Grecia, cronache da Corinto

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14 Settembre 2020

La tragedia di Moria è il monito per la gestione dei migranti in Grecia: un racconto dai centri di transito interni per alleggerire le isole

Agosto 2020, Campo Profughi di Corinto.

La Grecia in agosto è sempre bellissima, il mare cristallino in cui vedi i tuoi piedi in trasparenza non c’è solo sulle isole, anche nelle pieghe del Peloponneso, sulla terra ferma, fermissima, quel mare ti aspetta e ti seduce.

Campo profughi di Corinto, lontano dal mare. Le 800 persone ospitate qui il mare, in alcuni casi, lo vedono per la prima volta: vengono in buona dall’Afghanistan, dalla Siria, ma anche dall’Iran, dalla Palestina; per altri il mare è la distanza da colmare per arrivare a salvarsi, o almeno a sperare in una prospettiva migliore, c’è chi viene dal R.D.Congo, chi dal Camerun, impossibile fino a qualche anno fa vedere africani a percorrere la rotta balcanica, per tentare di arrivare in Europa, ma dopo la stretta degli accordi con la Libia, questa rotta, difficilissima, è diventata un’alternativa più sicura ai lager libici.

Campo Profughi di Corinto, un campo di apertura recente – settembre 2019 – un campo di transito, o almeno pensato come tale, per far arrivare i migranti dalle isole, dai campi più che congestionati di Lesbo, Chio, Samo, Lero e Kos.

Questa la promessa del governo greco, durante la campagna elettorale, che ha portato alla vittoria della destra: togliere i migranti dalle isole, isole che a causa dell’emergenza migranti, hanno perso, e questo è un fatto certamente, il loro appeal turistico nonché l’unico introito economico per molti abitanti.

Il governo ha parlato alle loro pance, e la Grecia, patria della democrazia, stremata da una crisi economica fortissima, sempre più spesso si è trovata a precipitare in episodi di violenza proprio in opposizione all’accoglienza dei migranti, capro espiatorio per coprire le molte colpe di governi incapaci.

Una scritta nazista sui muri attorno al centro di transito di Corinto

La situazione è ulteriormente precipitata a fine febbraio, quando il presidente turco Erdoğan, nel suo rinnovato braccio di ferro con l’Europa, ha deciso di aprire le frontiere, e così le migliaia di profughi che passano la oro vita ad attendere nelle vicinanze del fiume Evros, fiume di confine tra Turchia e Grecia, si sono riversati in territorio ellenico.

La reazione della guardia costiera e delle forze dell’ordine greche è stata durissima, così come quella delle squadre di nazionalisti anti-migranti e di gran parte della stessa popolazione locale, esasperata, specie nelle isole. Numerosi gli episodi di violenza, di intimidazione al personale delle ong e vandalismo ai depositi di aiuti umanitari.

Il Campo profughi di Corinto è stato aperto per consentire un flusso temporaneo di alcuni di loro, dalle isole alla terra ferma, un transito, l’ennesimo, senza una meta. E’ un campo senza container, solo tende, sotto le quali sono costruiti piccoli complessi, non ci sono alberi, i 40 gradi di Corinto, sotto le spesse tende di plastica, si sentono tutti.

Il campo, come molti altri in Grecia e sulla rotta, è gestito da IOM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM o IOM) è la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio. L’Italia è uno dei paesi fondatori. Attualmente gli Stati Membri sono 173. L’OIM ha una struttura flessibile e ha oltre 460 uffici dislocati in più di 100 paesi. Dal settembre 2016 è entrata nel sistema ONU diventando Agenzia Collegata alle Nazioni Unite.

Nel 2015, con la grande ondata migratoria dovuta all’aggravarsi della situazione dei conflitti in Siria specialmente, fecero seguito gli accordi con Erdogan, a seguito dei quali i profughi si sono visti sistematicamente negare la possibilità non solo di essere ricollocati in altri Paesi europei ma persino di spostarsi sulla terraferma greca fino al momento della famosa “intervista”, fatta dalle autorità greche, per sancire che sì, questi scappano davvero dalla guerra e no, non sono in giro in Grecia per farsi un bagno sulle coste, intervista che, come riscontrato nei fatti, può richiedere oltre un anno di tempo, due in tempo di Covid 19.

