L’area metropolitana di Istanbul racchiude al suo interno una spropositata concentrazione di opifici e sweatshop, che operano senza regolamenzione all’interno del fiorente comparto della produzione e confezionamento del tessile.
Un impero economico che in Turchia conta più di 1 milione di lavoratori e lavoratrici secondo il Disk Tekstil. Nel paese sono presenti numerosi brand del tessile e dell’abbigliamento europei e statunitensi.
Operano attraverso un uso spasmodico di contoterzisti che, in chiave di concorrenza assoluta realizzano confezionano e producono capi, tessuti e pellame per una enorme fetta del comparto.
Nike, Adidas, Gucci, Prada, Ermenegildo Zegna, H&M etc. sono solo alcune dei grandi brand internazionali che hanno delocalizzato negli ultimi decenni, l’intera filiera di produzione in Turchia, molti dei quali concentrandosi quasi interamente a Istanbul.
Il comparto tessile e conciario rappresenta uno dei cardini dell’economia turca (12% del PIL) impiegando più di 50 mila imprese tra ufficiali e no. Con questi numeri la Turchia di Erdoğan si colloca al tra i primi cinque paesi al mondo come esportatore di prodotti tessili.
Sempre secondo il Disk, storico sindacato turco, attivo nel paese dal 1965, solo l’8% di questa manodopera è sindacalizzata. Di questo 8%, solo un terzo ricade all’interno del contratto nazionale di categoria che negli ultimi anni ha accorpato il settore tessile e quello della pelletteria. Il sindacato afferma a più riprese come il settore risenta di una informalità diffusa, problematica che pesa impietosamente sulle condizioni iper-precarie e di sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici del settore.
Il cosiddetto lavoro informale continua in questi anni a caratterizzarsi non solo in bassi salari. Sono diffuse le cattive condizioni di lavoro, turnazioni che oscillano tra le 12 e le 14 ore di lavoro sino ad arrivare anche a turni anche di 24 ore senza interruzioni o, come accade durante il periodo della lavorazione del pellame, in estate, di turni spossanti che vanno dalle 8 del mattino alle 23 di notte.
Come evidenziano alcuni documenti sindacali:
“Le misure di salute e sicurezza sul lavoro non vengono applicate regolarmente nei settori tessile e della pelle. Soprattutto nel settore della pelle e in alcuni reparti del settore tessile, vengono utilizzati prodotti chimici intensi e pericolosi e non vengono prese le misure di sicurezza necessarie […].”
Accanto allo sfruttamento della forza lavoro si incrociano i problemi ecologici di un sistema iper industrializzato che non tiene conto dell’ambiente circostante:
“Le condizioni irregolari e nel settore tessile e della pelle influenzano direttamente la natura. È possibile assistere a questo problema nella regione della Tracia e a Bursa. Sia la Tracia che Bursa sono importanti zone agricole della Turchia. Il suolo è molto produttivo. Le risorse naturali, le risorse idriche sono diffuse e di alta qualità. Tuttavia l’industrializzazione non pianificata ha creato una crisi ecologica. Le risorse idriche e i fiumi sono stati inquinati molto rapidamente. Il fiume Corlu vicino alla zona industriale della pelle è completamente nero. Anche l’acqua potabile è inquinata. L’inquinamento delle risorse idriche colpisce direttamente i campi agricoli produttivi e trasferisce i veleni ai prodotti agricoli. C’è un aumento degli incidenti di cancro […].”
Secondo le ultime azioni legislative del governo Erdoğan, tese alla regolamentazione del lavoro in fabbrica e da casa, nel 2012 si istituisce ufficialmente un nuovo disciplinamento che ha l’obiettivo di tutelare gli operai.
Questa legge, la 6331 “legge sulla salute e sicurezza sul lavoro” non sarà mai ufficialmente operativa nella sua applicazione, scatenando negli anni proteste e rivendicazioni di operai e sindacati troppo spesso repressi con violenza e incarcerazioni.
Spettatori taciturni rimangono i brand internazionali, che invece di bloccare i rapporti commerciali con il paese incrementeranno negli anni la loro presenza e ingerenza. Soni i numeri dell’Istanbul Apparel Exporters’ Association (IHKIB) che indicano come dal 2016 la Turchia si assesti al secondo posto tra i paesi di importazione di confezionati tessili verso l’Europa preceduto dalla Cina.
Una scalata che si incrocia con un abbassamento scalare dei costi produttivi ogni 100kg dei confezionati. Un trend generale positivo che in linee generali si attesta sino agli ultimi dati del 2020, con un aumento dell’1% stabile per quanto riguarda il settore dell’export dell’abbigliamento.
Quello che segue è una storia da questo mondo di mezzo, scritto, alcuni anni fa. Le condizioni non sono cambiate, alcuni anni sono passati e forse è giunto il momento di poter pubblicare questa storia di uomini e donne impiegate nel mondo del tessile in Turchia, a Istanbul.
Brita è un’ingegnere tessile. Ha 50 anni, 20 dei quali passati in giro per il mondo ad avviare attività tessili e impiegata per effettuare controlli di qualità per i più famosi brand europei di maglieria. Abita da sette anni a Istanbul nel quartiere di Fener, alle spalle del corno D’Oro.
Da circa tre anni lavora stabilmente per la Philipp Plein, brand tedesco di alta moda che ha avviato da alcuni anni la sua produzione in Turchia. A Brita è commissionata la scelta su chi dovrà produrre i vari pezzi e a quale costo, scegliere chi spedirà le commesse e infine effettuare il controllo qualità sui capi confezionati.
La Philipp Pline è inserita tra le maggiori firme al mondo con costi esorbitanti per qualsiasi tipo di capo. Dalle semplicissime polo che da listino arrivano a circa 200 euro sino ad arrivare ai più costosi giubbotti in pelle, da migliaia di euro. Il confezionamento di questi capi viene da alcuni anni realizzato Turchia. Brita mi accompagnerà nel suo lavoro tra sweatshop, grandi stabilimenti di produzione e imballaggio, concerie e uffici di dirigenza. Brita mi spiega così il suo lavoro:
Io faccio un lavoro di merda. Lo so ti sembra strano e ti chiederai perché non ho cambiato professione e perché dalla Germania sono arrivata a Istanbul, ma che vuoi farci, oggi per chi lavora nel tessile c’è poca scelta. Ho passato tanti anni in Tunisia e in Marocco a lavorare per importanti brand ma anche 15 anni fa era così. Non è una cosa nuova lavorare per marchi che sfruttano operai a cottimo o a vendere prodotti scadenti a centinaia di euro. Poi quando c’è stata la possibilità di trasferirmi da Tangeri a Istanbul ho accettato subito. Mi è sempre piaciuta la Turchia e ho pensato che qui le cose sarebbero state diverse. Così non è stato ho comprato casa quasi subito perché vivere a Istanbul è come stare al centro del mondo, ma il lavoro non è assolutamente cambiato. Le soddisfazioni sono poche, i soldi sono tanti; ma ogni giorno penso che il mio stipendio e cento volte più grande di quello delle persone che producono i vestiti che io controllo ogni giorno. Portarti a far vedere come e dove lavoro è per me un piccolo riscatto, so che non serve a nulla però è per farti rendere conto.
Ci muoviamo in auto da Fener la mattina presto, quasi tutte le mattine, sempre verso le sei del mattino. Alle otto ci sono i primi appuntamenti con i laboratori per i controlli qualità delle linee dei capi che saranno spediti di lì a brave.
Ci dirigiamo verso il quartiere di Ikitelli a nord ovest del Corno d’Oro. Buona parte di questo distretto è formato dai palazzi della TOKI, capannoni di smistamento merci e cantieri edili per la costruzione di nuovi centri commerciali uno dei quali in fase di avviamento sulla statale E80, la direttrice che circonda il quartiere.
L’agenzia di costruzione pubblico-privata turca, la TOKI, ha negli ultimi dieci anni edificato ex novo quartieri popolari al cui interno sono stati inglobati interi distretti di confezionamento del tessile, per lo più delocalizzato, e costruiti tutt’attorno infrastrutture utili alla distribuzione stoccaggio e vendita del confezionato.
È questa una delle motivazioni – benché non la principale – per cui molte aziende hanno scelto Istanbul come hub produttivo ormai da quasi dieci anni. Secondo Brita, una delle principali spiegazioni è oltre al bassissimo al costo del lavoro la congiuntura geografica con il mercato asiatico e contemporaneamente con quello europeo.
Istanbul è ormai la capitale del tessile. Potrei farti un elenco infinito di marche che producono qui i loro capi d’abbigliamento. Ciò che ha fatto la fortuna degli imprenditori europei, oltre alle leggi in pratica inesistenti sulla tutela dei lavoratori e sull’ambiente è che il mercato asiatico è vicinissimo e i collegamenti con quello europeo sono ormai rodati. Non era la stessa cosa per il Marocco, dove ultimamente sono nati numerosi problemi rispetto al trasporto delle merci, nel senso che nonostante il Tanger Med rimane il problema dello scambio con l’Asia, l’export insomma. Qui da Istanbul, oltre al porto cittadino in fase di ampliamento, ci sono due aeroporti internazionali e una rete autostradale che permette alle merci di viaggiare abbastanza velocemente su gomma sia verso est che verso ovest. Posso però assicurarti che la qualità della manodopera è abbastanza scarsa rispetto ad altri paesi e questo comporta che quasi ogni quindici giorni sono costretta a trovare nuovi laboratori per le commesse. Istanbul essendo una metropoli di quasi 20 milioni di abitanti ti da tutta la manodopera che cerchi; è questo che permette anche un veloce ricambio di operai.
Il governo turco non riconosce nessun tipo di diritto sul lavoro formale per gli operai di numerosissime fabbriche tessili e non solo. Le paghe non sono regolamentate, non viene in nessun modo perseguita una normativa rispetto all’impatto ambientale delle aziende tessili e conciarie, non esiste nessun tipo di tutele rispetto agli infortuni sul lavoro: le storie degli operai degli impianti di sabbiatura dei jeans ammalati di asbestosi ne sono un esempio anche a Istanbul.
Ovviamente la congiuntura geografico/spaziale è un elemento fondamentale per lo sviluppo di un mercato come quello del tessile che ha bisogno, come mi racconta Brita stessa, di infrastrutture accessibili e flessibili per poter competere sul mercato internazionale. David Harvey ricorda come anche nell’antichità i mercati e i commercianti che operavano nelle città feudali, capirono l’importanza della mobilità delle merci per poter sopravvivere e competere sul mercato, tanto che:
«[…] il capitale mercantile e commerciale (insieme con il nascente capitale bancario) aggirò e infine sovvertì l’ordine feudale prevalentemente per mezzo di strategie spaziali. […] Ancora oggi, la classe capitalista e i suoi agenti mantengono gran parte del loro potere di dominio in virtù di un controllo e di una mobilità superiori nello spazio».
Istanbul sembra racchiudere questa sorta di “predilezione per il dominio dello spazio” sempre più presente all’interno delle agende politiche neoliberiste dilaganti nelle città, anche non europee.
Arrivare velocemente in Cina o in Portogallo nello stesso lasso di tempo da un unico centro è, come mi dice Brita, una carta vincente per le aziende. Non sembra inopportuno pensare allo sviluppo di Istanbul sotto la lente di quella che Robert Moses volle per New York subito dopo la seconda Guerra Mondiale.
Istanbul è da circa dieci anni concepita attraverso un’urbanizzazione su una scala che si concentra non più sull’unico centro cittadino ma bensì su tutta l’area della municipalità metropolitana. Attraverso un sistema complesso di reti autostradali, viadotti, nuovi quartieri, attraverso una suburbanizzazione e rivisitazione dell’intera area metropolitana, sono i quartieri dormitorio attorno agli aeroporti e in prossimità dei viadotti che portano verso i confini del Paese ad assorbire per intero le eccedenze di lavoro e di capitale.
I progetti “alla Moses”, quasi cinquant’anni dopo, non si sarebbero potuti realizzare senza una rivoluzione strutturale dei comparti finanziari e amministrativi del Paese. Favorire il ricorso al finanziamento mediante capitale di debito ha contribuito evidentemente a risolvere il problema della domanda effettiva e della sovrapproduzione. Il tessile in Turchia continua a essere una cartina di tornasole di queste politiche.
Dopo circa un’ora e mezza di auto arriviamo al primo stabilimento di produzione nel distretto di Ikitelli. Sono una decina di palazzi di venti piani uno accanto all’altro incasellati sopra una collina. Due di questi sono interamente occupati da piccoli laboratori tessili che producono per grandi firme europee.
