di Benedetta Zocchi and Alessandra Fuccillo
14 Settembre 2021
Balkan Route: la maggior parte sono uomini, quasi tutti tra i 20 ed i 30 anni, ma le donne? E i bambini?
La maggior parte sono uomini. Quasi tutti tra i 20 ed i 30 anni
L’immagine dei profughi in fuga sulla rotta balcanica viene spesso tradotta così. Una massa di uomini in movimento, branchi di lupi solitari che si uniscono per raggiungere lo scopo finale: vincere il game, ovvero, l’attraversamento del confine.
Nei villaggi e nelle città del cantone di Una Sana, in Bosnia ed Erzegovina, a pochi chilometri dal confine con la Croazia gli uomini sono i soggetti più visibili.
Dal 2018, quando la rotta balcanica è stata deviata verso la frontiera bosniaco-croata, la maggior parte di loro vive nei cosiddetti jungle camps, accampamenti improvvisati in edifici abbandonati, spesso lontani dai centri abitati.
Altri vivono nel campo militare di Lipa, su un altopiano a trenta chilometri dalla città di Bihac, dove a breve l’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, riaprirà un Centro d’accoglienza temporanea. Rimangono in Bosnia a causa dei respingimenti della polizia croata che li picchia, li spoglia, li deruba ed infine li riporta indietro, spesso senza scarpe, senza telefoni e senza giacche.
I respingimenti della polizia croata sono quasi sempre violenti ed abusivi. Spesso, i poliziotti sequestrano i telefoni, le scarpe e gli zaini, picchiano i migranti, li tengono rinchiusi senza cibo e acqua anche per giorni e li deportano in Bosnia a digiuno e senza indumenti. Ma a tentare il game e subire i respingimenti non sono solo gli uomini.
Le donne della rotta balcanica esistono, sono tante e sono esauste: spesso rimangono indietro per fattori culturali o sanitari, altre volte perché si occupano dei bambini.
Fino a qualche mese fa, le testimonianze dei profughi respinti concordavano su un fatto: le donne, quelle ‘poche’ che tentano il game, non erano soggette agli accanimenti della polizia. Oggi sappiamo per certo che questo non è più vero: le donne che abbiamo incontrato sono state derubate, picchiate, umiliate e insultate ripetutamente dai poliziotti e dalle poliziotte croate e spesso vivono in situazioni di vicinanza forzata con altri gruppi etnici che peggiorano, se possibile, la situazione.
Fino all’anno scorso, molte di loro vivevano nei campi OIM di Borici e Sedra, riservati alle famiglie e ai minori non accompagnati. A giugno 2021 Sedra ha chiuso e molte famiglie si sono spostate dalle città e ora vivono in edifici abbandonati e case diroccate nelle località di Šturlić e Bojna, dove ne abbiamo incontrate decine, quasi tutte Afghane.
Kala è una ragazza afghana di 18 anni, esce dall’accampamento per salutarci insieme a un paio di coetanee: ha uno smalto rosa shocking e le unghie lunghe e limate, le ciglia nere truccate e le sopracciglia curate. La povertà dell’accampamento stride con il suo stile e arriva immediato il chiaro tentativo di mantenere la propria dignità.
“Quando posso provo a prendermi cura di me. Se non lo faccio do ragione ai poliziotti, che ci trattano come animali”
“They treat us like animals” è la frase che sentiamo ripetere più spesso, da tutti i profughi che hanno tentato il game più e più volte. Qualcuno dice anche di poter accettare di essere respinto e derubato, ma almeno chiede di non essere umiliato e privato degli indumenti nel freddo balcanico.
Kala è arrivata in Bosnia con la madre, il fratello maggiore e la sorella minore e da 5 mesi vive insieme ad altre 3 famiglie tra le macerie di una casa abbandonata nel paesino di Bojina. Ci racconta che quando i poliziotti croati l’hanno catturata durante l’ultimo game non si sono lasciati sfuggire l’occasione di commentare le sue unghie, dicendole che si era fatta crescere gli artigli illudendosi di sfuggire come una strega.
La mamma di Kala ha cinquant’anni, anche se il tempo la sta segnando molto più profondamente.
Ci racconta che la polizia le ha preso le medicine, soffre di mal di schiena cronico, peggiorato dai mesi passati a dormire per terra, nei boschi o su pavimenti umidi e duri. Senza antidolorifici e antinfiammatori faticherà a ritentare il game e allo stesso modo fatica a sopravvivere a lungo in accampamenti umidi e sporchi, con l’autunno bosniaco alle porte.
Durante i game, i corpi delle donne subiscono ogni tipo di violenza. Samìa, anche lei afghana, ci racconta di essere stata appena respinta:
“Ho provato il game decine di volte, sempre in gruppo e sempre di notte ma questa volta sono stati i cani a trovarci e hanno lasciato che mi mordessero le mani, la schiena e le gambe. Avevamo visto da lontano la camionetta della polizia e ci siamo nascosti nei cespugli. Eravamo una decina e con noi c’era anche una bambina. È stato terribile, non ero mai stata attaccata da un cane. Ho morsi e ferite su tutto il corpo. Quando anche la polizia si è avvicinata sono stata strattonata e colpita sulla coscia e sul collo con il taser”.
