Finisce così, poco prima delle 16.00 di sabato 14 luglio, la settimana di tensioni fortissime che hanno frantumato il paese e che difficilmente Haiti dimenticherà in fretta: tre giorni di rivolte e saccheggi per l’aumento dei carburanti, e altrettanti di inquietudine e ansia a causa dell’incertezza politica.
Il paese è sembrato da lunedì a sabato stordito e inquieto, preda di una sorta di post traumatic stress disorder collettivo, in attesa di risposte, con una voglia immensa di elaborare il lutto: tre persone uccise, negozi saccheggiati e un’immagine rovinata, nella forma e nella sostanza, dalla violenza.
Un’atmosfera sospesa e carica di ansia, a tratti isterica, per quanto, già da lunedì, a parte qualche contestazione più vivace degli studenti, non si sono più riscontrati casi di particolare veemenza.
Ma lo shock è stato forte e lo stress elevato. L’ambasciata degli Stati Uniti ha aumentato il numero di marines per la propria sicurezza e la maggior parte delle aziende e degli uffici, quando non sono rimasti chiusi, hanno lasciato andare in anticipo i propri dipendenti, essi stessi terrorizzati all’idea di rimanere incastrati e feriti in una manifestazione o sprovvisti di acqua e alimentari a causa degli scioperi annunciati dal settore privato.
Finisce forse in modo scontato, con le dimissioni da molti auspicate del primo ministro del governo di Jovenel Moïse, Jack Guy Lafontant, che ha evitato in questa maniera di essere estromesso con la forza da un voto di sfiducia della Camera dei Deputati.
Sabato, Lafontant è stato chiamato a riferire per quanto avvenuto nel lungo weekend di violenza e rivolta a seguito dell’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi. Ha resistito fino all’ultimo il medico di Pétion-Ville facendo non poco irritare gli oppositori e tenendo in tensione il paese per tutta la settimana.
Così, alla fine, le sue dimissioni hanno avuto un effetto catartico. Esulta in maniera contenuta l’opposizione, e la maggioranza un po’ bastonata può ritrovare la sua unità dopo che proprio su questa questione si era divisa.
Una nutrita schiera di sessanta parlamentari del gruppo di maggioranza aveva annunciato che avrebbe anch’essa chiesto e votato la sfiducia. In settimana Moïse aveva già rifiutato le dimissioni del suo energico sostenitore, il ministro della Cultura e della Comunicazione, Joseph Guyler C. Delva, colpevole secondo i suoi detrattori di aver aizzato la folla attraverso una comunicazione giudicata troppo dura ed aggressiva.
Ma il presidente della Repubblica, di fronte all’insistenza minacciosa delle gran parte dell’opinione pubblica haitiana, dopo aver cercato strenuamente di mantenere al suo posto il suo fido capo del governo, non ha potuto che alzare bandiera bianca. In fondo, avrà pensato tra sé e sé Jovenel, la testa a rotolare non è la mia, e non era così scontato.
In fondo, dopo quanto successo e quanto temuto, non sembra neanche uno scotto così alto da pagare.
Esulta il settore privato che a più riprese, a cominciare dal comunicato del Forum économique du secteur privé, aveva chiaramente preso le distanze dal governo accusandolo di mancanza di leadership. Così anch’esso aveva paventato una protesta che aveva fatto preoccupare molti: uno sciopero incondizionato in attesa di valutare i danni dei saccheggi e chiedere il rimborso allo Stato. Ma forse perché il business è business, o per senso di responsabilità, le saracinesche sono rimaste tutte mestamente alzate.
E chissà come devono aver gioito a questa notizia i contrabbandieri che potranno continuare a trafficare il petrolio sovvenzionato vendendolo ai domenicani. Di certo esulta la società civile e le organizzazioni religiose, perché non si può pensare che quella decisione non sarebbe andata sopratutto a discapito dei più deboli che si muovono con i mezzi pubblici e devono mangiare con meno di due dollari al giorno.
Perché infondo, le richieste del Fondo Monetario Internazionale, che aveva caldamente raccomandato al governo quella misura, a molta parte della società civile suonano sempre come dei ricatti sciagurati, e le sue ricette liberiste nefaste e diaboliche.
Le modalità e le tempistiche di un aumento così improvviso e massiccio hanno lasciato tutti gli osservatori basiti. E’ apparso fin da subito come il frutto di una decisione imprudente, così avventata che ancora non ci si capacita come sia stata presa.
