di Anna Elisa Sida and Matteo Maimone
3 Aprile 2020
Viaggio nel cuore di Java, in Indonesia, per una cerimonia antica e mistica
testo di Anna Elisa Sida, fotografie di Matteo Maimone
progetto Nutshell travel – il giro del mondo via terra a caccia di storie da raccontare.
“Non avrei mai pensato di poter andare ad assistere ad una delle cerimonie più grandi e secolari di questi tempi. Ci stiamo riuscendo, tra meno di 10 ore saremo lì”, dissi sussurrando a Matteo, lungo il viaggio in pullman in direzione Probolingo, isola di Java, Indonesia.
Tra sussulti, buche improvvise, tantissime curve e circa tre cambi tra pullman, navette e macchina, più di 20 ore di viaggio all’interno del traffico indonesiano, subentriamo così, nelle prosperose piantagioni di banano che caratterizzano Probolingo, una cittadina a 70 km da Surabaya, nella parte orientale dell’isola di Java, i suoi villaggi lungo il Monte Bromo, la loro montagna sacra.
L’aria diventa sempre più fresca e pungente mano a mano che iniziamo a salire di quota, i tornanti si fanno più ripetitivi e lasciamo dietro di noi quantità ingenti di sabbia nell’aria a causa delle strade non proprio asfaltate.
L’energia e l’aria di festa è palpabile: con sguardi attenti notiamo i fugaci camioncini carichi di pellegrini muniti di coperte e cibo, partire in direzione del Monte Bromo per il Kasada Festival.
Sono tutti sorridenti, con il volto abbronzato dal sole, le rughe d’espressione di chi vive la vita alla giornata senza curarsi troppo di ciò che verrà domani. Sono tantissimi e la poca illuminazione favorisce al contesto un mix di suggestione e suspance nei confronti di questo tanto atteso festival.
Una cultura secolare che ha radici profonde, basata sulla leggenda della pricipessa Roro Anteng e Joko Seger.
La leggenda narra che una coppia di nome Roro e Joko, che governava il popolo Tengger, rimase senza figli nonostante i molti anni di matrimonio alle spalle.
Un giorno, affinché la moglie rimanesse incinta, decisero di salire fino alla caldera del Monte Bromo per meditare; 2393 metri di sacralità, un punto tra la vita e la morte per via dell’attività continua del vulcano.
Gli dei ascoltarono le preghiere della coppia e concedettero loro 24 bambini a condizione che il 25° venisse gettato nel vulcano come sacrificio umano. Il 25° bambino, di nome Kesuma, venne sacrificato dopo un paio di tentennamenti da parte dei genitori e così gli dei si placarono.
Per questo motivo, da quel momento e ancora adesso, la tradizione prevede l’offerta di sacrifici gettati nel cratere per placare l’ira degli dei, ma anche per ricordare il sacrificio che la coppia reale fece pur di avere figli.
Nel giorno di Yadnya Kasada, molto prima del sorgere dell’alba, i devoti che hanno viaggiato e peregrinato in lungo e in largo per arrivare alle pendici del Monte Bromo, pregheranno ancora una volta insieme in cima alla caldera per gettare le offerte.
Arrivano da tutta l’Indonesia e non solo. I principali devoti sono i tenggeresi che non sono altro che gli abitanti dei villaggi di Ngadsas, gli unici ad essere ritenuti i veri discendenti dell’impero Majapahit.
Si racconta di come fuggirono dall’islamizzazione dell’isola e di come vennero guidati dalla stessa principessa Roro Anteng. Essendo un popolo indù-balinese, venerano il Dio Ida Sang Hyang insieme agli dei Brahma, Shiva e Vishnu. Un vero mix di animismo e buddismo.
Non a caso il Monte Bromo prende questo nome da Brahma, il dio distruttore e creatore a cui è stato eretto un piccolo santuario all’interno della caldera che ospita il Kesada Festival. Il rituale avviene ogni 14 giorno del mese, in questo caso luglio 2019, secondo il calendario lunare Tengger, e inizia a prendere parte nel villaggio Ngadisari con spettacoli di danza, canti meravigliosi che richiamano gli spiriti degli antenati. Sono antichi rituali a cui tutti gli uomini adulti possono partecipare, compresi noi.
