L’arrivo della stagione delle piogge a Cox’Bazar

di

15 Aprile 2019

Arrivo a Cox’s Bazar dopo due settimane lungo il grande delta del Gange.
L’acqua è – e continua ad essere – la forza e la condanna del Bangladesh.
Acqua piena di arsenico, presente nel sottosuolo e nelle falde. Acqua che scava ed erode la terra, privando interi villaggi e comunità dello spazio fisico dove vivere.

E poi l’allevamento intensivo di gamberetti che ha usurpato il posto alle risaie e fatto ulteriormente impennare il costo della terra. Il problema è l’acqua, acqua e ancora acqua.

Cox è la località balneare del Paese. Spiagge lunghissime, alberghi, un caos di tuctuc, biciclette e pullman sul lungomare polveroso.

Mi trovo qui il 21 Febbraio, mentre il popolo bengalese festeggia l’indipendenza dal Pakistan, ottenuta nel 1971. La costa, le strade, gli alberghi, i ristoranti, le spiagge sono pieni di ragazzi e comitive che scattano selfie e foto di gruppo. Sembra assurdo che a pochi chilometri, sullo stesso mare, si stia consumando l’esodo dei Rohingya.

Al mattino vi viene a prendere una macchina di MOAS, per arrivare ai campi. MOAS è un’organizzazione umanitaria internazionale, fondata nel 2013, che fornisce aiuti e servizi medici d’emergenza a rifugiati e migranti.

Insieme a Dale, che si occupa della raccolta fondi, parto da Cox per raggiungere uno dei campi profughi. La litoranea è una strada come non ne ho mai viste, in Bangladesh: a destra, lingue d’acqua su distese di sabbia, a sinistra le montagne rigogliose nel tripudio della vegetazione tropicale. Cinquanta chilometri di asfalto nero, pulito, vuoto. Silenzioso. Lungo tutta la strada cartelli politici campeggiano definendo il primo ministro Sheikh Hasina: Mother Of Humanity.

La fuga in massa del popolo Rohingya è dovuta ad un insieme intricato di ragioni economiche, geografiche e religiose. Il loro integralismo musulmano è una leva fortissima per le componenti integraliste del Bangladesh ad accoglierli.

Ma 860mila profughi, in un Paese di povertà estrema come il Bangladesh, sono qualcosa di terribilmente complesso da gestire.

Entro nella Aid Station di MOAS presso il campo profughi nato accanto al villaggio di pescatori di Shamlapur; Dale mi mostra i vari settori e i processi interni che si occupano di dare primo soccorso ai 30mila Rohingya del campo profughi e a tutti i cittadini bengalesi del villaggio. C’è un dispensario che rilascia le terapie dopo la visita di dottori che parlano Bengalese e il dialetto Rohingya.

E un punto dove tutti possono attingere all’acqua potabile. Dal settembre 2017, in meno di due mesi, MOAS ha aperto due centri di assistenza, chiamati Aid station, che forniscono cure e medicinali gratuiti ai campi profughi e anche alla popolazione locale.

Mi parlava Regina Catrambone, fondatrice insieme al marito Christopher, di alcuni numeri: dall’apertura a in settembre, le squadre mediche hanno assistito oltre 40mila pazienti, il cui 44% bambini.

“La percentuale di bambini, come quella di donne e ragazze, è altissima e entrambi i gruppi sono i più vulnerabili all’interno della comunità Rohingya. L’imminente arrivo della stagione monsonica con le sue tragiche conseguenze in termini di distruzione e di diffusione di malattie trasmissibili rischia di distruggere l’equilibrio precario finora raggiunto.”

In meno di dieci minuti, un signore anziano con un problemi respiratori viene inviato d’urgenza al vicino ospedale bengalese; una donna, malmenata in viso dal marito, viene medicata al sopracciglio con numerosi punti di sutura; una bambina viene portata di corsa dentro dopo essere stata investita da un carretto e il dottore controlla le risposte neurologiche della bimba che sembra star bene, a parte un certo spavento, mentre fuori il chiasso intorno all’autista diventa sempre più forte.

