25 Luglio 2018
A tre mesi dall’inizio delle proteste, la repressione nel paese centroamericano è diventata sempre più violenta e non accenna a fermarsi.
“Sono scappato con una maglietta e un paio di pantaloni verso un paese dove non conosco nessuno, donde sono costretto a dover ripartire da zero, perché non hai più niente di ciò che era la tua vita. Assolutamente niente.” Incontro Keto in un bar del centro della Città del Guatemala. Da pochi giorni è arrivato nel paese, costretto a scappare a causa degli scontri che si sono dati nella sua città, come in tutto il Nicaragua. Lui era una delle persone più in vista e sapeva di essere nelle liste di proscrizione del governo.
“Ricordo quando riempivamo le piazze per ascoltarlo. Quando riempivamo le strade per gridare “qué viva el Frente!” (Frente Sandinista de Liberación Nacional, il partito di governo, ndr). Adesso tutto questo mi da ripulso e rabbia. Abbiamo l’anima marcia per colpa sua.” Parliamo per più di un’ora, anche se in realtà il suo è un racconto interrotto solo da poche mie domande. Non nomina mai per nome a Daniel Ortega, ex guerrillero e presidente del Nicaragua dal 2007; si riferisce a lui moltissime volte, ma sempre chiamandolo con un generico “lui”.
“Questo è il pañuelo che ho utilizzato per coprirmi la faccia l’ultima volta che sono uscito di casa.” mi dice mentre lo tira fuori dalla tasca dei pantaloni per asciugarsi le lacrime. Dalla camicia tira fuori il rosario. “Questo rosario che sempre mi protegge e la foto di mia madre e di mia sorella, perché non so se le rivedrò mai più.” Dal primo momento che ci incontriamo Keto ha la voce rotta. Non risponde realmente alle mie domande, perché la storia che ha da raccontare è molto più profonda per rispondere a una semplice e forse banale domanda. Keto è il suo nome della trincea, il nome di battaglia. Ha 25 anni ed è di Diriamba, città diventata tristemente famosa per gli attacchi cruentissimi dell’8 luglio scorso. “Il mio quartiere, La Libertad, è il più grande della città. L’8 luglio sono arrivati intorno alle 500-600 persone, vestite in abiti civili e molti di loro incappucciati. Stavano attaccando secondo una strategia militare, con armi di altissimo calibro che in Nicaragua solo possiede l’esercito. Non hanno avuto neanche il coraggio di mandarli con le loro divise. Già da tempo nel mio quartiere avevamo costruito delle murallas dei muri di protezione. Se non ci fossero stati quelli, sarebbero morte molte più persone. Duele el alma, mi addolora l’anima, mi dice, vedere i miei amici non ancora neanche ventenni rivolti in una pozza di sangue, con le pallottole che li avevano trapassati dalla schiena al petto. Ho visto un amico che stava si stava affogando col suo proprio sangue, mentre gli occhi erano completamente bianchi…”. Non sempre riesce a terminare le sue frasi, e io a volte ringranzio che non lo faccia. “Mi sembra un sogno dal quale vorrei svegliarmi presto” mi ripete più volte. “Quel giorno” mi racconta “le persone che ci hanno attaccato lo hanno fatto sparando sempre dalla cintola in su. Lo hanno fatto per uccidere. Le armi che usavano normalmente feriscono gravemente da 400-500 metri; loro ci sparavano da una distanza di meno di cento metri. In meno di due ore, nel mio quartiere avevano già ucciso 12 persone. Passavano con le loro camionetas, furgoncini, che chiamavamos caravana de la muerte, e dietro di loro passavano i camion della spazzatura a raccogliere i corpi. Non hanno avuto neanche la cinica accortezza di coprire le scritte dei camion che dicevano “Municipio di Managua”. Neanche ad un animale puoi fare questo.”
Il corrispondente di una agenzia giornalistica internazionale non esita a dirmi che quello che sta accadendo è una vera e propria azione di terrorismo di stato. “Le azioni organizzate congiuntamente fra polizia e Juventud Sandinista, che si comporta come un corpo paramilitare a tutti gli effetti, fanno capire che finché ci saranno proteste, il governo risponderà come ha fatto fino ad ora, con una fortissima repressione. Noi giornalisti siamo in continuo pericolo di essere attaccati, che ci sequestrino il materiale o che addirittura ti possano incarcerare. Vorrei sottolineare che il Nicaragua, in questo momento, è fra i peggiori paesi dove lavorare come giornalista in questo momento. Non esistono garanzie minime di riuscire a fare il proprio lavoro. Sopratutto nelle manifestazioni convocate da chi è vicino al governo ci insultano, ci gridano di essere collusi con la CIA e chi gridano di “raccontare la verità”, che in questo caso è la loro verità. Noi giornalisti siamo costretti a muoverci in gruppo di 10-12 persone quando vogliamo andare nei punti più rischiosi, perché solo così riusciamo a salvaguardare la nostra incolumità.”
Gli chiedo del 19 luglio appena passato, 39esimo anniversario della rivoluzione sandinista. “Fue un fracaso. Le foto che sono state pubblicate danno a vedere la piazza piena, ma per me che vado in quella piazza come giornalista da 8 anni ininterrottamente, so di per certo che c’era moltissima meno gente del solito.”
Anche lui mi racconta della difficilissima situazione che sta vivendo la protesta. “I giovani sono stati costretti a fuggire nei paesi vicini o nascosti nelle montagne, perché li stanno cercando per metterli in prigione, o chissà che altro. Oggi nelle proteste si vedono contadini, lavoratrici domestiche, madri che non vogliono più vedere uccidere i proprio figli e gli universitari che non sono stati nelle prime file della protesta quando questa è iniziata. La gente continua ad avere una posizione univoca: vuole che il presidente convochi elezioni per il prossimo anno.
Il discorso del presidente continua ad essere che questo sarebbe un colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti, ma in realtà la gente si è svegliata dopo anni di assopimento e per le strade si vedono persone delle classi basse e medie, operai e studenti, lottando insieme per la stessa causa. Moltissimi di loro, inoltre, sono stati dirigenti sandinisti, che non sopportano più l’autoritarismo di questo governo. Quello che si sta vivendo in Nicaragua è un vero e proprio levantamiento popular, una rivolta popolare!”
Carla, femminista di 28 anni di Somoto, nel nord del paese, mi conferma la stessa visione. “Ovviamente ci sono persone di destra nel movimento, che però certamente non sono leaderes della destra che è stata e continua ad essere collusa col presidente Ortega. Ci sono tantissimi che sono stati guerrilleros durante la rivoluzione del ‘79 e adesso stanno appoggiando la lotta.” Le chiedo del movimento femminista e della sua partecipazione alla protesta. “Noi femministe siamo state le prime vittime della repressione di Daniel Ortega, già a partire dal 2007. Non c’è stato, in tutti questi anni, un 8 marzo o un 25 novembre dove la marcia delle femministe non sia stata fermata e spesso repressa con la violenza dalla Polizia mandata dal governo di Ortega. Siamo presenti in questa protesta massiva, perché “La revolución será feminista, o no será”, rivendica.
Ad oggi le persone che sono morte in questo conflitto sono intorno alle 400 e la repressione non accenna a fermarsi. In questo momento nel paese centroamericano è presente una missione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani insieme alla CIDH (Commissione interamericana dei diritti umani) per verificare circa le violazioni dei diritti umani e le violenze in atto, con la speranza che con l’aiuto della comunità internazionale si possa contribuire a che il livello di tensione e di violenza diminuisca.