di Davide Lemmi and Marco Simoncelli
22 Luglio 2019
Le proteste attuali, che non hanno mai ceduto alla logica della violenza, portano il peso di un passato irrisolto
Chafia Bouabdallah apre l’armadio. All’interno c’è un santuario di vestiti inamidati e trattati con cura, nonostante mostrino ormai i segni del tempo. Dalla finestra dell’appartamento della periferia di Algeri una serie di blindati della polizia sfilano sulla route du Frais Vallos.
Chafia tiene in mano una vecchia lettera, riesumata da un piccolo scompartimento del mobile. “La mia lotta continuerà fino alla fine. Ritroverò la tua tomba.” Il figlio dell’anziana è uno degli 8mila, secondo le autorità, 100mila secondo le associazioni, scomparsi della guerra civile algerina. “Ogni giorno racconterò cos’è successo durante questi lunghi anni. La tua storia, e quella di tutti i dispersi, rimarrà incisa nella memoria del nostro Paese. Tua madre, che non ti ha mai abbandonato, né dimenticato”.
L’area del Cité CNEP, dove vive Chafia, è costituita da blocchi di abitazioni in cemento. Da questi sobborghi economicamente depressi nasce la protesta che dal2 2 febbraio 2019 anima l’Algeria. La scintilla delle manifestazioni è stata la ricandidatura per il quinto mandato di fila dell’ormai ex Presidente Abdelaziz Bouteflika, simbolo di una classe politica considerata dagli attivisti corrotta e autoreferenziale.
Settimana dopo settimana, il movimento è cresciuto, attirando categorie di lavoratori, pensionati e studenti. I vertici algerini hanno provato a sgonfiare le manifestazioni: prima con promesse economiche, poi con il ritiro della candidatura di Bouteflika, e le dimissioni dello stesso, gli arresti di numerosi esponenti della vita politica ed economica del Paese e infine indicendo nuove elezioni per il 4 luglio, poi rinviate. Ma ciò che aveva funzionato nel 2011 e nel 2014, quando focolai di protesta sulla scia delle primavere arabe erano scoppiati anche in Algeria, oggi non ha attecchito.
Le condizioni economiche del Paese appaiono infatti strutturalmente critiche. Gli introiti derivanti dagli idrocarburi, che rappresentano il 95% delle esportazioni, hanno subito un duro colpo dopo la caduta del prezzo del petrolio nel periodo 2014/16, mentre le politiche di diversificazione economica hanno fallito. La spesa pubblica, mantenuta alta ad hoc per non provocare uno shock sociale, ha costretto il Paese ad attecchire dalle riserve di valuta estera, in estinzione nel 2022 mantenendo questo ritmo, stando ai dati dell’FMI. L’inflazione nel 2019 è al 6,7%, 2,8% in più rispetto al 2013, mentre il reddito pro capite medio è passato da 5400 dollari annui nel 2013 a 3960 dollari nel 2018.
Ci sono poi le ragioni politiche, l’Algeria è infatti al 105esimo posto su 180 nella valutazione della corruzione, delineando un clientelismo endemico. Ma al di là dei fattori strutturali, il Paese è testimone di una storia di sangue mai affrontata. Una sottile linea tra le proteste odierne e il passato.
È un primaverile martedì piovoso ad Algeri. E come tutti i martedì dal 1998, Chafia si prepara per scendere in piazza. Il cartellone con la foto del figlio scomparso nel 1997 la accompagna. “Il nostro Paese ha vissuto, tra il 1992 e il 1998, un periodo terribile.”
Omar Belhouchet è il Direttore di El Watan, uno dei principali giornali di opposizione algerini, “Ci sono stati quasi 100mila morti. Io stesso sono sfuggito ad un attentato in prima persona”. Il responsabile del quotidiano fa riferimento agli anni della guerra civile. Nel 1991, alle prime elezioni multipartitiche, si impose il partito islamista del Fronte Islamico di Salvezza. L’esercito organizzò e attuò un golpe, proclamando lo stato di emergenza. Dopo lo scioglimento forzato del FIS, nel marzo del 1992, si generò un’ala armata, il Gruppo Islamico Armato, che avrebbe condotto una guerra civile clandestina contro qualsiasi istituzione del Paese. Gli scontri e gli attentati, nel solo primo anno di conflitto, causarono la morte di circa 15mila civili.
“I militari a partire dal 1995 hanno cominciato a negoziare con i gruppi armati perché la violenza aveva raggiunto dei livelli eccezionali,” ancora Omar, “Nel 1994 sulle montagne c’erano quasi 50mila giovani armati che facevano parte dei gruppi terroristici. Un vero e proprio esercito in clandestinità”. La svolta nella “pacificazione” del Paese, è avvenuta nel 1999, quando Abdelaziz Bouteflika ha conquistato il potere e ha proclamato un referendum per la riconciliazione nazionale. “I crimini sono stati cancellati, l’amnistia ha reintegrato i terroristi che volevano abbandonare le armi. Non è stato organizzato alcun processo.”, racconta il Direttore di El Watan, contestualizzando i fatti.
Per chiudere definitivamente la pagina della guerra civile, nel 2005, il Governo organizzò un secondo referendum. La “Carta per la pace e la riconciliazione nazionale” fu approvata con il 97% dei voti e prevedeva nuove disposizioni di grazia per i terroristi, indennizzi ai familiari dei terroristi morti, riparazioni alle famiglie degli scomparsi e la completa amnistia per le forze di sicurezza che commisero abusi.
