11 Febbraio 2021
La prima puntata del reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo
La prima puntata del reportage di Beatrice Spazzali, scelto nel 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo
La Val Rosandra, al confine tra Italia e Slovenia, è la porta di passaggio della rotta balcanica sull’Europa occidentale. Gli aspri sentieri carsici oggi meta di escursioni in mezzo alla natura vengono attraversati silenziosamente da decine e decine di profughi, testimoniando vecchie e nuove migrazioni iscritte nella memoria delle comunità locali ma disperse in quella dei più. Cosa rappresenta l’anima di questa terra di confine? Quell’ultimo sentiero di Beatrice Spazzali è uno dei due reportage scelti a Festivaletteratura 2020 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppati a puntate sul sito del Festival e qui. In questa prima puntata, quattro lapidi nel piccolo cimitero di San Antonio in Bosco riportano indietro le lancette della storia al 1973, quando il destino di un gruppo di giovani clandestini cambiò per sempre in una fredda notte d’autunno.
1 puntata.
di Beatrice Spazzali
Il cimitero di San Antonio in Bosco si trova appena fuori dal gruppo principale di case che compone l’abitato, al termine di una stradina fatta di curve a gomito che si dirama alla destra della strada che sale verso Basovizza. Per entrarci bisogna spingere un cancello incredibilmente pesante, di quelli che si chiudono con un gancio a scatto.
Qui, chi non c’è più riposa sulla pendice della collina, su due terrazzamenti rettangolari stretti e lunghi disposti uno sopra l’altro, in modo da ricavare più spazio. Alla destra del sentiero in ghiaia che percorre in lunghezza il cimitero, le tombe con su incisi i nomi tipici delle famiglie locali sono ordinatamente disposte in file parallele e riparate dall’ombra degli alberi. Un piccolo spiazzo lastricato conduce a una breve scalinata. Dai primi gradini si riesce a vedere il mare del golfo di Trieste, prima di scendere al secondo livello. Qui, sulla sinistra, contro il muro di contenimento e sotto un albero, ci sono in fila quattro lapidi quadrate, tutte uguali e tutte leggermente inclinate all’indietro. I nomi non sono quelli comuni del luogo. Dembele Seydou, Mamdou Niakhate, Traore Bakary e Mibaye Somila Diby, nati rispettivamente nel 1951, nel 1954 e gli ultimi due nel 1948 e morti tutti e quattro nel 1973.
Il confine è a pochi chilometri di distanza e da queste parti ogni paese e ogni frazione ha un nome in italiano e uno in sloveno. San Antonio in Bosco è anche Boršt ed è una frazione del comune di San Dorligo della Valle, che in sloveno è Dolina. Insieme ad altre frazioni sono tutti pezzi di terra che insieme formano il territorio della Val Rosandra, che si spinge fino in Slovenia, nel territorio del comune di Erpello-Cosina (Hrpelje-Kozina).
La Val Rosandra è una sorta di canyon che spacca la roccia del Carso, un luogo incontaminato, inciso dal torrente Rosandra che scorre sul fondo della valle. Le sue particolari condizioni naturalistiche e il suo aspetto selvaggio l’hanno resa una meta gettonata dagli sportivi di ogni tipo, attraverso una graduale riscoperta cominciata agli inizi del XX secolo ad opera di alcuni rocciatori. Dal 1929, infatti, è attiva una scuola di roccia, fondata dall’alpinista Emilio Comici, e qui è presente anche il rifugio alpino all’altitudine più bassa al mondo: il Mario Premuda a solo 82 metri sul livello del mare. Oggi, oltre che all’arrampicata e all’alpinismo, in molti si dedicano anche al trekking, alla mountain bike, alla speleologia o alle semplici gite domenicali. Questa ricchezza di alternative la si deve proprio alle sue caratteristiche morfologiche, tali per cui la parte superiore della valle è caratterizzata da pareti a strapiombo, mentre l’altra da rupi, ghiaioni e grotte. La particolare conformazione fa sì che la valle sia l’unico passaggio naturale tra il mare e l’altopiano verso la Slovenia, oltre che la via preferenziale per la discesa della bora.