Negli altri edifici contigui vive la manodopera impiegata nei laboratori. Quella che alcuni possono chiamare vocazione rispetto al lavoro svolto in questo quartiere e in sobborghi simili appare più come un’imposizione se si tiene conto di come sono state impiantate queste micro fabbriche. Adam è un lavoratore del tessile, oggi sindacalizzato all’interno del DISK. Mi racconta di come, anche nel suo quartiere nella periferia ovest di Istanbul, i laboratori di sabbiatura si siano installati in contemporanea all’accesso degli abitanti nelle abitazioni:
Io prima abitavo in centro a Istanbul dietro Tarlabasi con la mia famiglia. Ero un fruttivendolo. Era il lavoro di mio padre e quando morì per alcuni anni continuai la sua professione. Poi arrivo lo sgombero della municipalità che mi tolse la casa e mi propose di andare a vivere in una nuova abitazione appena costruita. Mi proposero un mutuo agevolato e decisi di spostarmi con la mia famiglia sperando di poter mantenere il mio lavoro magari come ambulante. Il mio negozio era sotto casa. Non fu così. Io persi il lavoro perché ovviamente ero troppo lontano dal centro e la casa diventò un incubo, perché i palazzi dopo pochi anni iniziavano a cadere a pezzi e l’unica possibilità di lavoro era quella nel tessile. Appena arrivati, attorno ai palazzi dove abitava la gente alcuni edifici erano già stati acquistati da piccoli imprenditori turchi, che avevano già trasferito al loro interno le attrezzature per lavorare la pelle o per cucire vestiti e imballare pacchi da spedire. Mi sono ritrovato a vivere in un quartiere fabbrica e, siccome avevo bisogno, io e mia moglie abbiamo iniziato a lavorare in una di queste. Lei si occupava di attaccare bottoni e cerniere in un opificio, io invece facevo le sabbiature ai Jeans. Molti miei colleghi i sono ammalati di asbestosi, una malattia che prendono i muratori. Ho avuto paura e mi sono trasferito a lavorare in un’altra fabbrica che produce per l’Ermenegildo Zegna. Non è stata comunque una buona scelta.
Il laboratorio che Brita ha scelto per il confezionamento della linea per bambini della Philipp Pline è al quinto piano di un palazzo. Si sale con un monta carichi. Sono circa 50 gli operai piegati sulle macchine da cucire; le donne si occupano dell’assemblaggio dei tessuti, gli uomini realizzano le rifiniture.
Altri quattro operai (due uomini e due donne) si occupano di stirare i capi completati per poi impacchettarli in custodie di cellofan. A dirigere la produzione, un uomo e due mediatori turchi, che accolgono in inglese Brita accompagnandola sul tavolo controllo di qualità. Mentre Brita controlla la conformità dei capi, delle etichette e dei cartellini da apporre sui capi, il lavoro alle macchine da cucire continua ininterrottamente. Lo spazio del laboratorio è un grande open space, riscaldato da una stufa a carbone posta al centro della sala.
Non esistono servizi igienici nel laboratorio e la pausa è scandita da una campanella che ogni sei ore suona e dà la possibilità agli operai di alzarsi e trovare ristoro nella vicina stanza da the per dieci minuti.
Quasi tutti i lavoratori e le lavoratrici abitano in prossimità dello stabilimento. Sono circa 50 gli sweat shop tra i palazzi che stanno attorno al laboratorio, molti dei quali, alternano un piano abitativo a un piano adibito a opificio.
Uno degli operai parla inglese e durante la pausa di dieci minuti mi da più informazioni rispetto al lavoro che si svolge nel laboratorio:
Mi chiamo Arda e ho 26 anni. Abito in un palazzo alle spalle di questo. Lavoro qui da 6 mesi e mi occupo di stirare i capi al termine del loro confezionamento. La paga è per tutti uguale, percepiamo circa 500 lire turche al mese, circa 260 euro al mese che a stento ci bastano per mangiare; ma la paga è questa da tutte le parti. Lavoro per circa 12 ore al giorno con una pausa di dieci minuti ogni cinque o sei ore dipende dal capo e da quante commesse abbiamo. Da due mesi lavoriamo per questa azienda tedesca. Io vivo con la mia famiglia e anche mia moglie lavora nel tessile, cuce i bottoni in un laboratorio qui vicino. È un lavoro pessimo ma per noi non c’è altro. Odio che il mio stipendio sia in sostanza un quarto il costo di uno di questi abiti per bambino. La fabbrica poi entra a casa mia in ogni modo: figurati che per risparmiare sui modelli per prendere le misure dei capi prima della produzione usano i nostri figli. Li portiamo qui e sono vestiti con i capi delle nuove collezioni e il sarto e Brita, aggiustano su di loro le misure soprattutto per i capi che vanno in Asia perché vogliono risparmiare anche su quello e perché i bambini tedeschi sono troppo grandi rispetto a quelli asiatici. Noi siamo quasi obbligati a non rifiutare.
Le foto di questi bambini turchi, con gli abiti delle ultime collezioni, scorrono sul computer di Brita che mostra ai mediatori come dovrebbe vestire l’abito e quali dovrebbero essere le migliorie da apportare alla successiva produzione, qualora fosse confermata.
L’abito in questione costa circa 800 euro a cartellino. La produzione è per 2000 pezzi. Come mi racconta Arda, sono migliaia gli operai impiegati in questo settore solo in questo quartiere. Un vasto esercito di cittadini che costituisce sia una potenziale riserva di manodopera sia un potenziale riserva mercato.
Sono numerosi i quartieri come questo, geograficamente diversificati, ma che hanno prodotto loro specificità a fronte di un controllo capillare di un capitale regolatore che ha traghettato il “mondo dell’informale” verso quello delle “microimprese”.
A Istanbul rimangono numerosi i quartieri in cui la produzione ha comportato una concentrazione geografica del denaro, dei mezzi di produzione e della forza lavoro. Questi fattori vengono circoscritti in un particolare luogo dove si produce una nuova merce, che viene poi immessa nel mercato per essere consumata e venduta altrove.
