Frammenti di un discorso post-sovietico

di

29 Luglio 2019

Tra Estonia, Lettonia e Lituania, memorie e centrali nucleari, futuro e passato attorno a una narrazione dello spazio pubblico

Il socialismo era il futuro, i popoli erano tutti fratelli e il complesso militar-industriale era il perno su cui si sarebbe basato il sorpasso al capitalismo. Questi dogmi dell’ideologia sovietica erano destinati a plasmare radicalmente la storia e la geografia dell’area sconfinata delle quindici repubbliche socialiste sovietiche, traducendosi nell’edificazione di poderose centrali energetiche (nucleari e non), imponenti basi militari e impenetrabili “città chiuse”.

Le repubbliche dell’URSS dovevano tutte lavorare per il centro, far convergere le proprie energie verso la difesa comune dei successi delle forze proletarie dalle fauci di un imperialismo statunitense in perenne agguato.

Oggi, che il comunismo non è più il futuro ma soltanto il passato, queste roccaforti rimangono come cicatrici lasciate dall’occupante – così sono percepiti e raccontati i sovietici negli stati liberatisi dal giogo di Mosca a cavallo degli anni ’90.

Sebbene il brutalismo delle loro linee venga celebrato in cartoline vintage nell’estasi dei turisti, per chi è rimasto a vivere in queste cittadine dalla gloria svanita le spoglie del comunismo hanno un sapore molto più amaro.

Centri urbani nati o stravolti interamente per il benessere dell’URSS si sono avvitati in una crisi d’identità irreversibile al crollo del muro, lottando per ritagliarsi una nuova funzione in stati indipendenti molto più piccoli, molto più fragili, molto più dipendenti. Questa contraddizione dolorosa raggiunge il parossismo in quelle che furono le repubbliche sovietiche più occidentali (e occidentalizzate): Estonia, Lettonia e Lituania.

Le terre baltiche pullulano di insediamenti abbandonati a se stessi, non di rado abitati da una cospicua minoranza di nazionalità e lingua russa, un lascito dell’ingegneria demografica sovietica che appare oggi un fastidioso anacronismo, la testimonianza vivente del marchio degli ex-oppressori.

Sillamae, fiume

Sillamäe, Estonia settentrionale, si fa notare già a fine Ottocento, in piena epoca zarista, come resort di villeggiatura per turisti abbienti. La sua posizione favorevole, adagiata sul Golfo di Finlandia, propaggine orientale del Mar Baltico, la rende una meta di culto per la créme della società pietroburghese.

Daugavpils

Qui soggiornano, tra gli altri, il poeta simbolista russo Konstantin Bal’mont, il compositore Petr Čajkovskij, l’etologo Ivan Pavlov (quello del celeberrimo esperimento). L’ideale di placida cittadina termale per aristocratici russi collassa negli anni ’20.

Nel sottosuolo vengono scoperti floridi giacimenti naturali di scisto, un succedaneo del petrolio. Giungono allora le compagnie industriali svedesi che, forti di una tecnologia impensabile per i locali estoni, riescono ad estrarre fino ad un volume di 500 tonnellate al giorno di scisto-bituminosi. Viene costruito un porto, candidato a diventare un hub per i traffici nel Baltico.

Ma la Storia offre un secondo colpo di scena, molto più tragico del primo. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, questa cittadina si ritrova al fronte. Gli occupanti nazisti, smaniosi di sfruttare le ricchezze minerarie della regione, aprono campi di concentramento, dove gli internati vengono sottoposti a regimi lavorativi sempre più insostenibili man mano che il conflitto si inasprisce.

Nel 1944 Sillamäe è sulla linea Tannenberg, dove si consuma una delle battaglie più aspre tra sovietici e nazisti, che lascerà sul campo decine di migliaia di morti. Gli scontri e i sabotaggi dei tedeschi radono quasi al suolo l’elegante cittadina estone. Al termine della guerra, i sovietici ricostruiscono gli impianti estrattivi e decidono di fare di Sillamäe un centro d’eccellenza per l’estrazione e la lavorazione dell’uranio, noncuranti delle conseguenze ambientali – devastanti visto la vicinanza del mare.

Baia di Sillamae

Dal 1947 Sillamäe cambia nome e diventa “Narva 10”, una città chiusa che fino al 1991 rifornirà di uranio arricchito le industrie sparse per il feudo sovietico.

