Ritorno a Sidi Bouzid, nove anni dopo la Rivoluzione

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17 Dicembre 2019

Tra sogni infranti, speranze, voglia di fuga e impegno sociale

Aveva 25 anni Abdelwaheb Hablani. Viveva a Jelma, nel governatorato di Sidi Bouzid, Tunisia profonda. Si è dato fuoco in piazza il 25 novembre scorso, come il suo coetaneo Mohammed Bouazizi nove anni prima.

Esasperato dalla povertà e dalla disoccupazione. L’immolazione del corpo in realtà non è cosa rare da queste parti. La morte di Mohammed Bouazizi a Sidi Bouzid, alla fine del 2010 diede il là ad una Rivoluzione. Oggi è ancora lui l’eroe indiscusso di un’intera generazione. Il suo ritratto fatto di pannelli giganti svetta in piazza.

“Il 17 dicembre del 2010, poco dopo che Mohammed si era dato fuoco, noi tutti siamo scesi in strada. Erano le prime manifestazioni – ricorda Marwa Heni, 30 anni – Mio fratello Majdy era in piazza: è stato ferito, raggiunto da un lacrimogeno nell’occhio. La polizia reprimeva con violenza qualsiasi cosa. Ricordo che vennero a cercarci a casa: abbiamo subito arresti e repressione in quei giorni, abbiamo vissuto momenti orribili”.

 

Il monumento a Mohammed Bouazizi a Sidi Bouzid - foto di Ilaria De Bonis

 

Ma ogni volta che pronuncia la parola rivoluzione le si imporpora il viso. I capelli castani sono raccolti in una coda, lo sguardo timido è nascosto dietro occhiali dalla montatura nera.

“Il regime di Ben Ali in quel momento era ancora in sella, non c’erano segnali di cedimento – dice – Nessuno avrebbe immaginato quello che sarebbe successo dopo”. Marwa non ha dubbi sulla svolta della libertà. “La rivoluzione è un processo – precisa – I risultati più grandi li vedranno gli altri”.

Che significa per voi oggi essere liberi? “Significa tutto”, risponde.
Parlare, esprimere opinioni, protestare, riunirsi. Costruire una democrazia dal basso. Votare. Sperimentare forme di economia sociale. Per chi ha sempre dovuto nascondere le idee, le idee sono ossigeno.

 

Sidi Bouzid - foto di Ilaria De Bonis

 

Clima elettorale fiacco

Arriviamo a Sidi Bouzid d’estate, è il 16 agosto 2019. Vogliamo capire cosa succederà dopo le elezioni. E’ chiaro che i giovani tunisini non rimpiangono il passato e però cercano nuove rappresentanze politiche. I partiti in lizza non li soddisfano appieno, nonostante la proliferazione. Men che meno l’islamico moderato Ennahda. Ma perché continuano a partire? A rischiare la vita in mare?

Il caldo estremo, il digiuno del Ramadan, poi i postumi dell’Aid (la festa islamica del ‘sacrificio’) in quei giorni avevano fiaccato il dibattito elettorale.

Un caldo secco e penetrante faceva venire voglia di bere acqua ogni tre metri. Lungo la strada da Kasserine a Sbeitla e poi verso Sidi Bouzid, guardavamo dal finestrinmo dell’auto la campagna arroventata, i fichi d’india abbondanti. Le angurie, la terra predesertica, il giallo ocra.

In città lo scirocco portava con sé odore di agnello. Che presidente vorreste per la Tunisia del dopo Essebsi? Chiedevamo a tutti. Non piaceva il magnate dei media, Nabil Karoui. Ma in realtà nessuno dei 26 candidati faceva impazzire i tunisini under 40. “Ci interessa di più quello che possiamo fare noi sul territorio – avevano risposto Marwa e il suo amico e collega Hichem – Ora che non abbiamo più la dittatura non ci aspettiamo che sia qualcun altro a decidere per noi”.
La liberazione significa non essere passivi.