Questa forma di accumulazione concentrazionaria riduce i costi accrescendo il profitto in luoghi più avvantaggiati, come afferma Brita:
A Istanbul tutto sta concentrato in quartieri vicini tra loro. È tutto più veloce ed economico. Gli operai abitano nelle fabbriche, le spedizioni partono da hub costruiti a posta nelle vicinanze. Le autostrade verso gli aeroporti e frontiere sono state costruite a posta per il transito delle merci e così facendo è più facile anche trovare manodopera disponibile. Questa fabbrica è piccola ma, ad esempio, non soddisfa in realtà la qualità da noi richiesta. Gli do un’ultima possibilità e se va male e devo cambiare laboratorio mi basta scendere di piano, dal quinto al quarto e chiedere la loro disponibilità. Questo per l’azienda è sicuramente vantaggioso anche perché non c’è in realtà nessun particolare contratto che ci vincola se non il capitale stesso. Tutto si gioca attraverso i bonifici bancari e i soldi in contante. Se fai male sai che io non ti pagherò e andrò da un altro per la nuova commessa. È come fare shopping.
E dopo cinque ore dentro lo sweatshop di Ikitelli, Brita chiude a ribasso il costo produzione della linea di abiti, ricordando al proprietario dello stabilimento la chiusura dei loro rapporti lavorativi. Tra poco meno di un mese non ci sarà più traccia su chi e dove siano stati cuciti e confezionati i vestiti di questa collezione. La trattativa chiusa si riapre in un altro stabilimento al terzo piano dello stesso palazzo.
Brita non parla turco ma in ogni linea è presente un mediatore poliglotta che accoglie l’account di turno. Dopo mezz’ora, Brita chiude un accordo per la produzione di 5000 t-shirt nel laboratorio al piano di sotto.
Nelle prossime settimane arriverà tutto il materiale per il confezionamento e alle prime 1000 prodotte Brita ritornerà per controllare la qualità del manufatto. Un altro appuntamento di lavoro è l’indomani mattina presso una fabbrica di indumenti in pelle. Il quartiere è quello di Kagithane, ed è l’intero stabile ad essere adibito a centro di produzione per fasi e reparti.
Un palazzo normalissimo di dieci piani con portineria che accoglie ad ogni piano una fase produttiva. Lo stabilimento lavora per la P. P. da circa due anni. La materia prima è acquistata direttamente in Turchia dalle concerie italiane che da qualche anno si sono trasferite nella vicina periferia di Istanbul.
Chi si occupa delle vendite è Muge, assunta come dirigente delle vendite dopo che le concerie italiane di Solofra si sono trasferite in Turchia. Muge parla italiano, e mi racconta del suo lavoro:
Sono circa dieci anni che lavoro in questa azienda. Mi occupo di assistere e fare da mediatrice con i clienti esteri. Ad esempio, il lavoro che svolgo con Brita è quello di effettuare il controllo qualità e mediare sul prezzo della materia prima della manodopera e ovviamente del prodotto finito. La nostra è un’ottima manifattura e sono svariati anni che la P.P. acquista e progetta i suoi giubbotti e pellicce da noi. Riusciamo a mantenere un prezzo concorrenziale con una buona qualità questo perché oltre ad avere incentrato tutta la produzione in un unico palazzo, il governo turco permette di fatturare solo una parte del lavoro, il resto è tutto a nero. Nessuno ci controlla e quindi se produciamo 100 fatturiamo dieci per esempio. Io spedisco le merci, preparo i documenti dell’import e dell’export, passo io tutti gli ordini degli accessori e delle pelli e mi interfaccio con le concerie italiane e straniere. Io non mi occupo del mercato locale, io seguo tutte le relazioni con l’estero. Tu vieni con i tuoi modelli e ti propongo il tipo di articolo. Suggerisco se ci sono dei cambiamenti da fare. Quando uno stilista disegna un modello, non pensa alle cose tecniche. Per evitare problemi in produzione io modifico il modello. Noi qui seguiamo più di 15 linee e più seguiamo molte boutique russe che pagano altissime cifre, più dei clienti europei che sono in continua negoziazione. I russi pagano benissimo. La manodopera da noi è abbastanza professionalizzata e i costi sono relativamente bassi, questo e uno dei principali motivi per cui molti passano per Istanbul. Anche in Cina la manodopera costa poco ma non hanno la nostra flessibilità e la nostra velocità. Siamo vicini all’Europa, e abbiamo il concetto di qualità. Per esempio Solofra è una piccola cittadina dove ci sono più di 400 concerie, fino a sei anni fa compravamo tutto lì. Oggi quelle fabbriche si sono spostate qui, Mi pare che quelle rimaste in Campania siano meno di 20. Una delle concerie più importanti per il montone in Europa stava li, la ALBATROS. Don Errico era quello che pagava più tasse; hanno chiuso la conceria e tutti i tecnici oggi lavorano qui a Tuzla. Il direttore della produzione lui oggi vive qui, si chiama Fabrizio. Un operaio da noi guadagna dai 250 ai 350 euro al mese. Non esistono sindacati e non abbiamo pressioni politiche di nessun genere. Io non voto AKP posso confessartelo, sono una Kemalista democratica, amo la Turchia, mi rendo conto che il mio lavoro include sfruttamento, ma la crescita economica del Paese oggi e complessivamente molto più importante. La cosa positiva dell’AKP, è stata la libertà di poter fare azienda e di poter fare investimenti. Il mio capo e un imprenditore che con questo investimento ha comunque dato lavoro a più di 300 persone.
La retorica del “bene per il Paese” è diffusa tra gli ambienti imprenditoriali a Istanbul e sono spesso i Kemalisti che la utilizzano su tutte le questioni che comprendono in qualche maniera il mantenimento di una condizione di precarietà di una classe sociale da loro stessi definita popolare. Una retorica che troverà nei dibattiti del Gezi Parki durante i mesi delle rivolte, una chiusura da parte della maggioranza
scesa in piazza e che ha alimentato notevoli dibattiti tra sindacati e nazionalisti.
I capi confezionati dall’azienda hanno un costo di cartellino che oscilla tra 1500 euro e i 10.000 euro. La fabbrica si occupa del completo confezionamento del vestito, compresa la spedizione. Il rincaro sul prezzo è spropositato.
