Attraversando il Marocco, non si può che non restare incantati dalle sue sconfinate bellezze. Le sue antiche Città Imperiali, l’imponente catena montuosa dell’Alto Atlante, le magnifiche Gole del Todra e di Dadès, le ipnotiche Dune di Erg Chebbi nel Deserto del Sahara possono creare istantanee indimenticabili nella memoria di un viaggiatore.
Tra una kasbah ed un souk, il misterioso profumo di un pane antico e tradizionale, si fonde con quello del tè caldo alla menta, delle coltivazioni di Rose e di Argan.
Decisi di voler assaporare cotanta bellezza prima di ogni cosa, facendola mia e respirando a pieni polmoni, nella speranza che questo potesse bastare per attenuare il sapore amaro di ciò che mi ero prefissata di documentare. E così, dopo un paio di gioiosi giorni trascorsi a Marrakesh (giusto il tempo necessario per rifornire la jeep ed ingaggiare Ascur, la mia preziosa guida armata berbera), partii verso l’estremità sud orientale del Paese, in direzione del confine algerino.
Negli ultimi anni, anche a causa della pubblica informazione, per l’immaginario collettivo, i migranti sono solo persone stipate su un barcone fatiscente proveniente da una delle regioni del Maghreb, il cui destino “semplicemente” è approdare in un porto sicuro, essere tratti in salvo da ONG e/o Autorità Marittime locali, oppure morire in mare per imprevedibili cause.
Domandiamoci ora, quanta strada hanno macinato le loro gambe prima di sedersi su quel gommone? Quanti e quali Paesi hanno dovuto attraversare? Con quali risorse? Quanti di loro sono dispersi in terre di confine senza nome e quanti hanno perso la vita durante il percorso?
Secondo i dati riportati dall’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale), il dirottamento verso ovest delle rotte migratorie trans-sahariane ha contribuito a fare del Marocco la meta più attrattiva per i migranti in provenienza dall’Africa occidentale, anche in ragione del crescente attivismo diplomatico, economico e culturale del Regno.
Il Marocco si sta affermando, infatti, come principale porta d’ingresso verso l’Unione Europea, attraverso la Spagna, complice, anche, la progressiva perdita di controllo di Rabat sulla regione frontaliera del Rif.
Si registra un costante e rapido aumento del 100% all’anno, degli attraversamenti di migranti dal Marocco alla Spagna, in larghissima parte provenienti da paesi dell’Africa Occidentale quali Mali, Guinea, Costa d’Avorio e Senegal. Da poco più di 10.000 nel 2016, a 23mila nel 2017, a 57mila nel 2018 (ovvero più del doppio di quelli arrivati in Italia dalla Libia lo stesso anno), a 13mila nei primi sei mesi del 2019, numeri destinati ad aumentare con l’arrivo della stagione calda, così come stiamo constatando.
Ispirato dagli esempi della Turchia e del Niger, a fine giugno 2019 il Marocco ha abilmente negoziato con l’Unione Europea un piano politico in cambio di agevolazioni commerciali per il contrasto dei flussi migratori e del terrorismo. L’accordo consiste nel regolarizzare i migranti irregolari e conceder loro un permesso di lavoro che gli dia la possibilità di stabilirsi, per qualche tempo, entro il territorio nazionale. Una decisione presa con l’intenzione di trattenere un numero fra i 25 mila e 100 mila migranti irregolari, che il Paese pensa di riuscire ad assorbire in settori dove è carente la manodopera, come quelli agricolo, artigianale ed edile.
Nel 2013, il Marocco ha concesso 25 mila permessi lavorativi in un anno, dei quali avevano beneficiato persone provenienti da 116 Paesi differenti, in primis Senegal, Syria e Nigeria. Con la chiusura della rotta del Mediterraneo centrale, i flussi migratori si sono spostati verso i territori occidentali dell’Africa. Il Marocco, così come la confinante Algeria, sta cercando di garantirsi il favore dell’Europa per ottenere aiuti in ambito di sviluppo economico e commerciale e, non a caso, l’Europa ha destinato fondi ed aiuti per 16 Paesi nordafricani tra cui, appunto, Marocco ed Algeria.
Altro elemento caro tanto al vecchio continente quanto a Marocco e Algeria è la lotta al terrorismo. Una volta tanto, non progettata attraverso azioni di tipo militare, ma cercando di sgonfiare i focolai di protesta che divampano in Africa, offrendo alternative di tipo economico a potenziali futuri combattenti.
Con l’accoglienza dei migranti e l’offerta di posizioni lavorative, i Governi di Marocco e Algeria sono convinti di poter dare una mano nel contenere la radicalizzazione in determinati ambienti ed evitare che nuovi miliziani si uniscano ai gruppi di matrice terroristica, consapevoli che sono spesso condizioni di vita disagiate e scarsità di opportunità economiche a spingere i giovani nelle mani dei gruppi armati.