Il numero dei profughi sulle isole è così andato progressivamente aumentando, dando origine a condizioni umane e sanitarie intollerabili, carenza di sicurezza, incidenti di ogni genere, ingenerati da un meccanismo di accoglienza che vede sovrapporsi agli accordi con la Turchia anche la convenzione di Dublino, firmata nel 1990 da 12 stati dell’Unione Europea, e che individua che lo Stato membro competente all’esame della domanda d’asilo deve essere lo Stato in cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso nell’Unione europea, tutto apparentemente sensato, se non fosse del tutto ovvio che difficilmente i rifugiati potranno entrare in Germania o in Francia, come primo stato Europeo, tramite il mare o i confini turchi, entreranno in Grecia, in Italia, e in questi luoghi, inevitabilmente si creeranno le situazioni di accoglienza immediata e più complessa.

All’interno dei campi è IOM ad occuparsi della gestione, costruzione degli stessi, manutenzione, talvolta con innegabili carenze, proprio il recentissimo campo di Corinto ne è una dimostrazione. IOM per volontà dei paesi membri, è obbligata a impiegare personale greco per i servizi da essa elargiti, cosa di principio assolutamente sensata, poiché si parte dal presupposto che il paese che si prende il carico dell’accoglienza, debba in qualche modo anche poter avere un ritorno in termini economici dall’accoglienza stessa, ha dunque senso la decisione degli stati di voler far lavorare ditte greche, molto meno senso hanno però i meccanismi di controllo che su questi appalti vengono posti in essere.

Nel Campo Profughi di Corinto, ad esempio, l’impianto di condizionamento, pagato, non è mai entrato in funzione, così come i 149 ventilatori comprati per le famiglie, una volta attaccati agli impianti, sono risultati fatali per il generatore, che è saltato. L’amministrazione di un piccolo campo come questo, in relazione allo sperpero di denari, mette in luce una problematica non secondaria sulla gestione economica dei campi e sui flussi finanziari sempre più indirizzati a grandi istituzioni, e che hanno visto negli ultimi anni completamente o quasi completamente sparire le piccole ONG sul territorio.

 

Il motivo della scomparsa delle piccole organizzazioni è vario: certamente decisioni governative, per quanto riguarda la Grecia, che hanno costretto le ONG che avessero voluto continuare ad operare sui territori, a ripresentare nuovamente la documentazione, ad aprire conti in banca in Grecia e a dotarsi di apparati burocratici a cui spesso le piccole organizzazioni presenti non erano avvezze, costringendole, gioco forza, ad abbandonare il campo.

 

Dall’altro lato, l’aver dedicato tutti i fondi istituzionali alle grandi organizzazioni, come appunto IOM, ha reso quest’ultima un braccio esecutivo vero e proprio degli stati membri, istituzionalizzando certe prassi dell’accoglienza, spesso in contraddizione con il concetto stesso di accoglienza, o perlomeno in contraddizione con gli interessi dei migranti, basti pensare, ad esempio, che all’interno dei campi in Grecia IOM tiene lezioni di greco, e non di inglese o tedesco, lingue che sarebbero assai più utili ai migranti, considerando che meno del 5% di loro ha intenzione di fermarsi in Grecia.

A Corinto, le uniche organizzazioni che lavorano sono One Bridge to Idomeni, La Luna di Vasilika e l’associazione svizzera Aletheia. Queste tre organizzazioni, hanno unito le forze per riuscire a organizzare un’offerta alternativa, in un luogo del tutto peculiare, poiché il campo di Corinto ha la specificità di essere relativamente in centro città, rispetto alla maggior parte dei campi profughi del continente greco, spesso relegati nelle più disagiate periferie o addirittura a chilometri e chilometri dalle città.