È sempre Muge a farmi un esempio, prendendo in mano il cartellino con il prezzo del giubbotto campione in pelle da lei indossato per testarne la tenuta delle cuciture:
Questo giubbotto in pelle della nuova collezione inverno 2013 ha un costo di 1800 euro su cartellino. Dalla fabbrica noi riusciamo a farlo uscire a un costo di circa 150 euro, il resto del prezzo è brand. Produrre in Italia lo stesso capo che facciamo noi costerebbe minimo 60 euro in più. È il costo del lavoro e le tasse che incide sul prezzo. Qui è tutto al nero come ti ho già detto, sui documenti ufficiali non fanno vedere anche le ditte più grandi le cifre esatte. Voi invece siete veramente in crisi! La materia prima posso assicurarti che è ottima, noi compriamo dagli italiani. Da alcuni anni le concerie italiane che prima stavano in Campania si sono trasferite a Istanbul e questo ha agevolato gli acquisti e ovviamente i prezzi che noi proponiamo a chi commissiona i lavori.
Il sovrapprezzo di un euro circa è imposto a ogni collo per effettuare la spedizione che l’azienda per cui Muge lavora si fa carico. Si spedisce il prodotto finito attraverso il vicino aeroporto internazionale di Ataturk oppure nel caso della P.P., direttamente in Germania attraverso una ditta di trasporti su gomma legata alla stessa compagnia.
Nell’opificio, gli operai impiegati con un sistema paragonabile al TMC2 della Fiat sono 350, suddivisi per area di lavorazione. Come sottolinea Muge non esistono sindacati o organi aziendali che tutelano gli operai della fabbrica. Essendo uno stabilimento privato che acquisisce commesse differenti da svariati brand in un sistema di sub-appalti a cascata, per gli operai i legami sindacali sono più difficili da instaurare. In Turchia, ma come anche in molti altri paesi europei, la presenza dei sindacati è vincolata stabilimenti che producono in esclusiva e unicamente per aziende appaltatrici di marchi, come la già citata Ermenegildo Zegna, Benetton, Zara etc.
Ogni giorno alle 12:30 inizia la pausa pranzo. Nei 250 euro è compreso il pasto che tutti gli operai consumano a turno nella mensa allestita nel seminterrato dello stabilimento. Si scende per fasi di produzione.
Prima il laboratorio conceria, poi quello taglio, quello dell’assemblaggio, sino ai piani alti. Gli ultimi a pranzare sono i dirigenti. Durante il pranzo offertomi dall’azienda, conosco Mohammed, operaio della Gurun Ates da circa 5 anni. Parla inglese e si occupa del taglio del pellame. Vive nel quartiere di Bayrampasha lo stesso in cui è impiantata la Gurun Ates:
Vivo qui da dieci anni e lavoro per l’azienda da circa la metà. Sono nato a Istanbul, ma i miei genitori sono originari di Trabzon. Mi occupo di tagliare le pelli in base ai disegni che ci arrivano dal reparto progettazione e la mia giornata è scandita dai ritmi dei macchinari che incidono e tagliano le pelli. Inizio a lavorare la mattina intorno alle sei e il mio turno a volte arriva a tredici ore di lavoro. La fabbrica lavora full time senza sosta solo i piani alti hanno orari umani. I dirigenti per le otto di sera sono fuori. In fabbrica rimangono gli operai e i controllori. Nelle linee ci sono le telecamere che ci controllano e la sicurezza privata che di continuo passa per i reparti a monitorare la nostra produttività. Io guadagno circa 300 dollari al mese ma con un contratto che non mi permette nemmeno di accedere alla sanità pubblica. È l’unico lavoro che si trova sicuro, quello in fabbrica. Più passano gli anni e più sembra che il lavoro aumenti e che lo stipendio diminuisca. Questo è incredibile, anche perché noi lavoriamo per commesse importanti. Il problema che una giacca della P.P. per esempio da noi esce mediamente al costo di 200 euro e fuori viene venduta a 2000 euro, basterebbe aumentare il costo del lavoro un minimo per farci vivere meglio. Le commesse non mancano ma la nostra condizione rimane uguale, sono i dirigenti a guadagnare sul nostro lavoro, contando che le commesse sono molto complesse da svolgere visto che lavoriamo per grandi firme. I turni sono continui non ci sono giorni festivi, non c’è tempo per la preghiera e solo la domenica l’impianto resta chiuso. Se vuoi sapere se riesco ad arrivare alla fine del mese ti rispondo di no. Da alcuni anni sono stato costretto ad indebitarmi con le banche e fare un sacco di piccoli crediti. In azienda lavora un giorno sì e uno no anche mia moglie, che si occupa delle pulizie e guadagna 160 dollari al mese. La mia condizione è comune a molti altri operai. Dopo anni di richieste siamo riusciti a ottenere questa mensa con un pasto a testa al giorno, Qui si mangia a pranzo e a cena per chi fa il turno serale.
Il pasto offerto dall’azienda è sempre identico, una minestra di legumi, una fetta di pane, dell’acqua e un thè caldo. Sono rare le varianti. Ogni gruppo di operai ha a sua disposizione quindici minuti di pausa pranzo e anche qui una campanella scandisce i tempi.
Risalgo all’ultimo piano dello stabilimento e ritrovo Muge e Brita intente al controllo qualità nell’atelier della fabbrica. Con loro c’è Mehemet, un quadro dell’azienda che si presenta sottolineando il suo stile italiano, intrattenendomi nel notare il suo abbigliamento e informandomi di come anche nel mangiare lui abbia caratteristiche tipiche di un italiano:
Da quando collaboro con aziende italiane sono diventato un’altra persona, anche in cucina ormai ho abolito i kebab (ride), mangio pasta Barilla e adoro ascoltare Laura Pausini.
Il quadro d’azienda è tradito però dalla sua auto, gli chiedo di che marca sia:
Su questo purtroppo sono poco italiano non ho una fiat ma un Suv Mercedes, sono più affidabili e poi sappiamo tutti come sta andando la Fiat440.
Mehemet è comunque un attento osservatore del mercato italiano in Turchia e oltre a farmi un nutrito elenco delle aziende italiane nella sola Istanbul, mi ricostruisce le motivazioni di perché una grossa fetta di mercato internazionale si sia oggi delocalizzata in Turchia:
L’Italia è uno dei principali partner della Turchia. Siamo un Paese dotato di importanti strutture finanziarie che hanno permesso che molte aziende preferissero la Turchia ad altri paesi extra EU. In Turchia solo nell’abbigliamento ci sono aziende italiane come Bulgari, Benetton, Ermenegildo Zegna, Miroglio, Textura S.P.A. e tante altre. In Turchia abbiamo una tipologia di intermediari finanziari numerosissima, abbiamo un peso notevole rispetto alla capitalizzazione di borsa all’interno del sistema economico è ovviamente un grado di finanziarizzazione e bancarizzazione dell’economia del Paese a livelli altissimi. Tutto questo si lega agli aspetti altrettanto importanti legati al costo del lavoro, alle materie prime e all posizione geografica strategica. Un ruolo importante lo hanno avuto in questo le Banche e i 10 anni di governo Erdoğan dobbiamo riconoscerlo. Hanno certo speso poco tempo a lavorare sui diritti, ma hanno così permesso di modernizzare l’intero apparato economico per far fronte alle grandi richieste dei mercati esteri.
