A testimoniare come prima ci fosse un muro rimane solo un breve pezzo di barriera, tappezzato di disegni. Per passare da Gorizia a Nova Gorica, sorta per volere di Tito subito dopo la costruzione del muro, basta un passo. Non ci si accorge nemmeno di aver cambiato Stato. Ma per chi siede sui marciapiedi di Gorizia con l’aria stanca e le scarpe consumate non è così.
Il tunnel
Fino a qualche anno fa a Gorizia c’erano molti più migranti. Studenti che hanno frequentato la città, raccontano che quando studiavano lì capitava spesso di incontrare migranti per le strade, nei parchi e soprattutto nel tunnel. Il tunnel, come viene chiamato dai locali, è Galleria Bombi che collega piazza Vittoria e via Giustiniani. Ora è chiuso per lavori in corso ma è stato chiuso anche nel 2017. “Chiuso strategicamente”, racconta Francesco Fain, giornalista del Piccolo di Trieste al telefono, in una giornata di luglio.
Da quando, nel 2011, è scoppiata la guerra civile siriana è iniziato anche il flusso di migranti che percorrevano la Balkan Route per raggiungere l’Europa.
Un numero che negli anni è cresciuto parallelamente alle instabilità legate al conflitto nel Medio Oriente. Chi prende la Balkan Route di solito parte dalla Siria o dall’Iraq, passa dalla Turchia per poi arrivare in Grecia o in Bulgaria. Da lì, per chi vuole arrivare in Italia, il viaggio prosegue attraverso la Serbia, la Bosnia-Erzegovina, la Croazia, la Slovenia e, infine, l’Italia. Un percorso che raccontato così sembra solo un lungo viaggio. Spesso per descrivere le rotte dei migranti nei giornali si parla di viaggi della speranza, ma forse viaggi della disperazione sarebbe un’espressione più corretta. Nessuno, potendo evitarlo, deciderebbe di percorrere la Balkan Route per raggiungere l’Europa. È un viaggio dove violenza, freddo, disumanità, mancanza di sonno, meschinità, brutalità delle polizie e morte sono la regola. A questo, negli ultimi due anni, si è aggiunta la pandemia da covid-19 che ha diminuito, ma non azzerato, il flusso di migranti che sceglie la Balkan Route.
Una volta arrivati in Italia si può fare richiesta affinché lo status di rifugiato venga riconosciuto. “Fino al 2017 quella di Gorizia era l’unica Commissione per richiedenti asilo del Triveneto” continua Fain dall’altro capo del telefono. “Su Gorizia c’era quindi la pressione di chi arrivava dalla Balkan Route ma anche di quelli a cui rifiutavano permessi di soggiorno in altri Paesi, anche se questa era una situazione diversa da quella regolata dalla Convenzione di Dublino”.
La Convenzione di Dublino, firmata nel 1990 e in vigore dal 1997, è il regolamento della Comunità Europea che stabilisce quale Stato dell’Unione debba prendere in esame la richiesta di protezione internazionale presentata da un cittadino di uno Stato terzo o da un apolide in uno degli Stati membri e stabilisce che lo Stato competente è quello in cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell’Unione. C’è quindi la necessità da parte di chi arriva nel territorio europeo, in questo caso quello italiano, di rimanere il più vicino possibile alle Commissioni dove è possibile fare richiesta.
I tempi per l’accettazione della richiesta sono lunghi: possono variare da alcuni mesi, una media di otto, a diversi anni. E consapevoli di queste tempistiche i migranti spesso si stabiliscono in luoghi della città che possano garantire un riparo almeno dalle intemperie, perché al freddo, nei mesi invernali, è impossibile sottrarsi. Di solito si tratta di parchi, porticati, strutture semi-abbandonate. Per Gorizia è stata la Galleria Bombi, o meglio, il tunnel.
«Una vergogna italiana»
Secondo Ridolfo Ziberna, sindaco di Gorizia dal 2017, il tunnel e la gestione dei flussi migratori, sono «Una vergogna italiana». “Perché – come dice il primo cittadino nel video della sua campagna elettorale – Gorizia è sempre stata e rimarrà una città solidale, ma il piano nazionale di accoglienza prevede che Gorizia accolga circa 90 immigrati. In realtà abbiamo avuto punte di oltre 400”. Queste “tendopoli”, come spesso vengono chiamate, sono sicuramente una vergogna ma sono anche l’emblema di come in Italia e in Europa non si riesca ad uscire dall’ottica dell’emergenza e della crisi quando si parla di migranti. Ogni Paese e ogni città (o quasi) si dicono disposti a fare la propria parte, ad accogliere i 2,5 migranti ogni mille abitanti, come stabilito dall’accordo tra Anci e il Ministro dell’Interno Minniti nel caso dei Comuni italiani. A mancare però sono una visione e una struttura normativa (e non solo) più ampie, che tengano conto di come i flussi migratori siano già e siano destinati a diventare fenomeni sempre più stabili e meno emergenziali. Il non cambiare prospettiva rischia di alimentare delle politiche locali, nazionali e internazionali miopi, che tentano di arginare un fenomeno che inevitabilmente irromperà da altre parti.