Le potenzialità della valle come collegamento tra mare ed entroterra era già riconosciuta secoli fa, quando la Repubblica di Venezia era interessata a controllarla per accedere alle saline che si estendevano alle foci del torrente. Nel 1800, l’Austria-Ungheria ci fece costruire una ferrovia che collegava Trieste con Erpelle, con l’obiettivo di usarla per scopi commerciali, prevedendo un gran traffico di merci. Alla fine la linea non fu mai utilizzata al pieno della sua capacità, ma venne sfruttata dalla popolazione che si spostava tra il Carso, l’Istria e Trieste. La linea venne poi soppressa nel 1958 e i binari rimossi nel 1966. Recentemente è stata soggetta a una rivalorizzazione che l’ha trasformata in una ciclopedonale, andando ad aggiungersi all’offerta di svago per i turisti domenicali. Insomma, pur conservando il suo aspetto naturale, la valle ha comunque conosciuto un viavai di persone.
C’è anche un altro itinerario che passa lungo questa via e attraverso i suoi sentieri che si districano nei boschi circostanti, è quello della rotta balcanica, percorsa dai profughi che risalgono Bosnia Erzegovina, Serbia e Croazia e che dalla Slovenia arrivano a Trieste, uno snodo verso le destinazioni finali in Europa occidentale e settentrionale.
L’itinerario è conosciuto con questo nome dal 2015, quando i flussi di profughi provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente si sono intensificati in seguito al peggioramento della crisi internazionale, e sempre più persone hanno iniziato a dirigersi verso l’Europa risalendo la penisola balcanica a piedi o con mezzi di fortuna. La rotta balcanica però esisteva già prima e non è scomparsa nemmeno dopo gli accordi firmati nel 2016 tra Unione Europea e Turchia, dimostrando di essere tanto mutevole quanto i corsi d’acqua tipici del Carso che i suoi protagonisti attraversano. A volte può succedere di incontrare gruppi di persone che camminano in fila sull’altopiano carsico, a volte ci si imbatte solo nelle tracce che lasciano, fatte di vestiti e oggetti di cui non hanno più bisogno.
I numeri parlano chiaro e nel corso del 2020 i migranti rintracciati al confine tra Gorizia e Trieste sono stati 4.120, a fronte dei 3.568 nel 2019 e delle 1.567 persone rintracciate nel 2018, come riferito a inizio anno dal Ministro dell’interno Luciana Lamorgese durante un question time alla camera. Il 16 dicembre 2020, nel piazzale davanti alla sede della Polizia di frontiera a Fernetti, è stato inaugurato un totem in legno formato da una serie di cartelli con su incise le capitali dei paesi di provenienza dei migranti e la relativa distanza da Trieste, eletta a punto di arrivo simbolico. Giuseppe Colasanto, vice questore della Polizia di frontiera di Trieste, in occasione della cerimonia di inaugurazione ha definito la città “il capolinea di migliaia di persone. Un segno tangibile di una realtà come questa che è un microcosmo di frontiera, commistione di genti, dialetti, speranze e disillusioni”.
Il confine è sempre stato un elemento caratteristico di questo territorio e della sua popolazione, tant’è che la zona dell’Alto Adriatico è stata scenario di migrazioni, anche forzate, per tutto il corso del Novecento. Dalla fuga di circa 250.000 esuli Italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia dopo il passaggio di queste terre alla Jugoslavia con il trattato di Parigi del 1947, all’arrivo di civili in fuga dall’ex-Jugoslavia negli anni Novanta, in questa terra il tema delle migrazioni e dei confini porta con sé ricordi e memorie dai significati complessi.
Da queste parti, sentir parlare di rotta balcanica è una questione quotidiana, anche se il fenomeno migratorio non ha monopolizzato l’attenzione della stampa. A dimostrarlo è anche un’analisi sugli archivi delle testate giornalistiche locali nel periodo compreso tra aprile 2015 e agosto 2019 condotta da Rossella Vignola per l’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa.