La freddezza con cui mi viene raccontata la scalata al successo delle imprese Turche è sconcertante se non altro per il grado di disinteresse rispetto alla situazione complessiva del lavoro degli operai che ho appena incontrato.
Il profitto e la produttività rappresentano l’unico traguardo e sono pochi gli imprenditori che incontro durante la mia missione di ricerca in Turchia che non rivendichino queste posizioni.
Lo sviluppo dell’industria tessile in Turchia è fatto risalire al post terremoto del 1999 quando il settore delle costruzioni rallentò a causa dei maggiori controlli -anche se spesso solo di facciata- imposti dal governo. Il settore edile era quello che assorbiva la maggior parte dei lavoratori migranti e non di Istanbul, molti dei quali si riversarono nell’unico grande outlet dell’occupazione: l’industria manifatturiera tessile.
Questo è il nuovo settore che abbraccia non solo l’import export ma che è in grado di competere nel resto del mondo con l’intera gamma delle economie a basso salario.
Un settore non solo sensibile alle fluttuazioni di valute, ma anche decisamente concorrenziale rispetto per esempio ad avvenimenti catastrofici come le epidemie. Sono molti gli studi sul tessile (ad esempio) che raccontano il primato di Istanbul nella manifattura tessile subito dopo l’epidemia della SARS in Cina.
Da quel momento in poi molte aziende spostarono la loro produzione in Turchia, a Istanbul nello specifico, in modo da garantire non solo una migliore e ricercata manodopera ma anche un costo di produzione altrettanto economico.
Il comparto tessile inoltre favorisce l’utilizzo delle giovani donne, offre bassi salari e può spostarsi facilmente tra fabbriche, officine, subappalto a cascata e lavoro domestico.
Anche l’Italia ha scelto la Turchia da tempo per molti dei motivi appena elencati. A confermare la Turchia come partner importantissimo per l’Italia è il recente “Progetto Business” dell’Osservatorio Mediterraneo SRM, che ha l’obiettivo di quantificare il valore della presenza imprenditoriale italiana all’interno dei paesi extra EU che si affacciano sul Mediterraneo.
La ricerca risalente al novembre 2012 dal titolo Italian Business in Turchia è utile per ricostruire l’impianto istituzionale su cui poggia l’intero comparto del delocalizzato italiano nel Paese, nonché comprendere quali legami e intrecci si sviluppano nei meccanismi di finanziarizzazione dell’economia da parte del governo Erdoğan.
Come è stato sottolineato nell’intervista precedente, l’Italia viene posizionata al quarto posto tra i partner commerciali della Turchia, seconda tra i Paesi europei dopo la Germania con scambi bilaterali pari a circa 16 miliardi di euro nel 2011 e una bilancia commerciale in attivo di quasi 4 miliardi di euro.
La Turchia è disegnata dal report come un Paese in notevole crescita, con un aumento del PIL negli ultimi dieci anni pari al 9%. Con una popolazione di circa 75 milioni di abitanti la Turchia è seconda, in Europa, solo alla Germania per numero di abitanti. Il Prodotto Interno Lordo nel 2012 sfiora i 638 miliardi di euro è pari a circa ¼ di quello tedesco, a meno della metà di quello italiano e in linea con il PIL dell’Olanda.
L’apertura internazionale del Paese è aumentata notevolmente nel corso dell’ultimo decennio, con l’interscambio con l’estero (270 miliardi di euro nel 2011) più che triplicato rispetto al 2001. È cresciuto, tuttavia, anche il deficit della bilancia commerciale (da 11,2 miliardi di euro nel 2001 a 76 miliardi nel 2011).
Per quanto concerne il peso della finanza islamica all’interno del sistema bancario della Turchia, sono quattro gli istituti bancari “islamic oriented” presenti nel Paese. Essi mostrano una crescita degli impieghi superiore alle banche tradizionali e, una maggiore capacità di finanziamento del sistema economico.
Come nel caso marocchino sono decine le ricerche di università e istituti bancari che spingono verso la delocalizzazione delle attività economiche in paesi extra europei. Il caso appena citato e solo uno dei tanti che invoca l’eldorado della delocalizzazione dei capitali in Turchia.
Dopo le rivolte dell’estate del 2013 è stata una conferenza internazionale della Word Economics Association dal titolo Neoliberalism in Turkey: a balance sheet of Three Decades, a dover riassestare il calibro delle influenze reali delle politiche neoliberiste all’interno del mondo del lavoro ad esempio.
Lo studio per quanto focalizzato su aspetti ben circoscritti mette in crisi l’impianto politico economico turco rispetto alle classiche letture che lo vogliono saldo, in crescita e in perenne avanzamento mettendo in luce elementi quali disoccupazione, sfruttamento sul lavoro, politiche economiche non adeguate al mantenimento di una corretta bilancia sociale e affermando come il mercato del tessile sia uno dei settori più evidenti di produzione di plusvalore e ricchezza e al contempo disoccupazione, laddove come disoccupazione si intende la regolamentazione ufficiale della prestazione lavorativa.
È fondamentale ricordare come la svolta neoliberista in Turchia avviata a cavallo tra anni ‘70 e ’80 abbia, nell’ultimo ventennio Erdoğan, avuto notevoli accelerazioni e messe in asse rispetto alle politiche globali.
Le politiche dell’AKP hanno prodotto, dal 2002 a oggi, l’attuazione reale di quella che Bourdieu definiva come l’utopia del neoliberalismo, attraverso un discorso dominante che ha convertito l’attuazione di un’utopia in una questione politica performativa. Sono le politiche della flessibilità e del taglio alla spesa pubblica, sono le politiche delle privatizzazioni e della svendita di quello che alcuni hanno definito come bene comune, sono le politiche di riduzione del costo del lavoro e di negazione di qual si voglia diritto sindacale, come la storia degli operai del brand di lusso italiano Ermenegildo Zegna.
