8 Settembre 2021
La terza puntata del reportage di Martina Ferlisi, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo
La terza puntata del reportage di Martina Ferlisi, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo
In Valtellina, nei primi decenni del ‘900, vengono poste le basi di quello che diventerà uno dei più grandi complessi sanatoriali d’Europa, specializzato nella cura della tubercolosi ma soprattutto segno di un diritto universale alla salute perseguito con determinazione da medici e architetti, convinti della necessità di strutture ospedaliere radicate nel territorio, funzionali e accessibili a tutti. Cosa resta di quella visione in tempi segnati da una nuova pandemia e dal bisogno fondamentale di cure? ll Villaggio Morelli di Martina Ferlisi è uno dei due reportage scelti a Festivaletteratura 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppati a puntate sul sito del Festival e qui. La prima puntata si addentra nella storia del sanatorio e nelle sue architetture, attingendo anche alle fonti conservate presso il Museo dei Sanatori di Sondalo.
3 puntata.
di Martina Ferlisi
Sfoglio le pagine sottili di una delle mie riviste settimanali preferite. Subito dopo l’indice mi ritrovo a leggere in grande e in rosso la parola ISOLAMENTO. In una paginetta, in sole due colonne e tutto sommato in ben poche righe si tenta di contenere il significato di una delle parole che abbiamo ripetuto e ci siamo sentiti ripetere più volte in questi ultimi mesi. Tenta, perché le parole non si possono contenere, è impossibile riuscirci e infatti il lemma è sempre affidato al commento di una grande firma della lingua italiana: uno scrittore o un giornalista che ha imparato a nuotare nell’oceano delle infinite possibilità delle parole. “Isolati per preservarci, isolati per non contagiare. Fascinosa e perversa ambiguità: l’isolamento separa i detenuti (e un tempo i matti) come ogni materiale a rischio, dai cavi elettrici alle zone di soglia, ma aiuta gli artisti a osare, i saggi a riflettere, i mistici a pregare. Quarantena o espansione dell’anima”. La scrittrice Elvira Seminara scrive così e io comincio a interrogarmi sulla complessità della parola e dell’esperienza dell’isolamento che ho vissuto per la prima volta in tempi non sospetti. Era infatti il 2015 quando sono stata ricoverata all’ospedale Eugenio Morelli di Sondalo per una reazione allergica alla Rinfampicina, il farmaco più usato oggi per la cura della tubercolosi. Era una giornata di inizio luglio carica di pioggia, quando mi è stata assegnata una stanza al Morelli. Sdraiandomi sul letto, dal riflesso della finestra aperta, ho intravisto una sagoma nera, una montagna imponente e appuntita. Me lo ricordo bene, ho girato il corpo dall’altro lato dandogli le spalle. La prima cosa che ho pensato è stata: qui sono isolata dal resto del mondo.
Isolata nello spazio, perché lontana da casa e a più di mille metri d’altezza, isolata nel tempo perché “nessuno trascorre meno di due settimane a Sondalo” mi ha rivelato l’infermiera che mi ha accolta e a cui ingenuamente avevo chiesto se avrei fatto in tempo a festeggiare il mio compleanno giù. Perché il tempo lassù non è più quello lineare a cui si è abituati e che scandisce le nostre giornate, ma è dilatato, sfumato, confuso, strano tanto che a Sondalo ho trascorso solo un mese ma alle volte mi sembra di averci passato un solo lungo giorno e alle volte un anno o forse più. Un tempo bloccato in un’epoca passata, in un letto in ferro che si regola girando una manovella, in un tavolino azzurro degli anni settanta, in un ex sanatorio la cui costruzione risale agli anni Trenta del Novecento.
Io e Viola
Io e Viola non ci siamo mai incontrate di persona. Come è capitato a molti ultimamente, ci siamo “conosciute” come un volto su Zoom e poi sentite al telefono. Non so quanto sia alta, se i suoi capelli hanno riflessi rossi o castani, quale sia il colore dei suoi occhi. Mi piace immaginarli chiari forse verdi, ma forse invece sono marroni. Non so neppure che corporatura abbia. Lei stessa mi dice che il suo metabolismo, dopo le cure, “fa le bizze”. Le fa brutti scherzi e nessuno le ha mai spiegato il perché, ma alcuni anni arriva a pesare molti chili in più e alcuni anni molti in meno, capita così. Io e Viola non ci siamo mai viste ma al telefono ci chiediamo come è andato il lockdown, come lo abbiamo vissuto questo “tempo sospeso”. Non è una domanda casuale dettata dai tempi che corrono. L’esperienza dell’isolamento a Sondalo ci accomuna e fa sì che io possa riconoscere qualcosa di me nelle sue parole, anche se le nostre storie sono molto diverse. “Hanno deciso di ricoverarmi direttamente su a Sondalo proprio per non farmi fare la vita della reclusa a 12 anni”, mi dice Viola e se io non avessi sperimentato in prima persona cosa significa essere ricoverati a Sondalo probabilmente avrei frainteso le sue parole. Ammalarsi di tbc, come di qualunque altra malattia infettiva, per prima cosa significa questo: rinunciare a qualsiasi contatto con gli altri, isolarsi per proteggere chi ci sta accanto, che sia a casa propria, nel reparto delle malattie infettive dell’ospedale della città in cui si vive o all’ospedale Eugenio Morelli. Eppure Viola parla di Sondalo come di una scelta per evitare la reclusione. “La mia esperienza su al Morelli è stata meravigliosa” aggiunge poi. “C’era ancora la biblioteca, volendo potevi chiedere le chiavi, c’era il parco dove potevi fare un sacco di passeggiate, c’erano ancora anche i negozietti alle rotonde che adesso sono chiusi e c’era soprattutto una dimensione sociale così forte che forse per questo l’ho patito meno, l’isolamento. Ho ancora dei legami molto forti a Sondalo. Restando dei mesi si creano della relazioni che poi tornando alla propria vita diventano una cosa diversa, però in quel momento sono veramente forti. Lassù assaggi veramente cos’è il gruppo”.
La nostra conversazione è costellata di su e giù. Si sale e si scende da Sondalo. Si parte e si torna alla vita di quelli che stanno sotto, “l’esercito degli eletti”, li definisce Virginia Woolf che scrive: “appena ci comandano il letto smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eletti; diventiamo disertori”. Disertori sradicati dalla propria collettività di riferimento e forse anche dall’idea che si ha di sé stessi, ma non per questo soli. Parlando con Viola, inizio a pensare che isolamento e solitudine non coincidono nel Villaggio Morelli. Le prime parole che mi riporta Viola della sua permanenza a Sondalo sono infatti “legami forti, relazioni, dimensione sociale, gruppo” e non solitudine. Certo non si può negare che esista una solitudine che è propria della malattia, che mi faceva vedere la montagna ancora più nera e che descrive Eugenio Borgna nel suo libro “In dialogo con la solitudine”: “Ammalandoci siamo soli, e questo non perché non ci sono persone care intorno a noi, ma perché siamo i soli a conoscere quale dolore, quale angoscia e quali speranze siano in noi”.
È anche vero però che al Morelli, volenti o nolenti, ci si arruola in un altro esercito, quello di chi porta pazienza, di chi si prende il tempo di guarire a colpi di grandi respiri di aria pura di montagna, di passeggiate nella natura e chiacchiere in terrazza. L’ho compreso il secondo giorno al Villaggio Morelli, quando il signor Gianni insistette moltissimo per accompagnarmi a fare la mia prima radiografia. Guardavo mia madre con occhi di ti prego salvami, ma non ci fu nulla da fare, il signor Gianni ci teneva a fare gli onori di casa. “Io ogni tanto ci ripenso, è stata una scuola di vita da un certo punto di vista. Penso sia la cosa bella di quel momento, anche se sei completamente diverso, per età, idee, pensiero politico ecc. in quel momento si annulla tutto quanto”, mi dice Viola. Ripenso allora a quanto mi era sembrata assurda ma allo stesso tempo profonda l’amicizia che nacque tra il signor Carmelo e il signor Fausto, due uomini sulla sessantina che hanno condiviso con me il periodo al Morelli. L’appuntamento sulla grande terrazza panciuta dove un tempo aveva luogo la climatoterapia, era ogni sera alle nove, poco prima del tramonto. Non avevamo un granché da raccontarci, conoscevamo le storie della malattia di tutti a memoria, quando e come ognuno di noi aveva scoperto di avere la tbc, eppure a turno continuavamo a ripeterle a vicenda. Carmelo era un banchiere in pensione con una parlantina sciolta e un maglioncino bordeaux sempre sulle spalle. Fausto un uomo robusto e abbronzato, ex campione di canottaggio, grande camminatore, amante della bella vita e del ballo. Carmelo spiegava a Fausto chi fosse Oriana Fallaci. Fausto ascoltava con interesse e un sorriso bonario e cercava di descrivere a Carmelo quanto fosse bello camminare 18 km al giorno tra i boschi.