Per questo motivo, riforniti gli zaini di acqua e cibo, partiamo alle 10 di sera a bordo di una jeep, uno dei pochi mezzi a disposizione in grado di salire lungo le pendici del Monte Bromo e capace di attraversare la pianura sabbiosa chiamata Mare di Sabbia. Venti minuti di tornanti al buio in cui altre jeep si susseguono, sorpassate dalle moto dei locali per ritrovarsi di fronte al Mare di Sabbia e rimanerne estasiati.
Sembra di stare su un altro pianeta, e come dei viandanti procediamo a passo lento tra la folla, al buio, con solo le nostre torce in testa e una luce flebile del cellulare ad indicarci la strada lungo le jeep e i camioncini parcheggiati e le tende piazzate qua e la. Le persone sono rannicchiate e accalcate, procedono con un passo molto lento e notiamo con stupore che siamo veramente in pochi stranieri presenti al rituale. Gli occhi curiosi e i sorrisi timidi si posano continuamente sui nostri volti un po’ stanchi e imbarazzati ma iniziamo a scioglierci, a scambiare in qualche modo qualche parola, aiutati dal linguaggio più bello: quello del corpo, quel linguaggio in cui, anche se non riesci a comunicare bene nella lingua che non conosci e che non ti appartiene, riesci comunque a strappare una risata e un caldo abbraccio da parte di questi gentili pellegrini.
Il vento continua a soffiare gelidamente, portandoci a coprire i nostri volti con le mascherine e le nostre sciarpe, invidiando quelle coperte pesanti e colorate che avvolgono i nostri simpatici nuovi amici, così da non respirare troppa sabbia e gas solforico prodotto dal vulcano. Siamo tutti attaccati l’uno con l’altro, tutti che ci muoviamo per creare calore. Non si vedono volti, solo occhi spuntare dagli strati di vestiti e coperte messe preventivamente in modo da contrastare il freddo. Il dolce cantico che sembra quasi una ninna nanna da forza a noi, alle migliaia di pellegrini che insieme agli sciamani si preparano per il rituale. Il tempio o meglio il Pura Luhur Poten, è completamente circondato da fumi bianchi dovuti dagli incensi e dalla nebbia che provoca il vento.
Ed è così che solo verso le 5 del mattino, quando sappiamo che tra un po’ il sole si leverà per illuminare questa nuova giornata, ci apprestiamo tutti quanti a continuare il percorso, lungo la salita sabbiosa e a tratti contraddistinta da scalini stretti e ripidi. Passo dopo passo, il freddo si fa sentire di meno, l’adrenalina aumenta ed è in un attimo che ci ritroviamo sul top del vulcano. All’interno del cratere, proprio sull’orlo, è colmo di persone. Sono tutte in piedi con il loro personale retino artigianale fatto a mano in casa, mentre cercano di catturare le offerte lanciate dalle persone.
E’ una situazione paradossale: tutte le persone che si trovano all’interno sanno che stanno rischiando la loro vita, per via dell’attività del vulcano ma questo non ferma il loro intento, non arresta la loro devozione verso gli Dei. Se sacrificheranno il loro cibo e anche i loro animali, questo gli porterà fortuna e gratificazione da parte degli Dei della montagna. Tuttavia, alcuni di loro, ignari del pericolo, si calano all’interno del profondo cratere cercare di raccogliere più offerte possibili quali soldi, animali, cibo, fiori così da riportarsele a casa.
Se dovessi trovare una parola adeguata per racchiudere questo rituale, parlerei di Devozione. Il pericolo è letteralmente dietro l’angolo per via dell’attività continua del vulcano ma ogni anno, senza mai fermarsi, la popolazione tengger e altre migliaia di persone affrontano questo pellegrinaggio perché sanno che c’è molto di più dietro a tutto questo.
Il monte Bromo non è nient’altro che una presenza apparentemente pacata durante il giorno ma che di notte si anima, regalando uno scenario cupo, desolante e fumoso, un rimando continuo alla forza devastante da parte della natura. Ed è proprio qui che, secondo me, si fonde il potere della natura con il potere religioso da parte dei fedeli ricreando un qualcosa di unico, una perfetta sinergia capace di rendere indimenticabile quel momento.