Incontro una loro delegazione in piazza Taxim nel giugno del 2013 durante l’occupazione del Gezi Parki. Emre, uno degli operai della delegazione, mi spiega le motivazioni che hanno portato al licenziamento e all’arresto di molti operai della fabbrica del marchio italiano situata a Tuzla, un distretto nel lato Sud orientale di Istanbul, nei pressi del quartiere di Sulatanbeyli:
Io ho 42 anni e lavoro da un po’ per questa azienda. Gli impianti stanno nel lato asiatico della città, in una sorta di zona franca che il comune di Istanbul ha istituito per la produzione specifica del tessile. Il sindacato DISK è da circa un anno che è entrato nell’impianto con dei suoi delegati. Le principali motivazioni che negli ultimi tre anni hanno spinto noi operai a ribellarci sono che non abbiamo ottenuto nessun aumento di stipendio nonostante un aumento della produzione, l’azienda ha messo telecamere ovunque persino nelle toilette, e ci controlla in ogni nostro passo e ovviamente la discriminazione è il cattivo trattamento applicato a noi operai sul posto di lavoro. Sono questi i punti che ci hanno spinto a unirci e ad accettare il sindacato in fabbrica. Dopo le prime richieste all’azienda tre lavoratori: Fikriye Akgul, Öznur Fazlıoğlu e Cengiz Taşkesen sono stati vittime di attentati e licenziati in tronco con la scusa di aver lavorato per tropo tempo nell’azienda. Dopo i licenziamenti, è stata bandita la possibilità del sindacato di operare all’interno della fabbrica ed è stato imposto agli operai di non interferire con le politiche aziendali. Sono stati questi tre lavoratori a lanciare un presidio permanente fuori la fabbrica. L’azienda che ha in carico l’impianto è l’ISMACO e nei giorni successivi al presidio fuori la fabbrica alcuni suoi emissari hanno caricato di peso i tre operai portandoli da un notaio per cancellare forzatamente l’iscrizione al sindacato. Da quel momento in poi sono iniziate le pressioni psicologiche sulle catene di assemblaggio dei capi, sono state ridotte le pause e nessuna richiesta è stata accolta da parete della ISMACO.
La ISMACO è una società in subappalto dell’italiana Ermenegildo Zegna. Alla fine del 2012 l’azienda licenzia diversi dipendenti che avevano cominciato a fare attività sindacale nella fabbrica di Tuzla. Il 14 marzo 2012, dopo circa novanta giorni di resistenza, i lavoratori approfittano della visita alla fabbrica del General Manager Francesco Lasorte per contestarlo.
Lasorte, barricato nella struttura, viene bersagliato di slogan e cori ostili, ma non succede nulla di più. Secondo i report prodotti dal sindacato, c’è stato un solo incontro con i vertici dell’azienda, e in specifico con il Presidente del reparto vendite e gestione estera, Claudio Ronco.
L’incontro è terminato con un nulla di fatto e con una dichiarazione del Presidente che afferma come l’unione sindacale non sia una parte sociale con cui trattare e che nessuna delle vertenze sarà tenuta in considerazione. Al termine dell’incontro si sono registrati numerosi altri licenziamenti nel personale sindacalizzato e alcuni arresti. Gli operai della Zegna guadagnano anche loro tra i 230 e i 250 euro al mese senza nessuna garanzia di sorta. L’azienda sorge in una delle venti zone di libero scambio istituite in Turchia dal 1985. Le zone di libero scambio (FTZ) della Turchia consentono agli investitori di accedere a una vasta gamma di mercati, partecipano nel commercio internazionale, e permettono di evitare l’impedimento di dogana e le restrizioni legali sul commercio.
Aree geograficamente parte del Paese, ma che mantengono lo status speciale di luoghi privi di dazi doganali e imposte fiscali di qualsiasi natura. Come piccole enclaves all’estero le zone di libero scambio, consentono alle aziende straniere di partecipare in perfetta concorrenza con le stesse aziende turche senza nessuna restrizione. Fathi uno degli operai dell’ISMACO:
Operare in queste zone consente agli investitori guadagni altissimi. I principali vantaggi sono: l’accesso eccezionale e capacità di vendere al grande mercato interno turco, basso costo del lavoro, entrate internazionali di capitali libere e guadagni nei trasferimenti, nessuna imposta sul reddito sui salari dei lavoratori, nessuna IVA o imposte speciali sui consumi, non si applicano alle utenze di telefono, energia o acqua consumati in zone di libero scambi, il commercio estero è privo di restrizioni legali, la libertà di utilizzare qualsiasi valuta estera convertibile, facile accesso ai porti turchi, possibilità di ottenere i prestiti migliori da banche che operano in zone di libero scambio, nessuna tassa di transazione della banca per gli utenti di zona di libero scambio, non ci sono restrizioni sulla qualità e il prezzo dei prodotti, coinvolgimento illimitato di capitali esteri in investimenti consentito, spaziosi locali commerciali, serrate e scioperi sono vietati per dieci anni dopo l’apertura di una zona di libero scambio, nessuna limitazione sul periodo in cui i prodotti possono rimanere nella zona di libero scambio, capacità di ottenere una licenza di esercizio senza creare una società in Turchia. Queste sono le principali prerogative di queste zone di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente.
La zona franca di Tuzla è una delle ultime costituite. È il fiore all’occhiello dell’AKP in merito alla produzione e al confezionamento dell’abbigliamento e della pelletteria in Turchia.
Al suo interno operano 742 aziende per un fatturato di più di sei miliardi di dollari all’anno nel solo commercio internazionale. Anche in questo caso molti dei dati sono pubblici compreso l’iter burocratico per accedervi.
In buona sostanza, la cornice che si determina nella Istanbul contemporanea in merito ai settori industriali, di cui quello del tessile ne rappresenta una parte di un dedalo molto più complesso, non è poi cosi diverso da quello che Polanyi racconta rispetto alle città industriali britanniche. Polanyi scriveva:
[…] prima che il processo fosse avanzato di molto i lavoratori erano stati ammucchiati assieme in nuovi luoghi di desolazione […]; la gente di campagna era stata disumanizzata e trasformata in abitanti di slums, la famiglia era sula via della perdizione e grandi parti del Paese scomparivano sotto i cumuli di polvere di carbone e di detriti vomitati dai satanici opifici.
