Il 17 dicembre 2019 sono state avviate le operazioni di rimozione e di bonifica delle prime due imbarcazioni ormeggiate, in stato di sequestro, all’interno del Porto di Lampedusa. Navi migranti.
C’è voluto tempo affinché accadesse senza che le “istituzioni” decidessero in tempi biblici. Del resto non si trattava di manovre semplici ed un intero team di esperti, specializzati nella movimentazione di imbarcazioni in emergenza, è stato costituito dalla Direzione Regionale delle Dogane e dei Monopoli di Palermo a fronte di un budget di circa 300mila euro.
Un intervento necessario per motivi ambientali quanto malinconico. Difatti, come tutto ciò che avviene e si percepisce in zone di confine, anche a Lampedusa, non c’è mai una linea netta fra ciò che è bene e ciò che è male, fra ciò che resta e ciò che deve andare via, fra ciò che è umano e ciò che non lo è.
Il tutto è una libera interpretazione del pathos, delle esigenze contingenti, del convincimento soggettivo, delle sfumature che si sceglie di dare ai punti di vista. Chi è passato da qui nell’ultimo anno conosce bene le imbarcazioni di cui parlo e che, dopo questa doverosa rimozione, verranno, ahimè, demolite.
Sono loro, fotografate decine e decine di volte di giorno e di notte sulla banchina del porto, spettatrici e protagoniste di sbarchi, di naufragi, di ricollocamenti e di rimpatri.
Barche lasciate alla deriva con tutto il sapore del mare che hanno navigato, con tutte le tracce delle persone che hanno accolto e perso.
Imbarcazioni dapprima intoccabili perché sotto sequestro e che poi, una volte ormeggiate, vengono progressivamente dimenticate e lasciate in balia del sale e del maltempo che le corrode e le deteriora, trasformandole in un pericolo reale per la comunità, le infrastrutture e l’ambiente.
Per quanto doveroso sia stato tale intervento, altrettanto doveroso, oltre che economicamente conveniente, doveva essere quello di metterle tempestivamente in sicurezza, affinché si potesse evitarne la distruzione. Già, perché non ci si può rassegnare a veder distruggere i simboli che appartengono alla storia recente di tutti noi e che raccontano tutto il carico emozionale che viviamo quotidianamente.
Quando da imbarcazioni come quelle vedi scendere persone vive, la gioia è talmente forte che ingloba tutto il resto e quelle ferraglie miste a legni ormai marci, diventano templi sacri da onorare, non da buttare! Sono travi avariate che hanno fatto il loro dovere, garantendo più vita possibile. Poterle scrutare, osservare da vicino, credetemi, è un colpo al cuore. Conservano tutti gli odori, le speranze, le paure di chi vuole sopravvivere e di chi tenacemente ci ha provato.
Dicembre è un mese che profuma di Natale, di case accoglienti, di regali, di amici e di parenti. E’ un mese in cui, il freddo e le avverse condizioni meteo, disincentivavano le partenze. Oggi non è più così.Chi scappa non conosce festività o maltempo.
Nonostante la cronaca sia spesso ancora troppo silente sull’argomento, di naufragi ce ne sono ancora, è solo che spesso avvengono ad una distanza tale dalla costa da restare ignoti, fantasma, senza scia.
Eliminare le uniche tracce tangibili di vite che giacciono sul fondo del Mediterraneo è triste e non rende onore ad un Paese civile. Dimentichiamo troppo spesso che ognuno di noi ha una storia e per quanto questa possa risultare ingombrante, non ci piacerebbe sapere che qualcuno la cancelli.
Volente o nolente, Lampedusa è fra le maggiori protagoniste del fenomeno migratorio e, per quanto questo divida e sfianchi, i suoi cittadini ed i suoi pescatori, devono essere aiutati a non perdere la sensibilità che l’argomento merita e che da sola ha reso possibile gestire l’accoglienza al meglio che si è potuto, andando oltre gli accordi e oltre le ordinanze.
Dietro lo smaltimento di quelle iconiche imbarcazioni, ci sono madri e mogli che non rivedranno mai più i loro cari. A noi il dovere morale di onorare il loro dolore. Bisognerebbe seriamente pensare di istituire un vero e proprio Cimitero delle Barche.
Un luogo in cui tutti, sull’isola possano ricordare, onorare e piangere chi in mare ci resterà per sempre. Questo non solo renderebbe un po’ di giustizia a chi non c’è più ma, conforterebbe anche gli animi di coloro che si trovano ad affrontare quotidianamente una diaspora che non prevede fine.
Non abbiamo grandi speranze o capacità di impedire la morte. Il più delle volte, si agisce in emergenza, ci si accapiglia su cosa è più o meno legittimo fare, su chi è autorizzato ad intervenire e chi non lo è, sulle conseguenze legali di un qualsivoglia gesto umanitario necessario e contingente.
Quelle barche sono tutto ciò che resta alla fine dell’emergenza, alla fine della conta fra morti e sopravvissuti. Sono tutto ciò che resta da mostrare al mondo lontano dall’isola e, ancora più importante, sono l’ultimo segno tangibile su cui riflettere, piangere ed analizzare un esodo umano che resterà alla storia. Un gesto doveroso che, da solo, tutelerebbe le coste dell’isola, i suoi cittadini, i suoi pescatori ed i suoi migranti.
Alla luce di tale riflessione e soprattutto sulla scorta dell’esperienza ormai acquisita in termine di emergenze umanitarie, al di là di ogni retorica e di ogni falso buonismo, occorre una nuova cooperazione idonea a realizzare un luogo della memoria che dia spazio ad una nuova immaginazione sociale che sperimenti nuove e aperte forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto.