Chi Q’aq’, il vulcano ribelle

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16 Giugno 2018

Tragedia in Guatemala con centinaia di morti e dispersi

Dalla mia terrazza non si vedeva la cenere dell’eruzione. D’altronde se non te lo aspetti mica ti metti li a vedere se questo o quel vulcano che si scorgono dalla città sta iniziando a eruttare.

Le prime immagini mi sono apparse nei messaggi sul telefonino. Immagini spettacolari, di quelle che ti lasciano a bocca aperta per lo stupore. Ma il primo stupore è stato come dire “wow, che belle immagini ci regala la natura!”. Bello e spettacolare sono state le prime parole che mi sono venute alla mente.

La bellezza però  ha lasciato ben presto spazio alla tristezza. Direi quasi anche alla paura. Dopo pochi minuti di immersione sui social network dei giornali locali, quelle immagini diventavano ai miei occhi la realtà dello spaccato di un paese.

 

Pare che nel 1540, quando i sacerdoti domenicani vollero dare un nome a quel vulcano e chiamarlo Vulcano Catalina, ci fu una così grande eruzione che la croce che era stata collocata in un punto del vulcano fu catapultata via a molti chilometri di distanza. Fu per questo che i frati decisero di continuare a chiamarlo col nome indigena Chi Q’aq’, donde está el fuego, dove c’è il fuoco, e i ladinos lo chiamarono semplicemente el Volcán de Fuego. Secondo alcuni studiosi, pare che fosse conosciuto anche come il Vulcano Ribelle.

Alle pendici del Volcán de Fuego vi si trovavano molte comunità, molte di loro indigene, di varie origini delle popolazioni maya che abitano il Guatemala. Adesso quello che era sul cammino della lava, è cenere. Polvere. Con centinaia di corpi ancora sepolti dalle macerie.

Sempre alle pendici dello stesso vulcano, c’era anche un Hotel di lusso, con il suo rispettivo campo da golf. Adesso anche quello è sepolto dalla polvere e dalla lava. Fortunatamente, nessuna persona della struttura sarebbe rimasta coinvolta dagli effetti devastanti dell’eruzione.

Però ciò lascia la solita amarezza che se sei povero, in Guatemala (come nel resto del mondo, intendiamoci), anche di fronte alle catastrofi naturali, non hai la stessa sorte, lo stesso destino, che se sei ricco. E se lo dicessi in spagnolo avrebbe un altro significato, ancora più amaro: no tenés la misma suerte, la stessa fortuna.

Ad oggi si parla di più di cento morti e più di duecento persone ancora disperse. Ma che senso ha parlare di numeri di fronte ad una disgrazia tan immane? Domani i numeri saranno diversi e la settimana prossima diversi ancora una volta. Però fra pochi giorni, quando i riflettori della stampa internazionale si saranno spenti, si continueranno a contare i morti e i disastri. Le macerie che rimarranno li, perché “non c’è neanche un centesimo per le emergenze” come ha detto il presidente Morales ad appena poche ore dalla tragedia. Fortunatamente smentito dal suo ministro delle finanze, le operazioni di salvataggio sono state attivate in fretta, con i pochi mezzi a disposizione, e anche i soldi per l’emergenza si sono trovati.

La solidarietà del popolo guatemalteco è stata sincera ed emozionante. In moltissimi si sono dati da fare per aiutare le popolazioni colpite dalla tragedia e la raccolta di beni di prima necessità si è attivata immediatamente in tutto il paese.

La preoccupazione però rimane. Cosa succederà domani? O la settimana prossima? Chi ci sarà per dare un aiuto alle vittime? Chi aiuterà nella ricostruzione?

Intanto però rimane una certezza: le popolazioni del Guatemala hanno dimostrato una y otra vez, ancora e ancora, che c’è chi continuerà a lavorare fino allo sfinimento per dare una speranza alle famiglie. E le popolazioni continueranno a lavorare affinché le persone possano ritornare sulla propria terra a coltivare il proprio maiz, quello stesso mais che viene dalla terra e del quale sono figli.