Furono inoltre disposte pene fino a 5 anni di reclusione per chi avesse criticato la legge, reo di ledere l’immagine dello Stato. “La carta ci ha vietato di rivolgerci alla giustizia”, Nassera Dutour è la Presidente dell’associazione SOS disparu, che da più di 20 anni cerca di trovare la verità sulle migliaia di scomparsi durante gli anni ’90. “La legge ci è stata imposta. Non è stata una vera votazione”, continua Nassera, concludendo, “Non penso siano solo l’esercito e i servizi i responsabili di ciò che è avvenuto, ma tutto il corpo costituente dello Stato è colpevole”.
Il quartiere di El Biar si affaccia sul Golfo di Algeri. Nella pancia di un condominio, gli uffici di un’associazione ospitano decine di studenti intenti a preparare i cartelli per la protesta dell’indomani. Hania Chebane, attivista e studentessa, è tra di loro, “Ajouad è un movimento, creato nel 2011, che lotta per non dimenticare le vittime del terrorismo”. Nel 1996, quando Hania aveva 3 anni, gli islamisti in un agguato uccisero suo padre. “Ricordo che uscì di casa per andare a cambiarmi le scarpe”, continua l’attivista, “Con cinque pallottole hanno stabilito che avevano il diritto di prendersi una vita. È stata una cosa banale che facevano sempre”. La madre di Hania si è trovata a 23 anni sola, con una figlia, in piena guerra civile, senza lavoro, senza casa. “La riconciliazione Nazionale è stata una doppia ingiustizia”, ancora la studentessa algerina, “Un tradimento alle famiglie delle vittime”.
Gli spettri della guerra civile continuano ad infestare il Paese. Ne è convinto anche Omar Belhouchet, “Il conflitto intestino, la legge di riconciliazione e il post pacificazione sono stati periodi vissuti dolorosamente. Un’esperienza che ha lasciato inevitabilmente delle tracce”. Le strade e gli spazi pubblici di Algeri di notte sono vuoti. Nel centro storico i bar sono chiusi, mentre i pochi passanti si affrettano a raggiungere le proprie mete. La città sembra avere la sindrome del coprifuoco. “Dicevano di non fare troppa politica, che l’instabilità altrimenti sarebbe tornata. È un periodo che il potere ha strumentalizzato per gestire il Paese”, continua Omar Belhouchet. Il destino di questa classe politica ed economica criticata dalle piazze è legato alla stessa carta per la riconciliazione, in quanto promotrice, guardiana e colonna portante.
Salendo il Golfo, a poche centinaia di metri dal memoriale per i martiri della guerra d’indipendenza e proprio di fronte agli uffici del Ministero degli Esteri, c’è il quartiere di Les Annasser. In uno dei blocchi abita Zahra Boucherf, anche lei madre di uno scomparso. “È dal 25 luglio 1995, quando mio figlio venne arrestato mentre andava a comprarmi dei bottoni, che busso a tutte le porte senza ricevere risposta”, la sarta mostra con orgoglio le foto dell’allora figlio 21enne.
La carta di riconciliazione prevede anche degli indennizzi per le famiglie degli scomparsi, ma solo se questi accettano di firmare un certificato di morte del proprio caro. “Non abbiamo bisogno di soldi”, continua la donna, concludendo, “Questa pagina di storia deve essere letta e deve rimanere impressa nella memoria dell’Algeria”. Per fare ciò, anche Zahra, come Chafia, partecipa dal 1998 alle manifestazioni dei parenti degli scomparsi.
“La cicatrice è là. Le persone non hanno dimenticato”, Khelifa Kheniche vive in una città satellite a sud di Algeri. La città dove suo padre è stato sindaco. “L’area era famosa per i terroristi”, con 17 colpi di AK-47 due islamisti hanno posto fine alla sua vita. “È successo il 25 febbraio 1993, non potrò mai dimenticare quel momento”, Khelika era un ragazzino quando è stato testimone diretto dell’omicidio di suo padre. “La ferita non si è rimarginata”, continua l’uomo, “Io per esempio non ho mai votato in 41 anni di vita. Che senso avrebbe votare per un clan che è fine a se stesso”. Anche Khelifa, come tutti, si sente tradito dal modo con cui si è arrivati ad una riconciliazione, “Ci sarà concordia solo a certe condizioni. In un futuro dovremmo metterci ad un tavolo, con tutte le categorie rappresentate, per arrivare ad un accordo”.
Ma nonostante la rabbia e le ingiustizie vissute nei 20 anni delle gestione Boutlefika, non solo riguardanti la riconciliazione, il movimento esploso a febbraio 2019 non è caduto nella trappola della violenza. Negli oltre sei mesi di proteste, sono infatti pochi i casi di scontri tra polizia e manifestanti.
“Oggi la paura è scomparsa. Abbiamo preso coscienza dei nostri diritti. Siamo un popolo liberato”, Omar Belhouchet è raggiante parlando di ciò che sta avvenendo nel Paese, “Ringrazio Dio per avermi permesso di vivere questo momento a 65 anni”.
Il Direttore di El Watan è sicuro che il percorso intrapreso il 22 febbraio sia irreversibile. “La buona riuscita di tutto questo fermento dipenderà molto da quanto riusciremo ad essere inclusivi e compatti.”, ancora Omar, che conclude, “La prossima tappa politica dovrà inevitabilmente aprire tutti quei dossier-tabù legati al passato e in particolare ai desaparecidos e alle vittime del terrorismo”.
Una nuova fase è forse già all’orizzonte. Il Presidente ad interim Bensalah ha infatti spinto per l’istituzione di un tavolo volto al dialogo tra le parti. Un modo per porre fine alla crisi politica e traghettare il Paese verso nuove elezioni. La proposta è stata accolta positivamente da molti dei partiti di opposizione, che hanno però insistito perché la piattaforma venga gestita da personalità provenienti dalla società civile.