Visaginas downtown

La Sillamäe odierna pare ancora una città traumatizzata, a tratti catatonica. Le case, costruite nella tarda epoca staliniana, conservano una certa stoica dignità nella loro ricopertura in legno color panna acida. Una promenade di nuova fattura sbocca sul mare; sembra fare il verso alla celebre scalinata di Odessa, immortalata nella scena simbolo de La Corazzata Potëmkin.

Qui l’eredità sovietica è un misto di disoccupazione, emigrazione e disastro ambientale. La privatizzazione dell’industria estrattiva ha scatenato una catena di esuberi. I cittadini che si incontrano per strada, acquattati sulle panchine o alle bancarelle del mercato, sono quasi tutti ex-operai della centrale nucleare, originari delle zone più remote della Russia, a migliaia di km da questo angolo di Baltico.

Spesso non spiccicano una parola di estone. Oggi è sabato e c’è festa al parco. Il dj spara musica house americana, gli adolescenti con la sigaretta all’orecchio provano a ballare, i meno ruspanti li
guardano sorseggiando birre economiche e gli anziani li osservano in silenzio dalle panche, come stessero guardando un film d’essai al cinema. Dall’altra parte della città alcuni ragazzi impressionano le controparti femminili tuffandosi dal ponte sopra il fiume che costeggia la centrale nucleare.

Quando i tuffatori riemergono, una chiazza marrone scuro si espande attorno a loro. Nella chiesa ortodossa, ricostruita solo nel 1990, una fedele velata di bianco accende un cero, in un tripudio di icone dorate che fa emergere ancora più vivida la penuria di presenza umana nel luogo di culto. Il simbolo della città – la statua di un uomo che sorregge un atomo – ricorda che l’uranio prodotto qui non aveva utilizzo bellico: da queste parti si è orgogliosi del titolo di “Città dell’atomo di pace”. Scende l’imbrunire, mentre i ragazzini saltano sulle note di Skrillex e le vie si svuotano.

Visaginas

A differenza della collega estone, l’odierna Visaginas non offriva alcuna storia precedente da vedersi stravolgere: all’estremità nord-orientale della Lituania, nel mezzo di rigogliose conifere, soltanto nel 1975 compare l’ala di una farfalla costruita in cemento e calcestruzzo, in perfetto stile modernista socialista. Si tratta della cittadina di Sniečkus, dal nome dell’ex segretario del partito comunista lituano; sarà ribattezzata “Visaginas” solo nella Lituania indipendente.

Il governo sovietico la progetta come città-dormitorio dove ospitare ingegneri e operai specializzati di una centrale atomica da poco aperta nella vicina Ignalina, una delle più futuristiche e potenti di tutta l’URSS. Sniečkus-Visaginas deve diventare una prigione dorata, una città-modello, popolata da élite tecnocratiche ben stipendiate, convolate in Lituania da tutta l’URSS. Simbolo dell’insediamento è la gru, uccello sinonimo di vigilanza, accortezza, prudenza – le doti necessarie per maneggiare l’uranio. Come si imparerà dolorosamente poco più di decennio più tardi, quando avviene un episodio destinato a rivoluzionare anche la vita di Visaginas.

Il 26 aprile del 1986 in una remota località al confine tra Bielorussia e Ucraina, dei tecnici stanno eseguendo controlli di routine sul reattore 4 di una centrale in tutto e per tutto simile a quella di Ignalina. Per un errore umano le barre dell’impianto di refrigerazione, composte da idrogeno e grafite incandescente, vengono a contatto con l’aria: l’effetto è una deflagrazione di proporzioni bibliche che incenerisce la centrale di Černobyl’;, uccidendo 66 persone sul colpo e contaminando un’area di svariate centinaia di km quadrati. Una nube tossica si leva in aria e valica i confini dell’URSS, palesando al mondo la debolezza degli impianti nucleari sovietici.

Quando la Lituania diventa indipendente, gli alleati occidentali dichiarano senza tanti giri di parole che l’impianto di Visaginas va chiuso. A nulla valgono le rimostranze della popolazione locale, perlopiù personale tecnico russofono timoroso di perdere il posto, o le rassicurazioni sulla stabilità della struttura.

Bruxelles non si fida, e nel 2009 l’ultimo reattore viene definitivamente spento. Intanto la cittadinanza si è pressoché dimezzata e la neonata Visaginas è diventata un’oasi russofona alla periferia del resto del Paese.