“Io devo dire che sono stata così bene da vivere quella condizione per cui fai anche fatica a tornare nella realtà. A un certo punto diventa il nido che ti sta proteggendo da tutto quello che c’è fuori”, conclude Viola, mentre mi ritornano in mente altre parole di Elvira Seminara: “ogni isolamento è nido e trappola insieme”.
L’isolamento e vita al Villaggio Morelli: “una breve vacanza”
Anche Vittorio De Sica, il noto regista, racconta la contraddizione dell’isolamento nel 1973, nel suo film Una breve vacanza, girato proprio al Villaggio Morelli di Sondalo. La protagonista Clara è una giovane donna, immigrata dal sud Italia insieme al marito, ai tre figli e alla suocera per lavorare in condizioni disumane in una grande fabbrica del nord. Si ammala di tubercolosi e il medico la manda subito a Sondalo, dove nell’isolamento può pensare a se stessa, riscoprirsi, crescere e trovare l’amore. Sarà dunque per lei molto faticoso tornare alla vecchia vita.
De Sica ci mostra scorci di un Morelli innevato nel pieno del suo splendore, quando negli anni tra il 50’ e 70’ arriva ad ospitare 2.500 persone. Scopro però che il regista si prese alcune licenze poetiche. Il sanatorio era stato pensato per ospitare anche le donne, ma finirà per accogliere solo uomini, prima (a partire dal 1946) i reduci dai campi di concentramento e poi i malati di tbc da tutte le parti di Italia. La vita al Villaggio Morelli era dunque necessariamente scandita da orari (Sveglia alle 7.30- 8.00, Colazione 8-8.15, Cura sdraio 9-11.30 ecc.) e regolamenti (Art. 7: È vietato uscire dal Villaggio senza permesso della direzione medica. Sarà considerata quale grave infrazione disciplinare l’uscita da passaggi della rete metallica od il saltare dai cancelli). In un’epoca in cui non esisteva ancora una cura per la tbc, i morti erano arrivati a toccare la cifra di 60.000 all’anno, il ricovero in sanatorio era soprattutto una forma di isolamento degli ammalati dal resto della comunità, per prevenire il contagio. Più che un limite l’isolamento era dunque una condizione desiderabile per un sanatorio.
Vi erano certamente anche momenti di svago al Morelli, giochi, letture, radio e il cinema anche. Ogni padiglione era dotato infatti di una sala cinematografica dove venivano proiettati i film in uscita nelle sale di tutta Italia.
Il cinema faceva inoltre parte di un più ampio progetto educativo che caratterizzava la permanenza al Morelli. C’era infatti l’idea che i pazienti dovessero uscire, o per meglio dire “scendere”, dal Villaggio Morelli, non solo guariti ma anche “migliori”. Si tenevano dunque corsi regolari di alfabetizzazione, dalle elementari alle medie e corsi di professionalizzazione (per diventare radiotecnici, falegnami, fabbri ecc.) che rilasciavano un regolare diploma. Il tempo ai pazienti di certo non mancava. Il Villaggio Morelli era dunque a tutti gli effetti una piccola società. Non solo, era molto di più, era parte di una grande opera, un progetto sociale che mostrava i suoi effetti non solo sui pazienti ma anche sugli abitanti di quello che è stata definito il vecchio Villaggio, in contrapposizione al nuovo: il paese di Sondalo. I sondalini accolsero infatti l’ospedale come possibilità di sviluppo, come l’occasione per traghettare il paese fuori dalla sua povertà e arretratezza legata ancora a un modello di società contadina, in crisi già dal Settecento. Quando il Villaggio comincia a funzionare a pieno regime, gli abitanti del paese di Sondalo aumentano fino a sfiorare quota 6.000 (oggi la popolazione di Sondalo è di 4.000 abitanti circa), il paese cresce, si espande e vengono costruite nuove case per medici, infermieri e operai. Cambia anche la composizione sociale di Sondalo e gli elenchi telefonici si arricchiscono di cognomi meridionali. L’economia è trainata dalla presenza dei sanatori e si diffonde a Sondalo la cultura dell’accoglienza. Risultati impensabili ai tempi in una Valtellina marginale e isolata dal boom economico e industriale delle città. Ancora una volta è proprio l’isolamento a diventare risorsa, rendendo i territori alpini il luogo più adatto per le costruzioni sanatoriali in quanto percepiti come rifugi lontani dall’aria malsana e dallo stress della città. Posti dove la natura è ancora incontaminata e l’aria è pura.