Il triage è pieno di persone in attesa. Una distesa di burqua e veli si alternano a visi di bambini attaccati alle gambe delle madri: per la gran parte si tratta di asma e febbre, diarrea, e ferite ai piedi e alle mani. Respirano polvere e giocano seminudi e sempre scalzi, a pochi centimetri dagli scarichi e dai liquami.
Mi muovo fra i pazienti in attesa con i modi del caso.

Cerco di avvicinarmi a loro con dolcezza e calma, sono spaventatissimi.
I bambini si ritraggono ogni volta che alzo la macchina fotografica, e in più di una occasione i più piccoli scoppiano a piangere. Le ferite dell’anima si vedono anche in queste manifestazioni.

Il lavoro dei cooperanti prosegue senza sosta, dalle otto del mattino fino a sera, senza fermarsi mai neanche a Natale, mi dirà in seguito Nicola Pierni, che conoscerò il giorno dopo.

L’Aid Station è standardizzata ed efficiente. Ora è il momento di capire il contesto in cui ci troviamo. Chiedo a Dale di accompagnarmi fuori, ci segue anche Rashid, un Rohingya trasferitosi qui con la famiglia molto prima della fuga di massa.

Inizio subito a rendermi conto della realtà. Il campo profughi non è poi molto diverso dal villaggio di Shamlapur: baracche, teli, tende. La povertà è una triste costante che accomuna questi mondi, al punto tale da non distinguerli.

La relazione con lo straniero è drammatica: diffidenza, silenzio, poco contatto visivo. Si vedono pochissimi uomini adulti, ma il viavai laborioso di donne e bambini riempie i vicoli fra un rifugio e un altro. Trasportano legna e acqua.
Una grande tenda all’inizio del campo è stata costruita per ospitare la moschea e la scuola coranica. Si sentono i bambini recitare e ripetere.
Con l’aiuto di Rashid, Dale e io iniziamo a farci spazio e a familiarizzare.

Entro in una tenda e mi ritrovo in un istante in un ambiente caldo e pieno di odori diversi, tre metri per tre in cui vivono due nuclei familiari, di 5 persone ciascuno. La luce filtrata dai teli esterni è rossastra e tinge tutto ciò che vedo di una tonalità cremisi non molto piacevole.

In un angolo una vecchia signora senza velo rimane accovacciata al suolo. Ha l’aria di non sapere bene dove si trova. Il tuffo al cuore che provo è feroce.
Uscendo, alcuni bambini giocano con una shampan di metallo, la barca tipica dei pescatori, con la prua appuntita. Altri giocano con delle trottole. Un gruppetto sta provando a pescare qualcosa. Uno ha in mano un pallone da calcio bianchissimo.

Mi avvicino silenzioso, e finalmente riesco a strappar loro un mezzo sorriso.

l giorno dopo prendiamo il fuoristrada da Shamplapur, e facciamo più di un’ora di cammino nella giungla, attraversiamo le risaie e i campi e affianchiamo diversi templi buddisti. Anche i visi e i lineamenti delle persone che si fermano a guardarci per strada sono non-bengalesi: occhi a mandorla, zigomi piatti, sembrano di discendenza Sino- Tibetana.

Arriviamo nella Aid Station 2 del campo di Unchiprang, dove mi accoglie Nicola, Regional Manager di MOAS, con quel modo sbrigativo e rapido, deciso e sicuro di chi ne ha viste.

Mi dà immediatamente un’idea di quello che succederà da qui a qualche mese. “Hai mai visto una alluvione in Bangladesh?”
Io scuoto il capo. No. “Ecco, non sai cosa sta per succedere.”

Tutta la stazione è in fermento per i preparativi alla stagione delle piogge. Si stanno scavando nuovi tubi di drenaggio, rafforzando le spalle del campo, costruendo delle griglie di bambù per i canali di scolo. E poi ci saranno i pericoli legati alle malattie veicolate dall’acqua, unite alla difficoltà di gestione delle acque nere e dei liquami. Il problema, quindi, sarà ancora l’acqua.

Usciamo dalla AID Station-2 e sotto un sole cocente, accecante, inesorabile, ci avviamo a piedi verso il campo di Unchiprang. Una collinetta mi separa dalla visuale intera dei quello che sto per vedere: superato il dosso mi ritrovo davanti agli occhi una scena indescrivibile.