Le tre associazioni, non potendo dunque avere la possibilità di lavorare internamente al campo, per la chiusura alle attività del periodo Covid, dagli inizi di luglio 2020 hanno aperto in centro a Corinto un Community Center, dedicato alle più svariate attività per donne, uomini, teenager e bambini.

Si insegna l’inglese, si fanno corsi di arte, psicomotricità, proiezioni di film, informatica per adulti, e, nel corso delle ultime settimane sono riusciti a garantire una frequenza giornaliera per i corsi per i bambini, in modo da garantire una continuità scolastica che permette ai bambini di imparare, in inglese, anche matematica, geografia, e soprattutto abituarsi ad un impegno giornaliero, ad una cura costante che possa ridare dignità a vite già duramente colpite.

La situazione in tutta la Grecia, e in particolar modo nella capitale Atene, è quanto mai fuori controllo: i migranti fatti sgomberare più o meno dai campi delle isole, a cui viene dato un gettone per prendere un traghetto che li porti sulla terra ferma, con in tasca un documento che li identifica come rifugiati, oggetto di tutela per il diritto internazionale.

Arrivati sulla terra ferma, però, anche con la scusa della crisi economica post-covid e delle inasprite misure di sicurezza, non trovano come la prassi vorrebbe situazioni di alloggio migliori, bensì sono lasciati nelle piazze, senza alcuna possibilità di accedere ai campi, sovraccarichi, di Atene, e sono costretti a vivere nelle strade della periferia più degradata di Atene: donne, bambini, pieni di diritti sulla carta, che non hanno cibo né il minimo indispensabile per la sopravvivenza, oggetto di sgomberi settimanali da parte della polizia greca, che li porta nelle campagne, per costringerli all’ennesima fatica, all’ennesimo viaggio, per tentare di raggiungere nuovamente quelle piazze, in cui dormiranno sotto un albero, in attesa di qualche piccola associazione, che porti loro cibo e qualche bene di prima necessità.

Piccole associazioni sul territorio lavorano per questo, così come One Bridge, La Luna di Vasilika e Aletheia, anche in questo caso salta all’occhio l’assurdità del fatto che i fondi destinati all’accoglienza non coprano queste necessità straordinarie, che persone che sono a tutti gli effetti riconosciute dal diritto internazionale come rifugiati, e dunque in diritto ad avere rifugio e assistenza, si ritrovino ad essere sgomberate dalle piazze dalla polizia greca, nella culla dell’Europa.

Chi riuscirà a passare tra le fitte maglie della burocrazia greca, ad uscire dai campi, ad avere il famoso colloquio a voce in cui dovrà raccontare la sua storia e perché è lì, per poter avere assistenza sanitaria e un minimo di diritti, dopo deciderà di andare via, perché nessuno vuole fermarsi in Grecia, sarà la volta della rotta balcanica, quel percorso ad ostacoli che vede i migranti a dover passare in quello che è definito oramai il “game”, il gioco, un gioco spesso al massacro, che per i più fortunati dura dieci, dodici anni, tra respingimenti della polizia croata, e le incursioni di Frontex, la European border and coast guard agency, come scritto nel sito, in cui alla voce “la nostra missione” si trova la dicitura: “Insieme agli Stati membri, garantiamo la sicurezza e il buon funzionamento delle frontiere esterne e ne assicuriamo la protezione.”

Si tratta di una società privata, una guardia costiera privata, pagata dagli Stati membri per “difendere” i confini. Risulta stridente e canzonatoria la posizione dell’Unione Europea, comprendere un tale dispendio di forze e denari per la difesa, e un corrispondente sperpero degli stessi, se non una totale mancanza, nell’accoglienza.

Quando oltre ai numeri, alle cifre dei tanti esseri umani che tentano il “game”, ti trovi in uno strano agosto 2020 a vederne i visi, uno ad uno, a scoprire le pieghe del carattere di quelle donne, sorridenti o taciturne, di quei bimbi, esuberanti, sgamati o timidi, di quegli uomini, sorridenti o disperati, il pensiero di quel gioco crudele a cui la comunità Europea li obbliga rimane un indigesto e amarissimo boccone, che no, non è umano farsi andare giù.