testi di Federica Tourn, fotografie di Stefano Stranges
A Lesbo la situazione è a un punto di rottura, c’è il rischio di una pandemia e la violenza è senza controllo. I fascisti hanno preso il controllo della frontiera, intimidendo, picchiando e sfasciando macchine delle ong e giornalisti. A grandi linee, questo è quello che abbiamo visto:
– tende lacere da campeggio in cui vivono anche 8-10 persone, strutture di cartongesso che marciscono, bagni insufficienti e sudici all’inverosimile senza acqua corrente, una sola fontana dove l’acqua arriva solo la sera per mezzora, coperte piene di scarafaggi, spazzatura ovunque, bambini sporchi senza sorveglianza, bambini e adulti vestiti in modo insufficiente e con la scabbia; minori non accompagnati che escono dal settore a loro destinato senza controllo;
– praticamente ogni notte ci sono risse all’interno del campo (anche all’interno dell’hot spot) e dall’inizio dell’anno ci sono stati almeno 4 morti e diversi feriti gravi (io stessa ho visto un ragazzo con uno squarcio nel collo); abbiamo assistito al funerale di un ragazzo congolese morto in seguito ad un accoltellamento;
– il centro medico non ha medicinali e la situazione sanitaria è così al limite che persino Msf ha denunciato il governo greco di stare trascurando deliberatamente almeno 140 bambini con malattie croniche e potenzialmente mortali; alle file per i pasti ci sono 3500 persone, spesso si verificano incidenti e non c’è mai cibo e acqua per tutti;
– nel campo si vende droga (ho visto io con i miei occhi persone sotto l’effetto degli stupefacenti), ci sono suicidi, atti di autolesionismo (un ragazzo siriano con l’epilessia si è fatto tagli nel braccio perché i medici non gli davano retta);
– la nuova legge sull’immigrazione entrata in vigore il 1° gennaio ha ulteriormente limitato e complicato la richiesta di asilo, con il risultato che moltissimi si vedono respingere la domanda senza neanche aver capito come fare appello; inoltre sono cominciati i trasferimenti in Turchia (ogni venerdì partono gruppi di migranti verso Atene e poi Istanbul) come da accordi con l’Europa del 2016. Un ragazzo siriano ieri ha tentato il suicidio nel posto di polizia pur di non farsi rimpatriare;
– la polizia ha represso con i gas una manifestazione pacifica guidata da donne e bambini (c’eravamo); come rappresaglia nelle ore seguenti hanno tolto acqua e cibo al campo e ci sono stati raid fascisti di isolani in cui sono stati picchiati diversi migranti e anche un’attivista italo marocchina.
Il campo di Moria è un inferno in cui nessuno vuole mettere le mani, tanto meno il governo greco, che progetta barriere in mare e nuove prigioni sulle isole. La stessa giungla di Calais non aveva superato gli 8mila migranti, qui ce ne sono 20mila in condizioni spaventose (anche neonati malati) in un campo pensato per 2500, costretti a vivere senza i più elementari diritti per mesi, alcuni per anni. Aggiungo che queste cose avvengono non solo nella ‘giungla’ ma anche nell’hot spot, in cui siamo riusciti ad entrare di nascosto attraverso dei buchi nella recinzione esterna.
Fotoracconto
L’hot spot, pensato per meno di tremila persone, è esploso come una scatola di tonno andato a male. Ventimila persone occupano le colline di Moria, a Lesbo, mentre il governo si affanna a varare misure ancora più restrittive nel tentativo di scoraggiare nuovi arrivi. Dighe galleggianti, centri chiusi nel centro dell’isola o nel nord della Grecia, deportazioni coatte in ottemperanza allo scellerato patto che l’Europa ha firmato con la Turchia nel 2016. Donne, bambini, anziani, malati sono ammassati a decine sotto tende gelide, immerse nel fango e nella spazzatura, senza luce e acqua corrente. Il cibo non basta per tutti e spesso è andato a male: le uova si sfarinano nella mano, i fagioli sono pieni di vermi. L’assistenza sanitaria, poi, è gravemente carente ed ora si teme anche lo spettro Coronavirus: a Mytilene, nel capoluogo, il 9 marzo si è registrata la prima persona ricoverata in terapia intensiva per Covid-19.
“Mio fratello è una testa calda, ingestibile come tutti i ragazzi della sua età ma non devo farmi togliere la custodia o rischia di venire ammazzato”. Fatima, 24 anni, era una ginnasta professionista, oggi a Lesbo la sua preoccupazione principale è tenere il fratello adolescente fuori dai guai. Sono arrivati da soli dall’Afghanistan e lei come maggiorenne è considerata la capofamiglia: “Moria è un posto terribile – racconta – ieri c’è stata una rissa proprio davanti alla mia tenda, la strada era piena di sangue”. Ogni giorno è un incubo, assicura, in particolare nel Settore A, quello dei minori non accompagnati: “Quando siamo arrivati al campo, un diciassettenne era appena stato ucciso». Il Settore A, la “zona protetta” dei minorenni, è in realtà un colabrodo in cui entra di tutto: droghe, alcol, adulti violenti.
