“Today I’ill show you a beautiful place”, dice Mohammad, per gli amici Jimmy
Saliamo nella sua macchina, ormai famosa per essere la cassa di risonanza di tutte le hit da discoteca degli ultimi anni. Lasciamo il piazzale del porto, dove ci trovavamo a documentare i lavori di costruzione dello skate-park promossi dal progetto Gaza Freestyle Festival.
Riconosciamo la strada che va verso nord, la stessa che porta al valico di Erez. A un certo punto ci addentriamo ancora di più nell’entroterra e andiamo verso le recinzioni che indicano l’inizio della zona cuscinetto, sempre sorvegliata dai militari dell’IDF (Israeli Defense Forces, l’esercito israeliano).
Queste stesse reti, ogni venerdì, in zone diverse della Striscia, diventano la meta delle manifestazioni della Marcia del Ritorno, che da mesi portano migliaia di giovani a fronteggiare i blindati israeliani. Il confronto, se tale può definirsi, con fionde e sassi da una parte e lacrimogeni e proiettili dall’altra, settimanalmente allunga l’elenco di mutilati e vittime fra la popolazione palestinese.
Dopo una serie di strade sterrate si apre davanti a noi una vastissima distesa a macchie gialle e verdi, disseminata di serre e campi coltivati.
“Here we are, the strawberry farm”. Concentrate in quest’area, tra mare inquinato e sorveglianza soffocante, a pochi chilometri dal confine israeliano, si trovano tutte le coltivazioni di fragole della Striscia.
Parcheggiata l’autovettura, ci avventuriamo a piedi tra i filari di fragole. Qui, con una pazienza senza tempo, alcuni giovani raccolgono ogni singolo frutto sotto l’occhio attento di genitori e nonni, che di generazione in generazione tramandano la tecnica di coltivazione e raccolta.
Dopo un rapido giro fra piantagioni e baracche improvvisate, ci avviciniamo ad un piccolo edificio, l’unica costruzione in mattoni presente.
Jimmy non ci dà anticipazioni su quello che troveremo al suo interno, ma dagli sguardi attenti dei contadini capiamo debba trattarsi di un edificio a loro molto caro. Mentre noi viaggiamo con la fantasia pensando a cosa troveremo oltre quella porta serrata con un lucchetto tanto grande quanto vecchio, si presenta alle nostre spalle un anziano signore; dopo essersi pulito le mani dalla terra, estrae da una tasca una chiave, apre la porta e davanti a noi appare un enorme macchinario di produzione inglese, della Ruston and Hornsby.
Dando un primo sguardo confuso, senza capire cosa abbiamo di fronte ai nostri occhi, notiamo in fondo alla stanza un’ampia apertura nel suolo.
Solo in questo momento realizziamo dove ci troviamo. Tutti gli sguardi circospetti di prima acquistano un senso: siamo davanti al cuore di quelle terre, davanti a noi si apre un pozzo profondo quaranta metri.
Nella condizione di crisi umanitaria sempre più opprimente in cui si trova la Striscia di Gaza ormai da troppo tempo, la carenza cronica di acqua è una delle problematiche che più affligge il popolo gazawi.
Un’emergenza conseguente alla distruzione della centrale elettrica e delle reti idriche avvenuta durante l’operazione militare Margine Protettivo del 2014. Da allora, i contadini hanno dovuto organizzarsi per tenere vive le loro coltivazioni.
I quantitativi d’acqua che vengono estratti quotidianamente da quel singolo pozzo dovrebbero garantire dunque l’irrigazione di tutte le coltivazioni della zona, ma raramente ciò risulta possibile e per questo motivo la raccolta dell’acqua piovana è diventata una delle attività più importanti e sistematizzate.
Dopo aver armeggiato con una serie di leve e cinghie, il custode del pozzo accende il grande macchinario e gli ingranaggi della pompa idrica iniziano a girare, facendo riecheggiare per tutte le serre un suono ritmico e vitale.
In pochi minuti, l’edificio si trova circondato di ragazzi che spiano dalle finestre, mentre i più intrepidi fanno qualche passo oltre lo stipite della porta, come richiamati da quel ritmo battente: non è l’orario canonico in cui sono abituati a sentirlo. L’estrazione dell’acqua avviene infatti abitualmente alle prime luci del giorno, così che le taniche siano piene per l’inizio della giornata.
Questa atmosfera viene interrotta dal cigolio di un carretto trainato da uno dei tanti asini che in quelle zone rappresentano il principale mezzo di locomozione, sia per lo spostamento di persone che di merci.
Un ragazzino che avrà al massimo dieci anni ci viene a chiamare facendoci segno di seguirlo: saliamo con lui sul carretto e lentamente ci spostiamo attraverso le serre.
