Libano, aspettando domani

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14 Febbraio 2020

All’indomani della fiducia al nuovo esecutivo, la protesta è un movimento carsico, iniziato anni fa, insito nel sistema del paese, ma che ha bisogno di tempo per realizzarsi

La tempesta Karim stringe Beirut. Nuvole nere, cariche di pioggia, minacciano la città. Una perfetta metafora dello stato d’animo di un Libano in attesa.

La giornata di martedì 11 febbraio è stata una di quelle importanti per decidere il futuro del Paese. Dentro il Parlamento si votava la fiducia al nuovo Governo, fuori ancora una volta c’erano i manifestanti, a protestare e a scontrarsi con la polizia in diverse aree della città.

“Ci aspettavamo l’esercito in strada. Normalmente, in passato, non sono intervenuti, ma questa volta erano presenti”, Hanadi è una ragazza di Beirut, originaria della valle della Beqa’, l’altopiano ad est della capitale, e partecipa alle manifestazioni fin dall’inizio. “La situazione di martedì è stata confusa. Eravamo in molti in strada. Abbiamo tentato di bloccare gli accessi al Parlamento per impedire ai membri di raggiungere il voto e quindi il numero legale, ma già intorno alle 10:30 è arrivata la notizia dei 65 presenti e quindi dell’avvio a procedere”.

All’ombra della moschea Al Amin di Beirut un altro attivista si inserisce nella discussione, puntando il dito contro l’uso della forza da parte della polizia: “Usano pallottole di gomma, ma le sparano ad altezza occhi. Hanno fatto molte cose di questo genere sin dall’inizio della protesta”.

Tarek è un ragazzo originario del sud del Libano, di Nabatieh, area a forte prevalenza sciita e bacino di voti per Hezbollah e Amal. Protestare lì è ancora più pericoloso. “Centinaia di persone sono state arrestate. Anch’io sono stato arrestato il 19 novembre. Siamo stati umiliati e ci hanno malmenati”, conclude il 20enne libanese.

Il presidio della Saura, la rivoluzione libanese come viene chiamata da coloro che vi partecipano, è a piazza dei martiri. Zona centrale di Beirut. L’area è un fulcro di simboli.

La moschea Mohamed Al Amin, la cattedrale Saint-George, alcuni degli edifici più iconici della guerra civile e i nuovi complessi residenziali si guardano a poche centinaia di metri di distanza.

Nella stessa zona, le manifestazioni, iniziate il 17 ottobre 2019, a causa dell’incapacità del Governo di Saad Hariri di far fronte alla crisi economica, si sono gonfiate. La piazza e le strade che la circondano sono state testimoni di un flusso di persone che il 20 ottobre 2019 ha sfondato il milione di partecipanti.

Ma oggi il clima è diverso. Se il presidio di piazza dei martiri resiste, con numeri comunque molto inferiori, organizzando eventi, concerti e dibattiti, non manca l’autocritica.

La coesione sociale, cavallo di battaglia delle proteste fin dall’inizio, è diventata una specie boomerang sugli stessi manifestanti. Se infatti la spinta iniziale vive un momento di evidente transizione, il rischio, ancora di più dopo il voto di martedì incassato dall’esecutivo, è che si perda a causa dell’incapacità di capire i bisogni l’uno dell’altro e di farne una sintesi.

Beirut non è il Libano, anche se ne è il centro geografico ed economico. Le differenze all’interno dello stesso Paese sono molto forti e le necessità dei manifestanti eterogenee, come lo è lo stesso movimento.

A riprova di questo, basta guidare in direzione Tripoli: seconda città del Libano, bacino di voti dell’ex Premier Hariri e a maggioranza sunnita. Ad appena 80 chilometri a Nord della capitale, superate le enclavi cristiane maronite di Jounieh e Byblos, continuando sull’autostrada costiera, la città svela la sua fisionomia fatta di palazzoni, celando all’interno il suo cuore più storico e affascinante.

Anche qua, come a Beirut, le tracce della Saura si esprimono con creatività. Murales enormi e colorati raccontano una piazza che non si vuole arrendere. Adagiata su una delle regioni più depresse economicamente del Libano, Tripoli ha visto nell’ultimo anno un forte aumento della povertà. Nel 2017 il dato recitava 53% di disoccupati, oggi, secondo gli ultimi numeri, si tocca quota 60%. Uno dei molti fattori che ha spinto migliaia di persone a scendere in piazza.

Se la crisi è generalizzata in tutto il Libano, due fasce sociali in particolare, e in modi diversi, ne sono le vittime principali. I poveri faticano a reperire cibo e medicinali. La classe media, che a Beirut è più numerosa, ha invece visto prima bloccare i conti correnti, poi eroderne il valore.

La mattina davanti ai pochi bancomat ancora intatti, file di persone si accalcano per ritirare in dollari. Nessuno si fida più della moneta locale, che ha perso nel corso degli ultimi mesi il 60% del suo valore.

Nasce così una doppia economia. Il tasso ufficiale rimane fisso: 1 dollaro equivale a 1500 lire, ma sul mercato nero il valore è di circa 2200 lire. Una fluttuazione ingestibile da parte della Banca Centrale, che non ha veri strumenti per contenerla, e che si limita a chiedere un tetto massimo ai vari trader di strada.