Tutto il terreno ubertoso è stato scavato, la terra messa a nudo, nei costoni si vedono ancora le vangate tirate per recuperare quanto più spazio possibile. Aggrappate ad ogni centimetro, le capanne e i rifugi si alternano a scale di fortuna costruite con sacchi di plastica riempiti di terra sabbiosa.

Arriviamo davanti ad una stazione di acqua potabile. Un bambino che non ha più di due anni è seduto in pieno sole, nudo, con i capelli impolverati. Nicola si blocca e gli si avvicina. Prova ad aprire il rubinetto, non ne esce neanche una goccia d’acqua. La tank è vuota.

“Di chi è questo bambino? Ha sete e il sole è troppo forte!” Parla in italiano, ma il tono non ammette fraintendimenti. Mi avvicino per fare una carezza al bimbo: scotta per il troppo sole.

Dietro un mucchietto di canne di bambù, spunta un altro bambino, di sette o otto anni, che viene a raccoglierlo e a portarlo all’ombra. Il fratello? Il fratello adottivo? Ci sono trentamila persone nel campo, e circa 700 orfani.

Proseguendo, Nicola mi mostra tutte le criticità del suolo e delle strutture in vista dell’imminente periodo delle piogge. Non c’è più un ramo o una radice a tener fermo il terreno, che si sbriciola anche solo sotto il sole. Ma i Rohingya hanno bisogno di legna per cucinare e costruire ripari.

Questo è il problema più grave. L’arrivo delle piogge è già una situazione complessa per il Bangladesh. In cinque mesi cade quasi l’80% delle piogge totali; e le conseguenze sono disastrose: villaggi travolti, strade allagate, difficoltà di portare soccorso. Senza considerare che l’erosione e gli smottamenti distruggono il territorio, portano via terra e sabbia, e staccano pezzi di costa e di villaggi.

Il problema quindi sarà quando tutto questo si abbatterà sui campi disboscati e terrazzati. La sabbia si trasformerà in fango.
Penso con terrore che la stagione delle piogge è imminente. Parliamo di settimane.

“Sei già stato al Mega-Campo?” Mi chiede. Io scuoto il capo di nuovo.
“Andiamo.”

Pensavo di essere preparato, ormai. Invece no. Arriviamo in fuoristrada al check point della polizia che impedisce l’ingresso ai non autorizzati.
Io, Dale, Nicola e l’autista entriamo usando una strada di sabbia dorata, dopo un
dosso, iniziamo a salire lungo il crinale di una collina alta.

Un nuovo triste spettacolo, in un crescendo di numeri, da Shamlapur e Unchiprang,
e ora questo. Kutupalong. Il Mega-Campo.

Una specie di girone dantesco. Mi viene in mente solo questa definizione per i
terrazzamenti di terra ormai completamente disboscata, e le anime che camminano piano in fondo, sotto il peso di legna e taniche d’acqua, nascoste a tratti da folate di vento e sabbia. Alberi e cespugli non esistono più. Non c’è una sola foglia in tutta l’estensione del campo.

La strada corre sul costone in alto, mentre in basso, terrazza dopo terrazza, si sviluppa un gigantesco assembramento di teli e pannelli di ramoscelli intrecciati. Pochi colori omogenei, l’oro della sabbia che ricopre qualsiasi cosa, il blu dei teli di plastica usati come mura dei rifugi, l’arancio delle latrine.
Tutto sembra un presepe immobile.

Sulla strada sabbiosa dei ragazzini trasportano la legna per cucinare, alcune donne trasportano l’acqua, soprattutto in taniche di plastica, ci sono pochissime kolshi, le brocche d’alluminio.

Più in fondo, fila interminabili di capanne immobili, cosparse di sabbia, i rigagnoli delle acque nere che scorrono verso valle. In totale, in tutti i campi, ci sono quasi 860mila persone. Soprattutto vecchi, donne e bambini.

Il sole tramonta sul mare. Lontano.
Mi sembra di vedere i ragazzi che si scattano selfie alla Festa della Lingua.
Il fuoristrada sobbalza. Sussulta. Si inclina.
Una bambina cammina accanto a noi, si riempie di sabbia, ma non cede il passo.
Cammina ancora. Il silenzio che regna in macchina è assoluto.

Testo e foto di Andrea Simeone