Diario siriano: storie di rifugiati in Turchia

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20 Novembre 2019

Nizar e tutti gli altri

La guerra al nord della Siria e la recente espulsione (in alcuni casi, ricollocazione) di migliaia di profughi siriani irregolari da Istanbul (il vali – governatore – di Istanbul ha dichiarato che circa 6.416 rifugiati siriani irregolari verranno trasferiti nei campi profughi turchi, coloro i quali non hanno invece la residenza a Istanbul saranno invece trasferiti nelle altre città turche presso le quali sono registrati), ha riproposto all’opinione pubblica internazionale la questione dei rifugiati. Ogni volta che sentiamo questa parola, pensiamo subito a qualcuno che sta scappando da una guerra, spesso su un gommone o su una barca. È sempre difficile, però, conciliare questa immagine stereotipata a quella di una persona che da quel gommone o da quella barca riesce a scendere, iniziando così a ricostruirsi una quotidianità. Diario siriano nasce dalla voglia di dare un volto concreto ai rifugiati siriani in Turchia, raccontandone le storie attraverso le loro stesse parole.

Nizar

Fatih è il distretto in cui tutti quelli che vengono a Istanbul sono stati senza sapere di esserci stati. È lì che si trovano la Basilica di Santa Sofia la Moschea Blu, il bazaar delle spezie.

Ma Istanbul è anche fatta di odori e quando vai in quelle zone per le prime volte, senti l’odore delle polpette di Selim Usta, i profumi forti e dolciastri che hanno tutti nomi come ‘Istanbul’, ‘Böğaz esintisi’ (brezza del Bosforo), ‘Rüzgar’ (vento), la colonia al limone, i petali di rosa secchi. Se poi Fatih inizi a viverlo nella sua quotidianità, come è successo a me, a quegli odori ti abitui e smetti di fare caso. Fatih, nelle aree che sfuggono all’interesse del turista, si rivela un luogo completamente diverso, fatto dell’odore del simit (la tradizionale ciambella di pane ricoperta di sesamo, uno degli street food più caratteristici della Turchia) appena sfornato, quello del mercato del pesce, l’odore del sapone di Marsiglia sugli stracci usati per lavare i pavimenti delle taverne e quello di un profumo da donna- un misto tra vaniglia e arancia- di cui non ho mai appreso il nome e che ogni volta mi fa dire “Sì, sono a Istanbul”.

La toponomastica degli odori di Fatih cambia a seconda del tuo grado di conoscenza della città. Così, quando decidi di abbandonarne le zone turistiche per addentrarti nei quartieri di Haseki, Cerrahpaşa, Fındıkzade, i profumi diventano quelli del cardamomo, del limone, dello sciroppo di zucchero rovesciato sui dolci.

Sono le zone in cui- dal 2015 circa- vive la maggioranza dei rifugiati siriani. Arrivati qui in seguito al programma di protezione rifugiati finanziato- tra gli altri- dalla Turchia e dall’Unione Europea, i siriani in quei quartieri hanno riprodotto una piccola Aleppo e una piccola Damasco.

Istanbul ospita circa 600mila rifugiati, di cui la maggior parte vive proprio a Fatih. In questi anni lì hanno aperto ristoranti, pasticcerie, caffetterie, agenzie turistiche e immobiliari, negozi di abbigliamento, creando così quella che oggi viene definita “la piccola Siria di Istanbul”. Qualche turco negli ultimi anni dice addirittura che “La capitale della Siria non è Damasco, è Fatih”. La zona è immediatamente riconoscibile non solo per i suoi profumi, ma anche per le insegne degli esercizi commerciali che sono scritte in arabo.

La sinuosità delle lettere dell’arabo ha creato però non pochi problemi ai siriani, a molti turchi non piacciono perché “Questa è la Turchia, abbiamo la nostra bella lingua turca! Che bisogno c’è di scrivere in arabo?” oppure “Non si capisce che c’è scritto”, ma anche perché, fondamentalmente “Questa non è la Siria, se vogliono scrivere in arabo che tornino lì!”.

Dal 2016 queste frasi sono diventate ricorrenti nei video su YouTube, nelle interviste per la tv e i giornali, nelle conversazioni quotidiane.

Le proteste dei commercianti turchi contro l’uso dell’arabo si sono fatte sentire così tanto che negli ultimi anni il comune di Fatih ha deciso di proibire che le insegne degli esercizi commerciali vengano scritte completamente in caratteri arabi: almeno il 75% deve essere scritto in turco e con le lettere latine.

Così tante insegne sono state rimosse, sostituite con quelle conformi alle nuove leggi. Salloura, Saniora, Sahtin, Zaitoune: i nomi di questi ristoranti sono diventati tutti di facile lettura, anche per chi non conosce le lettere arabe. Tra quelle insegne ce n’è però una che continua ad essere scritta più in arabo che in turco, e la riconosci subito perché porta anche il disegno di un fez, il tradizionale cappello ottomano. È l’insegna di Tarbuş, il ristorante di Mohammad Nizar Bitar, siriano di Idlib, damasceno di adozione, innamorato di Istanbul.