 

 

Poco lavoro, molta rabbia

Nella piazza principale di Sidi Bouzid, piuttosto moderna e verde, svetta il monumento a Mohammed: un carretto in pietra giallina, simbolo di quel sacrificio estremo. Accanto una bandiera della Tunisia in pietra.

C’è anche il cantiere aperto del futuro museo della Rivoluzione. Il ritratto del venditore ambulante però domina su tutto. Abbastanza alto. Sopra gli uffici postali. Quando venne fermato dalla polizia col suo carretto di frutta e verdura, in quel dicembre del 2010, Mohammed dovette consegnare la bilancia. Fu quella la scintilla che lo infiammò. Gli veniva tolto lo strumento del lavoro! Oggi il tasso di disoccupazione nel governatorato di Sidi Bouzid e Kasserine sfiora il 35%. Non c’è lavoro, c’è poco futuro. Il pane c’è ma non basta solo quello.

Sidi Bouzid, 40mila abitanti, è più grande e ricca di Kasserine, con viali, strade larghe e anche un ottimo hotel a 4 stelle, lo Ksar Dhiafa. “Qui si incontrano uomini d’affari, si fanno meeting”, ci spiegano. E poi piccoli ristoranti. Qualche banca. Pizzerie. Ceniamo Chez Oscar che cucina pollo e pizza con peperoni.

“Mio fratello durante le elezioni del 2011 è stato mandato in Germania, aveva 18 anni, e non aveva passaporto – ricorda ancora Marwa – Lo hanno allontanato dal paese e gli hanno consegnato un foglio per le cure, lì ha trovato degli studenti che hanno fatto una colletta per lui, per l’operazione all’occhio. Oggi sta bene, lavora ma vive ancora in Germania. Non è voluto più tornare. E’ rimasto traumatizzato dai giorni della rivolta”. La rivoluzione, ricordano tutti i ragazzi che incontriamo, era “inevitabile”. Il risultato di un risveglio collettivo. E questo deve farci pensare ogni volta che abbiamo dubbi sulla sua efficacia.
“Una rivoluzione si chiama così quando non puoi farne a meno”.

 

 

Sidi Bouzid era dimenticata dal regime di Ben Ali, così come tutti i villaggi dell’entroterra. “Non a caso qui si è accesa per prima la scintilla della rivolta”, dicono. E inoltre era “città ribelle, con una vocazione alla contestazione”.

Il problema è che anche ora continua ad essere luogo negletto dalla politica. I finanziamenti pubblici da queste parti non arrivano. Tanto che le proteste anche adesso non si fermano. Sidi Bouzid è sospesa a metà: non proprio misera, non abbastanza ricca. I ragazzi studiano, vorrebbero lavorare. La classe media chiede riconoscimento.

Perché i tunisini partono?

Con Marwa e Hichem andiamo a Bir Lahfay, cittadina di 30mila abitanti a pochissimi chilometri da Sidi Bouzid.

Il villaggio non ha piazze, solo un lungo stradone polveroso. È da qui che venivano le 11 persone morte su un barcone in mare mentre cercavano di raggiungere l’Italia, l’8 ottobre 2017. Quell’incidente fece notizia qui perché avvenne in acque tunisine. In totale erano una cinquantina di persone, ma ben 11 ragazzini provenivano da questo paesino brullo, dove tutto manca. Cos’è che vi spinge ad andare via? Chiediamo a Ayed, 23 anni, piccolo commerciante di abiti.
“È il sogno europeo!». Risponde senza nessuna esitazione. Non è la povertà. Non è solo una migrazione economica. È la voglia di scoprire il mondo. E di vivere meglio di così. Anche se il pane non manca. “È la migrazione del sogno e della scoperta”, precisa Hicham.

E aggiunge un dettaglio: “Se non fosse proibito probabilmente sarebbe meno desiderato”. Se la possibilità di muoversi e viaggiare non fosse impedita, forse “venire in Europa non sarebbe un sogno ma una libera scelta”.