Grate di ferro
Alla fine il tunnel a Gorizia è stato chiuso. A fine novembre del 2017 il sindaco Ziberna – in accordo con l’allora nuovo prefetto Massimo Marchesiello – dopo un Tavolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, ha fatto mettere le grate alle due estremità di Galleria Bombi e ha sgomberato chi sostava all’interno facendolo portare in strutture di accoglienza come il Cara di Gradisca o il Nazareno di Gorizia, come ha dichiarato il sindaco stesso in un’intervista al Manifesto. La chiusura del tunnel ha lo scopo “tornare alla normalità”, riaprendo il tunnel al traffico, mentre prima era percorribile solo da pedoni e biciclette. Sempre nel 2017, alla chiusura della Galleria Bombi si aggiunge un altro risultato: l’attivazione a Udine di una Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale per “alleggerire il lavoro di quella goriziana in attesa che questa venga poi trasferita a Trieste”, scrive il Piccolo. Chiuso il posto dove dormire, venute a mancare le cure e i pasti caldi offerte dalla popolazione locale, spostata la Commissione territoriale: i migranti non hanno più motivo di sostare a Gorizia. E forse è anche per questo che la città appare così ordinata e spensierata da poter essere scambiata per una cittadina di villeggiatura.
Tifoserie e capelli bianchi
Quando in una piccola città di confine si discute se sia giusto lasciare che dei migranti bivacchino in un tunnel, non si sta mai parlando solo di un tunnel. Si sta anche parlando di guerre, di persone che lasciano le proprie case perché là non possono più vivere, di politiche migratorie, di brutalità poliziesca, di Unione Europa ma anche di Italia e di tutti gli altri Stati membri, di geopolitica, di alleanze, di accordi, di burocrazia, di trattati internazionali e mi fermo qui anche se la lista potrebbe continuare. Ora immaginiamo che tutta questa lista venga condensata in una cosa sola: un tunnel. Sembra impossibile, e invece succede quasi tutti i giorni. A volte però è difficile ricordarsi che da una questione apparentemente semplice come tenere aperto o chiudere il tunnel dove bivaccano dei migranti partano ramificazioni che portano a questioni più complesse e anche più distanti. E allora il tunnel diventa una partita di calcio in cui le tifoserie urlano: tunnel aperto sì, tunnel aperto no. È successo lo stesso con il caso di Mimmo Lucano. Incapaci di concepire, analizzare e metabolizzare la complessità che si cela dietro la scelta di aiutare chi ha rischiato la morte pur di costruirsi una vita dignitosa cerchiamo di tamponare la situazione mettendo a processo (e condannando) chi ha aiutato. È un po’ come pensare di evitare di diventare canuti strappando uno alla volta i capelli bianchi che iniziano a spuntare: è una soluzione temporanea e che non modificherà ciò che avverrà in futuro. Anche qui però è un attimo tornare alla tifoseria.
“Da quando la commissione territoriale è stata spostata da Gorizia si è visto un grande cambiamento. Personalmente non pensavo avrebbe avuto un impatto così importante sul flusso di arrivi e invece sì – mi racconta al telefono, in una mattina d’ottobre, Francesco Isoldi, direttore del centro di accoglienza Nazareno di Gorizia – Prima arrivavano davvero tante persone, ora c’è stato un calo radicale legato anche a quello. Devo dire però che, rispetto a qualche tempo fa le persone tendono a rimanere a Gorizia. Una volta che vengono mandati qui, prima magari andavano via; adesso invece tendono a farsi l’iter tutto da qui, con il risultato che c’è una permanenza media più alta. E rispetto a prima secondo me c’è anche un maggiore lavoro di sinergia con la Prefettura, gli ospiti vedono che effettivamente vengono rispettati gli step per la formalizzazione della domanda, per il permesso di soggiorno, per il rinnovo, per l’audizione in commissione e così via. Si fidano di più. Non è che prima la collaborazione con la Prefettura mancasse ma adesso siamo come più coordinati”. Quando gli domando della chiusura di Galleria Bombi, Isoldi mi dice che anche lui è convinto che sia stata anche una mossa strategica ma che “ci sono stati dei momenti in cui i numeri erano davvero insostenibili, ora invece le strutture riescono a gestire questo numero di presenze sul territorio. Non so se la scelta di chiudere il tunnel sia stata giusta o sbagliata, so che al momento questi numeri sono gestibili. In quel momento lì, se cento persone dormono in strada significa che il numero di presenze sul territorio non è sostenibile”. E non è sostenibile per nessuno: non per i migranti, non per chi li aiuta, non per i cittadini.
Capitale della Cultura
Gorizia e Nova Gorica saranno capitale europea della cultura 2025. Un risultato incredibile per due città che sono state separate da calcestruzzo e filo spinato per quasi sessant’anni. Se il confine è una linea che stabilisce chi è dentro e chi è fuori, allora Gorizia e Nova Gorica lasciano sperare che un po’ alla volta tutti i muri e confini possano essere messi in discussione, spostati, corrosi. Anche quelli che non sono tracciati da una mappa ma che nelle nostre parole e nei nostri programmi elettorali dividono noi da loro.