Anche a Samìa hanno rubato i medicinali:
“Nello zaino avevo anche lo spray orale per l’asma. Ho provato a chiedere di riaverlo e mi hanno risposto con un pugno. Hanno raccolto tutte le nostre cose e le hanno bruciate davanti a noi. La polizia croata è violentissima, non ha nessuna pietà, non ne hanno nemmeno le agenti”.
Da qualche tempo circola una descrizione di una poliziotta croata che continua a impressionare per la sua ferocia e che si accanisce sulle donne: capelli neri corti e stazza massiccia, spesso corrisponde al nome di Leila nei racconti delle migranti e spesso è proprio lei a usare il taser e a privare le donne dei loro effetti personali.
A Korenica, in Croazia, c’è una caserma della polizia che ricorre nei racconti dei migranti sempre con le stesse descrizioni: si viene portati con delle camionette da poliziotti in borghese o in divisa, con finestrini oscurati e si entra direttamente sul retro, dove si trova una sorta di magazzino che sempre più spesso ricorre con il termine “garage”.
Tutti i migranti parlano di un grosso portone blu con maniglioni antipatico e una toilette chimica dello stesso colore appena fuori, in un angolo.
Chi ci è stato racconta di una stanza vuota, con mattonelle bianche e pavimento freddo dove si viene stipati tutti insieme, donne e uomini, lasciati a volte anche per tre giorni senza acqua né cibo.
Quando siamo arrivate a Korenica, ci siamo sedute in un bar proprio di fronte alla caserma, senza uno scopo preciso. Forse solo per guardare con i nostri occhi come l’origine di tanta violenza potesse assomigliare ad una scena tanto banale quanto quella di un turno di lavoro che inizia. Quando osserviamo il via vai davanti alla caserma è inevitabile concentrarci sulle poliziotte: quale sarà Leila? La più alta con i capelli piastrati e tinti nero corvino, quella più bassa con i capelli cortissimi? Quella che pattuglia il bagno chimico facendo entrare un migrante per volta appena fuori dal “garage”?
A un tratto Leila sono tutte queste donne, non si riesce più a distinguerle: tutto ciò che possiamo immaginare dai racconti porta solo all’immagine ancora più assurda di una donna che ne picchia un’altra, indifesa, straniera, spaventata a morte, persa alle porte dell’Europa, in cerca di asilo.
Alì, diciassette anni e uno zaino vuoto in spalla si ferma a salutarci davanti a uno squat e quando inizia a raccontare è un fiume in piena:
“Ho visto un poliziotto picchiare una donna, svestirla degli abiti pesanti e delle scarpe; lei ha chiesto pietà e lui le ha imposto di puntare gli occhi verso il basso e di non parlare, che al massimo poteva aspirare a fare le pulizie a casa sua. Non capisco perché debbano maltrattarci così tanto, insistendo anche con le donne, persino davanti ai loro figli”.
Sulla piana che costeggia la strada provinciale all’altezza della localita di Šturlić, incontriamo tre bambini afghani di 5, 9 e 13 anni che camminano insieme al padre Mohammed.
Il bimbo più grande si chiama Baasim, ed interagisce con noi con la sicurezza di un adulto, facendo da interprete al padre e da guida a tutta la famiglia.
Ci racconta che lui il padre e i fratelli sono appena tornati dal game. Quando gli chiediamo dove si trovi la mamma ci risponde con un gesto, avvicinando l’indice alla tempia, come per dirci che la madre ha dei problemi di mente.
“Eravamo a Borici in quarantena. Poi abbiamo tentato il game una, due, tre, quattro volte. Mamma non ce la faceva più. Ha cominciato ad urlare ed ora è sempre triste e a volte ha delle crisi”.
Baasim ci guida in cima alla collina dove ci attende la madre insieme ad altre famiglie. Lei si chiama Hameeda ed ha i capelli tinti di biondo. Nonostante non parli bene inglese, ci si avvicina e ci invita dentro casa mostrandoci la stanza dove dorme insieme al marito e ai figli. Ci mostra la confezione di antidepressivi vuota e ci dice che dopo l’ultimo game, la polizia glieli ha presi ed è rimasta senza scorte. Poi mi dice: “ho paura di essere un pericolo per i miei figli”.
Per Kala, Samia, Hameeda e le migliaia di donne che continuano a tentare di attraversare questi confini, le cicatrici e le depressioni non sono effetti collaterali ma conseguenza diretta di un sistema di tortura che punta ad esasperare ed immobilizzare i corpi e le menti. Un sistema che da anni ha normalizzato la violenza e l’abuso di potere e che le blocca ancora più a lungo in una terra di passaggio che non le vuole e le respinge, mentre sfioriscono e passano le stagioni di una vita.