In una Lituania che vira sempre più convintamente verso la green economy, un manipolo di specialisti del nucleare incapaci di esprimersi nella lingua nazionale non può che essere superfluo. Oggi, passeggiando per quella che avrebbe dovuto diventare una città ideale, il contrasto tra i supermercati scintillanti e lo scenario di palazzoni squadrati ocra polvere su cui si stagliano pare incarnare tutta la contraddizione del luogo. L’atmosfera è surreale, ci si sente sul set, come se quella serie di edifici disposti così geometricamente fosse le quinte di una scenografia.

Una sensazione che diventa realtà alla centrale di Ignalina, dove si aggirano soldati in uniforme sovietica; proprio qui, nella centrale nucleare più simile all’originale, la televisione nazionale lituana sta girando un film sul disastro di Černobyl’, essendo il sito ucraino ancora inaccessibile a trent’anni dall’incidente – qualche mese dopo il nostro viaggio vi filmeranno anche alcune scene di Chernobyl, la serie targata HBO già divenuta un cult.

Visagina, centrale

A Visaginas i locali sono accoglienti, si fermano volentieri a fare due chiacchierare. L’Ostalgie da queste parti è un tratto genetico. La demolizione dello storico Aukstaitija Hotel per far posto ad un negozio Lidl, a febbraio di quest’anno, ha infiammato la cittadinanza.

A chi domanda “Cosa vi riserva il futuro?” rispondono mestamente “Ci riprenderemo, finiremo di costruire la seconda ala della farfalla”. Una voce fuori dal coro, in una città così ordinata, è Točka, una sorta di centro sociale che si snoda per i quattro piani di uno dei condomini anonimi affacciati
sulla piazza principale.

“Questa città deve smettere di rimpiangere il passato e il nucleare”, dichiara perentorio Alex, il fondatore. “Sono passati tanti anni, ormai siamo distanti da Mosca. Ripartiamo dall’arte, dal turismo, dall’Europa”, continua. È il tramonto, qualche camping e dei bungalow silenziosi spuntano dal limitare del lago dove si specchia la città della farfalla.

Se Sillamäe e Visaginas hanno trovato un modo per venire a patti con il terzo millennio, così non è successo a Zeltiņi, Lettonia orientale (il cosiddetto Latgale). È il 1962 e l’URSS è alle prese con la più grave querelle diplomatica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la crisi dei missili di Cuba. Casa Bianca e Cremlino riescono a scongiurare il peggio, ma i sovietici restano inquieti, devono correre ai ripari e aumentare il proprio potenziale di deterrenza.

Scelgono di costruire qui, nel cuore della foresta di Aluksne, una base missilistica di alto calibro: Zeltiņi ospita otto testate nucleari, lunghe ciascuna 22 metri, capaci di colpire nel raggio di 2mila km, quindi fino a Amsterdam, Londra, Parigi. Come sempre in questi casi, il comunismo si prende la vita di chi opera nella base. Oltre ad hangar, rampe di lancio per i missili e una ragnatela di bunker e tunnel sotterranei, vengono edificate anche strutture abitative per il personale permanente, obbligato ad essere disponibile 24h.

Se scoppia la Terza Guerra Mondiale, non ci si può permettere un secondo di ritardo. Quei missili però non verranno mai lanciati e, con la Guerra Fredda che si avvia ai titoli di coda, perdono di senso. Nel 1984, l’anno prima che uno sconosciuto dirigente ascenda al ruolo di Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e traghetti l’Impero del Male verso l’eutanasia definitiva, la base di Zeltiņi viene chiusa.

L’area militarizzata, completamente avulsa dai piani di sviluppo industriale, viene concessa in comodato d’uso gratuito alla vegetazione. Oggi rimangono meno di 200 abitanti e solo una volta all’anno si organizza la reunion di tutti gli ex-cittadini. I fusti delle piante custodiscono gli hangar, dove ogni tanto i superstiti si recano per fare legna.

Il tempo, la natura e i saccheggi hanno trasformato la base missilistica in un rudere a cielo aperto. Esclusivamente pipistrelli e turisti stranieri si avventurano nei bunker. I muri sono stati abbattuti e
solo le larghe pavimentazioni di cemento ricordano lo scopo originale.

Nel mezzo di una di queste, come un meteorite caduto dal cielo, un enorme cranio di granito. In un luogo così improbabile e desolato, la gigantesca effige di quel Vladimir Il’ič Ul’janov a cui si deve il rimpianto o maledetto sconvolgimento di queste anime baltiche riposa ad occhi aperti, impassibile sotto una pioggerellina estiva.

Zeltini