La specificità del Morelli è inoltre quella di essere stato pensato per fronteggiare senza difficoltà l’isolamento. Il Villaggio è stato infatti costruito come una cittadella autonoma e sostenibile grazie a una dotazione impiantistica di assoluta avanguardia. “C’è una centrale termica a olio pesante al Morelli e una serie di cunicoli attrezzati per i sotto servizi, dentro ai quali sono collocati, oltre alle tubazioni per la distribuzione del vapore, anche gli impianti fognario, elettrico, dell’acqua potabile e dei gas medicali. La distribuzione delle merci dal padiglione dei servizi centrali ai singoli padiglioni di degenza veniva effettuata con un impianto di teleferiche. Anche l’acquedotto è un’opera di alta ingegneria, che sopperisce alle insufficienti risorse idriche del versante di Sortenna con un impianto capace di sfruttare una sorgente in Val di Rezzalo. Le tubazioni scendono dalla sorgente fino al fondovalle superando un dislivello di oltre 600 metri, attraversano l’Adda in un tunnel sotterraneo, risalgono il versante opposto per altri 300 metri. La fognatura è dotata di un impianto di depurazione tutt’oggi funzionante.” Per rendere l’idea di quanto fosse importante il concetto di sostenibilità, basta sapere che il gas prodotto dai fanghi dell’impianto di depurazione veniva sfruttato per rendere energeticamente autonoma la casa del guardiano. C’era perfino una porcilaia al Villaggio Morelli per smaltire i resti di cibo.
Isolamento e protezione
L’ultima storia di isolamento che riguarda il Villaggio Morelli e che voglio raccontarvi, ha a che fare con il concetto di protezione, ma non riguarda il contagio tra persone. I protagonisti di questa storia sono infatti la Testa di angelo e il Redentore benedicente di Raffaello della pinacoteca di Brera, Eleonora d’Este di Canova della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, mobili, arazzi e dipinti di grande pregio del Palazzo Reale di Milano, preziosi tappeti persiani del Museo Poldi Pezzoli e molte altre opere d’arte. Oggetti preziosi, pezzi inestimabili del nostro patrimonio artistico e della nostra memoria a cui il Villaggio Morelli di Sondalo diede protezione e rifugio. “Uno dei (rifugi) più cospicui e importanti d’Italia non solo per le molte cose di proprietà del comune di Milano […] ma per le altre cose – di singolarissimo pregio – pertinenti a musei, a chiese, a privati di tutta la Lombardia”, scrisse Guglielmo Pacchioni, soprintendente dal 1939 alle gallerie della Lombardia. “Gravissima la devastazione compiuta con dirompenti e con incendiarie nel complesso di edifici monumentali di Brera e delle case fronteggianti” si legge infatti nell’articolo del Corriere della Sera “Il bombardamento terroristico di Milano” del 9 agosto 1943, riferendosi ai bombardamenti angloamericani.