Durante il tragitto proviamo ad interagire con lui nonostante la differenza linguistica e, fra molti gesti e qualche sorriso, capiamo che ci sta portando nella serra della famiglia Elshafey, dove, ad aspettarci troveremo suo zio.
Ad accoglierci troviamo invece una decina di persone intente a curare le loro coltivazioni di fragole pensili. Questa è una pratica molto diffusa all’interno delle serre: oltre ai campi, le famiglie con maggiori produzioni si sono organizzate per far crescere le coltivazioni anche in lunghi vasi appesi al soffitto, così da sopperire alla mancanza di terreni coltivabili.
Ci sediamo attorno a un tavolo con i maschi della famiglia. Il padre ci fa assaggiare le fragole appena colte, accompagnate dall’immancabile tazza di chai con la salvia.
A questo punto iniziano a raccontarci la storia della loro serra, di com’è nata la tradizione della coltivazione di fragole in quella zona e quali sono i mercati in cui si inseriscono.
Apprendiamo che il sistema di serre e coltivazioni è organizzato come una rete di “aziende familiari” che permettono il mantenimento delle famiglie e abbattono i costi della forza lavoro.
Per esempio, in questa famiglia sono in quindici e si dedicano quotidianamente alla loro attività, ciascuno ha il proprio compito specifico: il bambino di dieci anni che guida i carretti, i nipoti più grandi che curano la terra e seguono il raccolto e i genitori che monitorano la vendita del prodotto e si occupano della parte economica.
Si tratta di un modello che veniva già utilizzato quando la principale attività della zona era la produzione di mele e arance.
Prima che gli israeliani lasciassero la Striscia di Gaza nel 2005, la zona era infatti famosa per i meli e gli aranci. Dove ora vi sono distese di serre e filoni a terra, un tempo si vedeva un orizzonte di colline e campi alberati. E’ stato solo in seguito che i gazawi sono passati alla coltivazione di fragole, soprattutto a causa degli incentivi e dei finanziamenti dello Stato di Israele per il cambio di coltivazione.
Il motivo di questi finanziamenti non lo sanno spiegare, ma il primo pensiero che passa per la mente è una motivazione militare: le serre si trovano a ridosso delle reti di confine con la zona cuscinetto, e pertanto la presenza di coltivazioni a terra permette di avere un’ampia visuale dalle torrette dell’IDF, cosa che risulterebbe impossibile se al posto dei filoni di fragole ci fossero distese di alberi da frutta.
Senza questo campo aperto, i militari israeliani come potrebbero controllare questi contadini? Come potrebbero decidere arbitrariamente sulle loro vite?
Perché va detto: nella Striscia di Gaza non si muore solo per i bombardamenti, la mancanza d’acqua, l’assenza di elettricità negli ospedali, l’impossibilità di lasciare la Striscia per ricevere cure mediche adeguate. Si muore anche andando a raccogliere fragole.
Non sono rare le segnalazioni di contadini uccisi da proiettili israeliani, colpiti mentre lavorano nel loro campo. I gazawi sono consapevoli del rischio che corrono andando tutti i giorni fra quei filoni di fragole, ma la paura non li ferma, quei frutti sono il risultato del loro lavoro e permettono alla famiglia di sopravvivere.
Pur essendo cambiata la coltivazione, non è mutato il tipo di mercato: frutta e verdura rimangono ancora uno dei pochi beni non tassati all’interno della Striscia.
L’anziano signore torna a parlarci della loro attività, ci racconta con grande orgoglio che la loro produzione è sempre piuttosto alta (intorno alle 15 tonnellate l’anno), per quanto vari in base alle stagioni e alla disponibilità idrica, e che tre sono i loro mercati principali: quello locale, quello in West Bank e quello internazionale.
Vista l’assenza di tassazione sulla produzione e il commercio dei frutti, i prezzi per il mercato locale rimangono molto bassi, anche per una logica di mutualismo collettivo, e si aggirano intorno a 1,5 shekel/kg (circa 0,40€/kg). I veri guadagni provengono dal mercato in West Bank e da quello internazionale, dove si viaggia rispettivamente sui 4€/kg e sui 6€/kg.
Continuiamo a parlare e bere chai ancora un po’, finché il capofamiglia non decide che è il momento di rimettersi al lavoro. Così ci alziamo tutti, ringraziando per l’ospitalità. Mentre noi ci avviamo verso la macchina vediamo i ragazzi che, a bordo del carretto guidato dal più giovane della famiglia, si dirigono verso i campi e riprendono la raccolta.
La scena è la stessa di quando siamo arrivati, ma adesso la guardiamo con occhi diversi. Adesso quel semplice gesto di una mano acquisisce un valore nuovo: è una forma di riscatto, è resistenza.