Viene quasi da credere all’ipotesi complottista secondo la quale è stata tutta una sottile, quanto rischiosa, strategia del governo per rinegoziare gli accordi con il Fmi. Forse è meglio machiavellici che ingenui.
Tuttavia, il Fmi non demorde nel chiedere il taglio di più di 28 milioni di dollari di sussidi in cambio di donazioni per programmi sociali pari a 94 milioni di dollari. Ma questa volta il Fmi, dopo accurate analisi, consiglia al governo haitiano di operare il taglio in maniera progressiva. Dopo quello che è successo, nella più generosa delle valutazioni tale dichiarazione risulta non solo tardiva, ma beffarda.
Tirano poi un forte sospiro di sollievo tutti quelli che temevano la ripresa degli scontri violenti, sopratutto se le dimissioni del premier non fossero giunte. La comunità internazionale, un’ora dopo l’annuncio di Lafontant, aveva già tolto al suo personale le limitazioni di sicurezza rispetto agli spostamenti per il weekend.
Ma soprattutto tira un sospiro di sollievo la classe media haitiana. Quella che ha un lavoro e qualcosa da perdere.
Quella che è rimasta per giorni bloccata dalle barricate in fiamme e che ha temuto di vedersi bruciare i propri beni. Quella che nel lungo weekend di paura ha visto materializzarsi il peggiore dei suoi incubi: il sorgere e protrarsi di una nuova crisi politica e di una violenta instabilità. Entrambe paralizzanti e soffocanti.
Ma all’appello degli esultanti e sospiranti manca forse il popolo dei più poveri. Perché forse, ai più vulnerabili, non importa molto delle dimissioni del dottor Lafontant, di chi sia il primo ministro, che tra l’altro sa, che in una repubblica semi presidenziale, è poco più di un pedina.
Al popolo non importano le promesse di uno sviluppo futuro e possibile, ma la sopravvivenza concreta e nell’immediato. Al popolo importa che non si aumentino più, in quella maniera scellerata e forse anche un po’ vigliacca, i prezzi dei carburanti in un paese in cui lo scandalo legato alla vicenda di corruzione Petrocaribe ancora grida giustizia.
Ma al momento le priorità del Presidente sono politiche. Moïse deve trovare un nuovo primo ministro per formare un governo che nelle sue intenzioni vorrebbe inclusivo. Nel suo ultimo discorso ha cercato di raccogliere attorno a se i suoi concittadini lanciando un messaggio che andasse nella direzione di ricucire le ferite di un paese che si è lacerato.
Appellandosi per una pacificazione e una maggiore coesione, il Presidente deve cercare di ricostruire la fiducia tradita e dissipata. Ma le sfide del suo governo sono enormi, povertà e corruzione ad esempio sono mali difficili da sradicare. Certo la frustrazione della popolazione non si può biasimare. Essa è stata creata anche a causa delle aspettative generate della carovana del cambiamento. Ma l’impazienza del popolo, per quanto comprensibile, non permetterà di sicuro di uscire dalle difficoltà economiche e sociali. La speranza di tutti è che Haiti possa trovare nelle sue molte risorse, dall’agricoltura al turismo, un volano per potersi risollevare.
Gli haitiani sono di sicuro una popolazione resiliente. Ma prima ancora sono chiamati ad un compito faticoso: rielaborare la storia quando è ancora cronaca, li dove la storia sembra più un fardello vissuto con vittimismo e rancore che quel patrimonio dell’umanità che dovrebbe rappresentare la rivoluzione haitiana. Rimanere ingabbiati e offesi, fissi a guardare ad un passato indubbiamente ingiusto rimuginando sui soprusi subiti, non servirà a fare dei passi avanti.
Ma le identità dei popoli si saldano attorno ai simboli, esse si cementano attraverso l’arte e la cultura. Così un piccolo atto simbolico può anche essere importante e non a caso è proprio l’arte di strada ad animarlo. Ad otto giorni dagli avvenimenti un gruppo dei giovani artisti si è ritrovato per colorare un muro di Port au Prince con l’obbiettivo di inviare al mondo un messaggio di speranza. Intendiamoci, non siamo così ingenui da pensare che, a parte risollevare l’umore, un atto come questo basti a cambiare la situazione complessa di Haiti. Certo, magari uno solo no, ma tanti chissà.