Non capita spesso e forse in pochi si chiedono, percorrendo le sale dei musei e fermandosi ad ammirare la bellezza del nostro patrimonio artistico, come le opere d’arte siano sopravvissute agli effetti devastanti della guerra e chi ha contribuito a salvarle. La storia della tutela delle opere d’arte, come ricostruisce Cecilia Ghibaudi nel suo Raffaello e la tutela del Terzo Reich, fu “un susseguirsi frenetico di trasporti, spostamenti, passaggi da un rifugio all’altro”. È una storia spesso difficile da ricostruire attraverso i documenti scritti “perché confusa e intricata, sapendo che in un momento drammatico non sempre tutto fu registrato a volte per prudenza a volte per la fretta imposta dal repentino, complesso e pericoloso avvicendamento dei fatti.” È una storia, i cui protagonisti passano inosservati o forse sono volutamente dimenticati. Come è accaduto a Guglielmo Pacchioni colpito da un’immeritata damnatio memorie, nonostante sia a lui, più di chiunque altro, che dobbiamo la nostra gratitudine per l’impegno durante la guerra. Furono infatti le sue lettere, molte, lunghe e insistenti a convincere, fin dal giugno 1943, il ministero dell’idoneità di Sondalo in quanto rifugio. La costruzione del Villaggio era da poco terminata, quando nel 1940 l’Italia entra in guerra e ne ritarda l’apertura ai malati. Nel 1944 un comando tedesco aveva occupato a scopo ospedaliero i sette padiglioni del Villaggio. Oltre ai soldati tedeschi, poche persone risiedevano al Villaggio, alcune infermiere, 4 operai per la manutenzione e l’ingegner Ferrari, direttore tecnico del Villaggio. Persona fidata l’ingegner Ferrari tanto che fu a lui che Pacchioni incaricò l’apertura di due vani nei sotterranei dei padiglioni 6 e 7 del Morelli. Furono realizzati nell’inverno 1944-1945: “depositi murari e nascosti”, di cui nessuno era a conoscenza se non Ferrari e i due operai esecutori. Le opere d’arte raggiunsero la Valtellina da tutta la Lombardia nascoste nei filocarri che trasportavano sabbia destinata alla costruzione della diga di Cancano, sopra Bormio. Il divieto di transito sulle strade della Valtellina era tuttavia assoluto tanto che lo stesso direttore Ferrari non poteva spostarsi in macchina ed era costretto a raggiungere Milano in bicicletta (a 200 km di distanza). E dunque, un piccolo aneddoto che mi è stato raccontato al Villaggio Morelli, che rende questa storia ancora più incredibile. Come è possibile che l’esercito tedesco non abbia intercettato questo spostamento di opere d’arte? Come è possibile che non se ne fosse accorto o non ne sapesse nulla? Di certo l’arrivo improvviso di una sequenza di camion al Villaggio, in una Valtellina isolata e lontana dal fronte, non deve essere passato inosservato al comando tedesco. Pare tuttavia che il maggiore tedesco, prima della guerra, prima di diventare maggiore, fosse un professore di storia dell’arte italiana, che aveva vissuto in Italia studiando soprattutto l’arte toscana. Non ci sono documenti che lo dimostrino, ma è probabile che fece finta di non sapere.
Isolamento e abbandono
Oggi il Villaggio Morelli conosce un’altra forma di isolamento, la più dolorosa: l’abbandono.
Nel 1971 inizia la dismissione del sanatorio che, grazie alla resistenza organizzata da lavoratori e popolazione, viene trasformato in ente ospedaliero autonomo. Dal 1973 fino agli anni 90’, il Villaggio Morelli continua dunque a essere un punto di riferimento non solo a livello locale ma anche nazionale e internazionale, grazie a medici qualificati e a investimenti finanziati dalla fiscalità generale. A seguito dei provvedimenti legislativi del 1992 e 1994 che hanno modificato la gestione della sanità pubblica, devolvendo poteri alle regioni, l’ospedale Eugenio Morelli diventa un semplice presidio parte di un sistema provinciale. Tutto ciò che, fino a quel momento, aveva rappresentato la forza del Villaggio Morelli si trasforma nella sua debolezza. Dovendosi uniformare a criteri di efficienza economica e produttività, e dunque affrontare tagli e chiusure di reparti, il Morelli si rivela essere costoso, enorme, ipertrofico, distante e troppo isolato. La professoressa Bonesio, direttrice del museo dei Sanatori di Sondalo scrisse: “Il Morelli mi è spesso apparso, per molti anni, come una realtà in attesa di una sguardo collettivo che ne riconoscesse l’attualità, che sapesse corrispondere alle sue difficili sfide: che tornasse a vederlo, ma a partire da esigenze nuove; che lo comprendesse non come cosa del passato, ma come straordinaria anticipazione di una serie di risposte che il nostro tempo difficile cerca e perlopiù non sa come realizzare…”. Questa è la sfida che sta affrontando la popolazione locale e tutti coloro che passando a vario titolo per il Villaggio Morelli, hanno compreso il suo valore e quanto ancora possa insegnarci, soprattutto oggi, un modello di sanità che mette al centro la persona e non logiche e modelli organizzativi che avvicinano sempre più la gestione della sanità pubblica a quella di un’azienda privata. Garantire un futuro a questa “acropoli” ai confini del mondo che è stata protagonista della Storia e del cambiamento. Trovare una nuova identità a un Gigante che sta diventando invisibile.
Testo e foto di Martina Ferlisi. Le foto di Sondalo sono state gentilmente concesse dal Museo dei Sanatori di Sondalo. © Tutti i diritti riservati.