Basti pensare alla presenza di al-Qaeda, che quest’area dell’Africa prende nome di AQIM (Al-Qaeda in the Islamic Maghreb) e all’ISIS, che ha dichiarato l’Algeria come territorio in cui opera attivamente attraverso alcune sue cellule.
In tale allarmante e discutibile quadro generale, ho attraversato il Paese tagliando l’Alto Atlante da occidente ad oriente e spingendomi sino all’estremo confine con l’Algeria, per oltre 3.200 km ad altezze di 3700 m, fra aree desertiche rocciose presahariane e incantevoli oasi.
Un viaggio faticoso, anche dal punto di vista fisico, in cui sono state fondamentali le soste ed il supporto delle tribù berbere locali per garantirci ristoro in rifugi e campi tendati, scorte d’acqua e vivande. Lasciate le valli del Fiume Dra, fra le distese desertiche, a pochi chilometri dalla città di Zagora, i primi accenni del passaggio dei migranti: bottiglie di plastica abbandonate a gruppi in vaste aree di sabbia gialla colpiscono come un pugno al cuore. Lo scenario muta radicalmente, si ha quasi la voglia di non procedere, di fermarsi, di tornare indietro verso l’incanto visto poco prima.
Ma poi si prosegue ed allora, d’improvviso, una enorme coltre di fumo nero ci avvolge. La visuale non è più infinita e tersa, l’aria diventa talmente irrespirabile che siamo costretti a coprire naso e bocca con fazzoletti bagnati.
Siamo arrivati a Tamegroute, provincia estrema di Zagora, nella regione del Dràa-Tafilalet. Qui non si vede e non si sente nulla, a malapena si respira.
E’ qui che vivono donne, uomini, anziani e bambini, nascosti in cunicoli sotterranei nel tentativo di proteggersi dal caldo torrido e dall’odore nefasto di quel fumo nero come la pece che per loro è ragione stessa di morte e di sopravvivenza.
Qui si producono i Tajine, tipiche pentole berbere in terracotta rinomate in tutto il Maghreb. Ancora oggi sono cotte in forni arcaici e sono caratterizzate dal tipico colore verde bottiglia, per la presenza di rame e manganese.
La produzione dei Tajine, è il frutto di un lavoro di antica tradizione. La maggior parte degli uomini in questa zona lavorano tutti in questa fabbrica a cielo aperto.
A temperature proibitive che, in estate raggiungono soglie dei 50°, alimentano con balle di fieno i forni in cui verranno cotte le ceramiche, senza protezione alcuna né per la pelle, né per le vie respiratorie. I ragazzi più giovani e gli anziani, entrambi incredibilmente rassegnati, lavorano l’argilla con dei piccoli torni seduti a mezzo busto sottoterra.
A ridosso della fabbrica, la Kasbah, scavata nella roccia, buia i cui cunicoli stretti e maleodoranti, ospitano le case (tutte senza finestre) delle famiglie di questi malcapitati uomini. I loro figli sono dappertutto.
Giocano sulla terra nuda e cosparsa di cocci, il loro è uno sguardo già adulto, in alcuni è quasi arrabbiato, in altri invece è spento. Sui loro esili corpi le prime deformazioni di quell’aria malsana ed irrespirabile.
Sono sempre loro i primi ad accoglierci, i bambini. Alcuni di loro ci vengono incontro con fare minaccioso sul dorso di un asinello, accerchiano l’auto, ci osservano e con le mani tese ci chiedono le scarpe, gli abiti che indossiamo, toccano la macchina fotografica. Una moneta ed un pugno di caramelle li raggruppa tutti e li fa correre via con in mano la loro conquista.
Ci guardano come se fossimo alieni venuti da un altro pianeta, come se non capissimo nulla della loro vita, sempre uguale giorno dopo giorno. Non hanno pretese, neanche quella di guardare il cielo.
È in luoghi come questo che i Governi, in accordo fra loro per tornaconti economici personali, ospitano, offrono lavoro, collocano le famiglie dei migranti che attraversano il Sahara. In luoghi in cui le condizioni igienico sanitarie, di scolarizzazione, di tutela al lavoro ed alla salute sono pressoché inesistenti già per gli stessi locali.
Allora io mi chiedo, che valore da l’Occidente ad un Tajine da portare a casa come souvenir dopo una vacanza in Nord Africa? Cosa siamo disposti a non vedere per concludere l’affare migliore?
Quanta umanità stiamo sacrificando per abbellire le nostre case, i nostri paesi, ignorando palesemente la realtà amara che ci circonda? Vogliamo un futuro prospero e dignitoso per noi ed i nostri figli ma, ignoriamo scientemente quello degli altri.
Apriamo e chiudiamo le frontiere come se avessimo un diritto sulla vita e sulla morte altrui, complici silenti della disperazione cieca di chi un futuro non ce l’ha ma lo cerca lo stesso, vagando disperso in qualche terra di confine, a poche ore di aereo da noi, a poche miglia di mare da noi.