 

Marwa di CitESS - foto di Ilaria De Bonis

 

I giovani hanno il miraggio dell’Italia. Dell’Italia più che della Francia. I giovani di qui amano a tal punto l’idea dell’Italia da mettere in conto la perdita della vita.

“In Tunisia c’è Hammamet, ci sono i luoghi di villeggiatura, i divertimenti d’estate. Anche a Tunisi si vive bene, ma non a Sidi Bouzid”, precisa Ayed. I ragazzi partono come partirebbero gli studenti europei in Erasmus. Quella che noi chiamiamo ‘fuga di cervelli’ qui si chiama voglia di prendere il largo. Da queste parti, nella zona centrale, e anche nella zona mineraria di Redeyef manca il lavoro ma manca anche lo svago. Manca tutto.

“Alcuni miei amici che erano arrivati clandestinamente in Italia, dopo qualche anno sono ritornati in Tunisia perché hanno capito che non era quello che si aspettavano – precisa Ayed – Due sono stati espulsi e gli altri sono ritornati. Erano arrivati a Bolzano. Quelli che invece sono rimasti vivono a Verona”.

Chi resta, Cooperazione allo sviluppo

E tu perché non parti? “Perché ho un lavoro e sto bene qui”. Ayed non è attratto dal viaggio e sa che in Europa non si fanno i soldi. E’ un ragazzo con i piedi per terra e senza troppi grilli per la testa. Ma molti suoi coetanei invece hanno il pallino del viaggio. Hanno voglia di vedere. Sono stretti dai loro guinzagli. Adesso che sono liberi vogliono usarla. Sennò che libertà è?

Il punto è che chi è disperato sul serio, si dà fuoco come Abdelwaheb o scende in strada per protesta. Chi sta bene ma vorrebbe star ancora meglio se ne va. Mette assieme i soldi per il viaggio e sale in barca.

 

Leila - foto di Ilaria De Bonis

 

Poi ci sono quelli che scommettono tutto sulle proprie potenzialità. Anche restando in Tunisia. Marwa e Hicham hanno fondato una onlus che realizza progetti di economia sociale.

Si chiama CitESS, ‘sostegno all’economia sociale e solidale’. Gli obiettivi li sta raggiungendo con successo: formare le persone (soprattutto le donne coltivatrici), animare la comunità, accompagnare i giovani imprenditori sociali e cooperare.

Ci portano a visitare uno dei progetti già realizzati attraverso la ong toscana Cospe, che è loro partner nella Cooperazione. La beneficiaria è Leila Horchani, una ragazza di 30 anni che ha studiato all’università di Monastir e ha realizzato un suo progetto imprenditoriale. Leila ha voluto un futuro diverso da quello di sua mamma: andiamo a trovarla a casa, poco fuori Sidi Bouzid, dove vive con i genitori, entrambi contadini, ma non imprenditori.

La mamma è seduta in terra, nel giardino-cortile di campagna, monda il cous cous, mentre lei ci illustra il suo progetto di agricoltura biologica.
“Ancora non penso al matrimonio”, confessa. Le interessa di più capire come fare per irrigare il suo campo con poca acqua e molto riciclo. Per i suoi magnifici figue barbarie, i fichi berberi, rosso porpora, che raccoglie e trasforma in marmellate biologiche ha vinto un premio.

La mamma entra in casa e ne esce con una targa rossa: è il riconoscimento a Leila per i fichi. Ma in campagna Leila alleva anche capre. Progetti come questo danno fiducia alle giovani generazioni: lavorare e vivere del proprio lavoro si può, solo che i numeri sono ancora bassi. Nel frattempo si stringono i denti e chi non resiste sale in barca e attraversa il mare. Senza pensare alla morte ma inseguendo la vita.

 

La mamma di Leila - foto di Ilaria De Bonis