Polanyi si riferiva a un’epoca diversa in un Paese diverso, ma le sue descrizioni continuano ad essere attuali e dirompenti nel riscontro di quella che lui stesso chiamò la rivoluzione dell’economia di mercato e che oggi potremmo chiamare tranquillamente rivoluzione neoliberista.
L’ultimo impianto che riesco a visitare con Brita si trova a Günesli in prossimità dell’aeroporto internazionale di Ataturk questa volta in una sorta di mega zona industriale formata da enormi capannoni e centri commerciali. L’azienda che visitiamo prende in appalto numerosi marchi di abbigliamento, la P.P. è una di queste.
Nell’impianto sono impiegati circa 300 operai, per lo più donne, si occupano della produzione completa di T-shirt e della spedizione con cargo aereo del confezionato. L’impianto è all’avanguardia, a paga degli operai è pressoché identica agli altri casi a differenza del fatto che non mi è consentito né fotografare le linee di produzione né di parlare liberamente con gli operai.
Dopo un veloce giro nell’opificio, finisco all’interno dell’ufficio di controllo qualità dove un mediatore controlla con Brita la coincidenza delle taglie con le misure effettive dei capi e la tenuta degli svarosky applicati sulle T-shirt. Ogni polo ha un valore di circa 3 euro e viene rivenduta sui banchi delle boutique di Mosca -questa è loro destinazione- a circa 220 euro.
Durante il controllo di qualità sopraggiunge in ufficio il proprietario dell’azienda. Un giovane di circa 30 anni, elettore del partito dell’AKP, che viene immediatamente messo alle strette da Brita che chiede più serietà nella produzione. Brita tira fuori dalla sua borsa una copia falsificata della polo confezionata in esclusiva dall’azienda, chiedendone conto al giovane imprenditore.
La discussione si conclude con un nulla di fatto, l’imprenditore non sa come sia potuto succedere, dando la colpa a qualche operaio della linea di produzione.
Come funziona questo doppio binario tra il capo originale e quello contraffatto è Brita a spiegarmelo sulla strada del rientro:
Tra le mansioni più fastidiose è che devo anche controllare se escono in giro per Istanbul capi d’abbigliamento contraffatti della nostra linea. Non mi compete perché sono un ingegnere tessile non un poliziotto, ma purtroppo l’azienda mi impone anche questo. Passo giornate intere in giro per mercati e centri di smistamento di abbigliamento alla ricerca di capi della P.P. contraffatti e posso assicurarti che ne trovo tantissimi. Le differenze sono evidenti, le cuciture più fragili, la qualità delle stoffe più scadente ecc., ma a Istanbul posso assicurarti che la fattura rimane comunque di ottima qualità. Sono le stesse aziende che vendono i provini a laboratori più piccoli e vanno in produzione parallelamente alla linea originale. Una parte viene smerciata nelle piazze mercatali di Istanbul e una parte viene spedita all’estero spesso attraverso le navi container che partono dal porto della città verso l’est Europa. Per le aziende in subappalto è tutto di guadagnato mentre le grandi firme giocano a guardie e ladri. Il mercato del parallelo corre con quello dell’ordinario in connessione a una domanda locale e transnazionale che corrisponde questa delocalizzazione dei brand europei e non solo.
Come afferma Péraldi:
«[…] un atelier che lavora su committenza per alcune grandi marche può contraffare il prodotto fabbricato tanto più facilmente se la prossimità di mercati di strada permette di smaltirlo assai rapidamente»
e, se a questo si aggiunge la presenza consolidata di rotte transazionali del commercio come viadotti e porti internazionali, si delinea una forma relazionale complessa di un’attività economica intesa come relazione di scambio e di affare mercantile e commerciale. A detta di alcuni operai incontrati a Istanbul durante l’occupazione della GAZOVA una delle rotte marittime conclamate del trasporto, di capi d’abbigliamento paralleli è quella Istanbul-Odessa via Mar Nero.
Le navi cargo trasportano enormi quantità di merce contraffatta che, una volta attraccate al porto, della città Ucraina, sono trasbordate a circa 7 km di distanza dal porto in una sorta di mega interporto del commercio chiamato il “settimo chilometro” o Tolckoc (la calca in ucraino). Quest’area è attrezzata per contenere i capi d’abbigliamento e non solo provenienti dalla Turchia e dalla Cina, con un comparto funzionale alla vendita.
L’area di circa 80 ettari gestita dalla Promtovarny Market, che affitta container ai piccoli e medi imprenditori della vendita del contraffatto. Le descrizioni del “settimo chilometro” fatte da alcuni operai del tessile turchi ricordano l’enorme mercato costruito al confine tra Ceuta, l’enclaves spagnola, e il Marocco, che ho avuto modo di visitare durante a missione di ricerca nel luglio del 2012.
Come mi confermano in molti e come ho potuto osservare in numerosi sweatshop di Istanbul sono gli stessi micro opifici che producono il capo originale a farsi carico del confezionamento del parallelo.
Se per cucire una maglia originale –mi raccontava Mohammed, un operaio della Zegna- ci vogliono pochi minuti, in pochi secondi si è in grado di riprodurre lo stesso capo nella metà del tempo con meno migliorie, ma sempre di buona fattura.
Il problema rimane per loro il carico di lavoro sempre più incessante e stressante. Quando si lavora per produrre un abito falso, i proprietari delle fabbriche incalzano moltissimo sugli operai, richiedendo molta più velocità e molte più ore di lavoro ovviamente non retribuite.
Sono poi i legami con i grandi marchi che andrebbero indagati. In realtà il mercato del falso è legato a doppio filo con quello del parallelo, in quanto le aziende in subappalto mantengono calmierato il costo di produzione solo se si raggiungono accordi con le aziende appaltatrici in merito alla produzione delle linee più economiche, che saranno gestite autonomamente dall’imprenditore locale. È evidente che il primo problema di questo complesso sistema di relazioni arrivi dalla commistione che lega le connivenze tra classi imprenditoriali internazionali e locali con la politica, e il successivo utilizzo di una manodopera a bassissimo costo e iper sfruttata, impiegata nella produzione dei capi d’abbigliamento firmati.
Un pezzo di quella che Péraldi ha chiamato “aberrazione economica” ha, accanto allo sviluppo immobiliare, prodotto e incentivato i fatti sociali totali appena raccontati, giustificati e spiegati troppo spesso da economisti e urbanisti come conseguenza della sola esplosione demografica e accesso alla modernità.