La prossima mossa potrebbe essere quella di portare ufficialmente il cambio a 2mila lire, salutando così almeno il 25% del valore dei conti correnti. A tutto ciò va aggiunto il blocco dei prelievi a 200 dollari ogni due settimane, variabile a secondo dell’istituto bancario. Un problema di vita reale. Qua gli affitti, i soldi ai figli che studiano all’estero e in generale le transazioni economiche, si pagano in dollari. Nelle strade e negli uffici, la sfiducia è ormai tangibile. Un punto su cui il nuovo Governo a guida Hassan Diab dovrà per forza fare i conti.

“Ciò che possiamo prelevare non è abbastanza per pagare gli affitti o i prestiti”, continua Hanadi, aggiungendo, “Anche i negozianti non riescono più a comprare prodotti importati o, se riescono, i prezzi sono talmente alti che è difficile poterseli permettere”. Anche George, che gestisce un parcheggio nel quartiere di Badaro, ci conferma la profondità della crisi, “Pago 6mila dollari di affitto mensili per l’attività. Non riesco più a sostenere le spesi dell’università dei miei figli”.

Ma nel Paese l’ingranaggio ancora non si arresta. Mentre si cammina nel distretto di Mar Mikael, tra bar, feste e siriani stesi lungo i marciapiedi a chiedere l’elemosina, il cielo è ancora occupato dalle gru. Simbolo della speculazione edilizia e del sistema Libano.

L’unica categoria che non sembra essere stata colpita dalla crisi è quella dei ricchi e dei super ricchi. Nelle due settimane di chiusura delle banche, secondo le testate locali, oltre 10 miliardi di dollari sono fuoriusciti. A pensare male, la prova che molti, o meglio, i correntisti più facoltosi abbiano già abbandonato la barca. Un’anomalia che non ha fatto che aumentare la frustrazione nei confronti di un sistema malato e che oggi non può più prescindere da un aiuto economico internazionale.

Intanto una piccola svolta a livello politico c’è già stata, anche se, a giudicare dalle proteste di martedì, non ha scaldato i cuori della piazza.

Il nuovo Governo, a differenza dell’ultimo esecutivo Hariri di unità nazionale, si poggia su una maggioranza specifica, di cui fanno parte, tra gli altri, il Movimento Patriottico Libero del Presidente Micheal Aoun, Amal e Hezbollah. Se il Governo Saad Hariri voleva comunicare comunione di intenti, sbugiardato poi nei fatti dall’immobilità, Hassan Diab sembra voler interpretare l’uomo che risolve il caso.

Per capirne di più, bisogna vedere cosa è stato il voto di martedì: un passo obbligatorio per recuperare i soldi necessari a dare respiro alle importazioni, a pagare gli stipendi pubblici e dei militari, e a sistemare situazioni particolarmente gravi, come la mancanza di medicinali in alcune aree del Paese.

Il tutto mentre si avvicina la scadenza del 9 marzo sul pagamento di 1,2 miliardi di dollari di eurobond. Detto in parole semplici: un debito che se non verrà onorato, porterà direttamente all’insolvibilità.

Si guarda così ai partner internazionali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Unione Europea e chiunque possa scongiurare una bancarotta, che nei fatti serpeggia già tra gli appartamenti, nelle strade e nelle piazze, ma che potrebbe peggiorare ulteriormente. Infatti qualora non arrivassero gli aiuti, le incognite sul futuro del Libano sarebbero grigie come le nuvole della tempesta Karim.

Ma non è scontato che l’eventuale prestito possa portare ad ulteriori conseguenze. Il cordone tra manifestazioni e crisi economica è solido e direttamente proporzionale. La piazza si gonfia di speranze e di necessità, due ingredienti paralleli e antropologicamente necessari.

Allo stesso modo avviene il contrario. Non è detto che un piano di ristrutturazione economica, necessaria per accedere agli eventuali aiuti, non possa essere la ragione di nuove proteste. Se si escludono i super ricchi, probabilmente già fuori dal Paese, chi dovrebbe pagare i debiti e/o essere tagliato a causa di un’eventuale ristrutturazione sono proprio coloro che compongono quella classe sociale capace di non fare sprofondare le nuove generazioni nell’indigenza. Le reti sociali seppur deboli ci sono ancora. Ma l’indebitamento privato è un macigno sulle spalle che, nel caso di un peggioramento, diverrebbe insostenibile.

E se da una parte qualcosa in Libano è già cambiato: le paure di un passato enorme e pesante, ovvero della guerra civile, non hanno infatti evitato manifestazioni eterogenee e orizzontali, la società ha comunque mostrato tutte le sue peculiarità.

Il Libano è un arcobaleno di idee, frutto di sedimenti storici lunghi decine d’anni. Nel piccolo Paese levantino esistono ancora in grandi quantità gruppi legati a logiche clanistiche, familiari e partitiche. Un fatto che non può essere spazzato via nell’arco di pochi mesi. La Saura è così un movimento carsico, iniziato anni fa, insito nel sistema sociale, politico ed economico del Libano, ma che ha bisogno di tempo per realizzarsi. La forma finale è ancora da scrivere.

foto di copertina di Marco Simoncelli