Dal 2011 in poi, con l’inizio della guerra, ha deciso di portare qui i suoi figli e le sue sorelle, di tagliare ogni rapporto con la Siria perché “Sono stufo di essere controllato a tutti quei posti di blocco! Un viaggio di un’ora in auto dura tre ore!” e perché “In quel Paese ci trattano come animali! Bisogna fare tutto quello che dice Bashar!”.

Nonostante questo, non ha mai smesso di contribuire personalmente alla ricostruzione della moschea degli Omayyadi di Damasco: dopo tutto, è lì che ha vissuto gran parte della sua vita, da quando si era trasferito per studiare giornalismo, ma poi ha capito che “Se avessi fatto il giornalista in Siria, probabilmente sarei già morto”. Così, ha deciso di dedicarsi alla produzione di mosaici.

In Turchia ha aperto una catena di ristoranti dal nome Tarbuş-Cucina ottomana della Siria. La sua insegna è una delle poche che resta ancora quasi totalmente in arabo, perché ha fatto causa al comune di Fatih l’ha pure vinta.

Il fez di Tarbuş campeggia vittorioso laddove tutti gli altri commercianti siriani si sono adeguati alle nuove regole senza protestare. Quando incontro Nizar per chiedergli le ragioni della sua protesta, rimango colpita dalla sua capacità di ricollegare la questione dell’alfabeto arabo a una visione più generale della storia e della società turca.

Mi accoglie con una tazza di caffè fumante, sapendo di farmi cosa gradita: avendo viaggiato molto, sa che per la stragrande maggioranza degli italiani il caffè è cosa gradita più del tè, il vero protagonista dei rituali di ospitalità in queste zone.

Il suo amore per l’arte e per i mosaici si vede dalle mattonelle con cui ha deciso di decorare le pareti di questo ristorante sul Corno d’oro, con giochi di colore e forme geometriche: “Servono a distrarre il cliente mentre aspetta che il cibo sia pronto” dice.

“Se scrivessi Tarbuş con i caratteri latini, perderei più del 70% dei clienti arabi. I turchi questo lo sanno?”, dice.

“Loro vedono i siriani semplicemente come ‘rifugiati’, in realtà noi rappresentiamo un grosso potenziale economico per la Turchia, perché siamo anche lavoratori. Ad esempio, io ho tanti clienti anche dall’Arabia Saudita, dove possiedo tre ristoranti, mi è stato chiesto di aprire nuove filiali del mio ristorante anche in Qatar. Questi clienti a loro volta investono in Turchia, non sono solo io a beneficiare di queste collaborazioni.”

Poter discutere di queste cose con Nizar è un privilegio, non solo perché ha una conoscenza perfetta dell’inglese e del turco, che ci permette di capirci bene, ma anche perché ha una visione d’insieme sulla questione dei rifugiati siriani in Turchia che va ben oltre l’imminenza delle problematiche quotidiane.

“Noi siriani e i turchi abbiamo secoli di storia in comune, siamo stati entrambi parte dell’Impero Ottomano, condividiamo la stessa eredità. Sai quante famiglie per metà siriane e per metà turche conosco? Sai in quanti hanno combattuto per la Turchia? Se ci pensi bene- a dividerci- al confine tra la Turchia e la Siria ci sono solo le montagne, in alcuni casi nemmeno quelle”.

Nizar lo sa bene, le proteste dei turchi verso i rifugiati e verso la lingua araba danno fastidio per motivi che hanno a che fare con il nazionalismo turco, il concepire la Turchia come spazio geografico e linguistico di chiunque sia cittadino turco e parli turco.

Il rifiuto verso le lettere e la lingua araba nascondono inoltre una delle paure archetipe della Turchia in quanto repubblica nata meno di cento anni fa e da allora sempre in cerca del giusto equilibrio tra laicità e Islam: “Ho l’impressione che per loro usare l’alfabeto arabo sia un incitamento alla radicalizzazione e all’estremismo in fatto di Islam. Non è affatto così: noi usiamo l’arabo perché questa è la nostra lingua. Per noi è un modo di esprimerci come un altro” mi spiega Nizar, che poi continua: “Hanno usato anche loro le lettere arabe per scrivere fino all’inizio del secolo scorso, perché non riescono a fare pace con il loro passato? Perché questa paura dell’Islam, non sono loro stessi musulmani?”.

Da parte mia, gli faccio però notare che, dietro alle proteste verso l’uso dell’arabo, potrebbe esserci anche un sentimento nazionalista che sfocia nella necessità di tutelare la lingua turca.

D’altronde, le politiche nazionaliste turche dalla nascita della Repubblica di Turchia in poi, si sono sempre focalizzate sulla tutela di un’unica lingua- il turco- assunta a simbolo dell’unità nazionale.

La risposta che Nizar dà a questa mia osservazione mi lascia con un interrogativo che in realtà mi accompagna da quando mi sono trasferita in Turchia, un interrogativo sul quale ho costruito i miei studi di dottorato e di cui, forse, non mi libererò mai:

“Sai cosa significa Tarbuş?”
“Mhmm…, no”
“Fez. Tarbuş e fez sono due parole che vengono dall’arabo e che si usano per indicare quel tipo di cappello. Entrambe si usavano nel turco di tanto tempo fa”
“Ah, davvero?”
“Sì. Vedi perché dico che dovrebbero guardare con occhi diversi alla loro lingua e alla loro storia?”