Dal 1° marzo si registra un ulteriore giro di vite del governo greco nei confronti dei rifugiati. Nessuno potrà fare richiesta d’asilo e chi arriva illegalmente verrà immediatamente deportato in un centro chiuso nel nord del paese. La Convenzione di Ginevra è carta straccia, dimenticata la Dichiarazione universale dei diritti umani. I migranti che sono sbarcati, fradici e impauriti, sulle spiagge sassose vicine a Mytilene, si sono accampati sotto gli ulivi, con il vento che fischiava forte, la paura di essere aggrediti dalle bande di estrema destra che si aggirano per l’isola – l’Europa non è quello che avevano immaginato.
Si sono rimessi in mare appena hanno saputo che Erdogan apriva le frontiere, a fine febbraio, ma l’accoglienza è stata terribile. La Guardia Costiera ha cercato di allontanarli a colpi di bastone, sparando pallottole di gomma mentre ancora oscillavano paurosamente fra le onde e ora i militari li indirizzano a forza nella pancia di una nave pronta a salpare, fra grida incomprensibili in lingua straniera, in un paese che non li vuole, verso una destinazione sconosciuta. Al porto gente ben vestita e sorda al pianto dei bambini infreddoliti non li lascia sbarcare: girano in tondo per ore a pochi metri dalla riva. «L’Europa – mi dice un siriano di Deir El Zor – è la cosa peggiore che ci potesse capitare».
Gli afgani di Moria manifestavano gridando “libertà” e protestando per le condizioni disumane nel campo. Era una mattina di sole d’inizio febbraio, lungo la strada per Mytilene l’aria di mare sapeva di primavera. In testa al corteo c’erano le donne con i bambini, dietro seguivano i ragazzi e gli uomini, pacifici, tranquilli, forti delle loro rivendicazioni: sicurezza, igiene, assistenza medica. Volevano essere ascoltati dalle autorità che li aveva cacciati in quel limbo senza una data di scadenza. Alla prima curva hanno incontrato lo sbarramento della polizia in tenuta antisommossa, che li ha respinti violentemente lanciando gas urticanti. La folla ha avuto un momento di sbandamento ma presto il serpente si è ricomposto in una lunga fila che tentava, gli occhi rossi, le ciabatte ai piedi e i più piccoli in spalla, di raggiungere il capoluogo attraverso le colline. Gli agenti sono arrivati anche lì, con manganelli e lacrimogeni, incuranti dei feriti, delle donne in difficoltà, dei bambini spaventati.
Pensavamo di aver visto il peggio e invece era soltanto l’inizio; di lì a pochi giorni sarebbero arrivati i rinforzi delle bande fasciste a terrorizzare migranti e operatori umanitari.
R. viene dalla Siria ed è bloccato a Lesbo da quattro anni, in questa prigione con le mura liquide ma invalicabili da cui non si può evadere. Anche suo fratello è qui, ma lui è in un carcere vero, in attesa di giudizio. Erano su un gommone quando li ha fermati la Guardia Costiera: il fratello di R. era casualmente alla guida, lui che non aveva mai visto l’acqua, ed è stato arrestato con l’accusa di essere un trafficante. In carcere, racconta R., l’hanno imbottito di psicofarmaci: «Sembra un automa, è catatonico, se non lo rilasciano morirà». R. al campo è un veterano, fa di tutto per gli altri; per noi ha cucinato i fegatini di pollo mentre scherzava con quel misto di arabo, greco e francese che conosce. Un giorno, senza preavviso, ha attaccato una corda ad un ulivo. L’hanno salvato per miracolo. Appena uscito dal posto di polizia dove l’avevano portato, si è gettato in mare: la sorte del fratello non gli dà pace. Ora, dopo tante lotte, ha ottenuto il permesso di asilo, una ragione forse per resistere. Tante risorse ha la disperazione, tante ne ha la speranza.
Mi arriva un messaggio dal campo di Moria: «Da ieri c’è una tempesta, ancora in corso ora, che ha causato danni a tantissime tende. Non c’è riscaldamento, non c’è niente. Qui è il vero inferno di cui avevo già letto nei libri ma non avevo mai visto prima; ora lo sto vedendo con i miei occhi e noi ci affondiamo dentro sempre di più». Waled, 36 anni, agronomo, dall’Afghanistan. A Moria dal 5 settembre 2019 con la moglie, un figlio di 12 anni e una bimba di 6.
C’è soltanto una fontana per l’accampamento esterno e l’acqua arriva la sera per una mezzora. Le donne scendono e risalgono le colline per riempire le bottiglie ma non basta mai per tutti; anche lavare un piatto, due tazze, è complicato a Moria. Quando cala il tramonto, poi, ci si chiude dentro le tende, aspettando in silenzio il mattino, gli occhi spalancati al buio. Andare a cercare un bagno è impossibile da sole, meglio rinunciare: tante, troppe sono state aggredite in fila davanti ai pericolanti e sudici wc, molte stuprate, sfregiate, picchiate. «Meglio stare male», mi dice F., lo sguardo basso per l’imbarazzo.