Il documento mostra che c’è stato un picco di frequenza di articoli dedicati ai migranti nella seconda metà del 2015, ma comunque rappresentavano meno di un ventesimo della produzione totale. L’analisi sulle parole chiave ha permesso di capire il tono associato alla narrazione del fenomeno, che è risultato avere una connotazione positiva e neutra, con l’utilizzo di parole come “accoglienza”, “profughi”, “richiedenti asilo”, “protezione internazionale”. La narrazione non si è concentrata sul tema dell’emergenzialità, se non negli ultimi mesi con maggiori riferimenti alla questione della “sicurezza”.
Anche se si parla di rotta balcanica da cinque anni a questa parte, in realtà quello stesso confine è attraversato da molto più tempo, più o meno silenziosamente. C’è una storia accaduta negli anni ‘70 che fa riflettere sul fatto che questa tratta ha in realtà un antenato più antico. È la storia dei quattro ragazzi sepolti nel cimitero di San Antonio in Bosco.
Sono circa le quattro e mezza di mattina del 13 ottobre 1973 quando Giovanni Mari, macchinista in pensione, e la moglie Bianca Gandolfi vengono svegliati di soprassalto da alcuni colpi provenienti dal cancello della loro casa, ricavata all’interno dell’ex-casello ferroviario della linea ormai in disuso. È una notte abbastanza fredda, con temperature attorno ai 5-6 gradi, bora forte e pioggia sferzano la valle. Mari si affaccia alla finestra per cercare di capire cosa stia succedendo, ma riesce solo a intravedere delle ombre e a sentire delle voci che non riesce a comprendere, perché parlano un’altra lingua e sono sovrastate dal rumore del vento.
Dall’altra parte del cancello ci sono cinque ragazzi. Hanno da poco attraversato clandestinamente il confine con la Jugoslavia e avevano deciso di cercare riparo dalla pioggia e dalla bora in quella casa, probabilmente la prima che hanno incontrato una volta in Italia.
I coniugi, spaventati dalla situazione, decidono di andare alla stazione dei Carabinieri di San Dorligo della Valle. Mari si precipita in garage e mette in moto la macchina, mentre la moglie va ad aprire il cancello prima di salire a bordo dell’auto. “Accelera!” gli dice mentre a pochi metri uno dei ragazzi stava gesticolando qualcosa tremando dal freddo.
Sono quasi le sei del mattino quando i Carabinieri giungono sul posto: tre dei ragazzi erano distesi per terra, uno era seduto su un muretto e l’altro in piedi. L’arrivo dell’ambulanza chiamata dai Carabinieri non ha potuto che accertare la morte dei ragazzi che giacevano per terra, morti per assideramento – come confermato in seguito dall’autopsia – gli altri due invece sono stati ricoverati all’Ospedale Maggiore di Trieste con sintomi di ipotermia.
Il quarto corpo sepolto nel cimitero non apparteneva a una persona di questo gruppo, ma è stato trovato 29 giorni dopo, il 12 novembre, da due cacciatori a pochi passi dal cippo XI/9 del confine, sotto l’abitato di Draga Sant’Elia. Vicino al corpo di Mibaye Somila Diby, 25 anni, c’erano una borsa da viaggio nera e una scarpa, persa forse nella caduta. Dell’altra scarpa nessuna traccia, forse finita nel ruscelletto che scorre poco sotto e ce se l’è portata chissà dove. Anche in questo caso l’autopsia ha confermato che il ragazzo è morto di freddo.
Se conosciamo i loro nomi è perché ognuno aveva con sé un passaporto o un documento di identità regolarmente rilasciato. La notizia del ritrovamento del gruppo viene riportata nell’edizione del giorno dopo de Il Piccolo, il giornale locale. Due brevi colonne in prima pagina vicino al titolo sulla guerra del Kippur scoppiata pochi giorni prima e un servizio più lungo a pagina cinque, nella sezione “Il giornale di Trieste”.
Nei giorni successivi, diversi articoli torneranno sulla vicenda, cercando di sgarbugliarla e di rispondere alle domande che ha portato con sé. Da dove vengono? Dove erano diretti? Come sono arrivati fino a qui?