23 Aprile 2020
Reportage da Banaras, in India, tra contrapposti sintomi di alterità, ai tempi del Covid-19
Caro Professore,
è bello ricevere delle sue. Sto bene, grazie. Sono ancora a Banaras per via della cancellazione dei voli e del blocco totale dei collegamenti, aerei e via terra, ma in contatto continuo con l’Ambasciata di Delhi che si è dimostrata collaborativa nel cercare il modo migliore per farci rientrare in Italia.
Al tempo stesso credo che questa congiuntura ci offra molti spunti di riflessione e che lo stare sul campo possa apportare un contributo significativo sia all’attuale ricerca che ad eventuali lavori futuri.
Più in generale resterà una esperienza di vita memorabile. Sta a noi, ora, trovare le chiavi di lettura e le griglie interpretative da cui procedere all’analisi del processi socio-culturali in corso, tanto in Asia quanto in Europa. Come dicevo ad un’amica stiamo forse espiando il karma coloniale del passato e oggi, nell’immaginario indiano rappresentiamo (parlo al plurale facendo riferimento alla categoria dello ‘straniero’, angrej) lo stereotipo dell’altro, del diverso, mi spingo a dire dell’intoccabile.
A proposito delle dinamiche osservabili nel quotidiano (ad esempio il dirompente distanziamento sociale, figlio del sistema castale) sono in atto dei processi di inversione che offrono spunti analitici molto interessanti.
E’ noto che una delle prime cose che incorporiamo una volta arrivati in India è quella totale mancanza di distanza fisica tra individui, quello scioglimento dei confini micro sociali di prossimità che in occidente, in genere, rassicurano, definiscono e proteggono quell’egotico senso dell’Io e la sfera di azione ad esso interconnessa
Qui l’individualità del singolo sembra essere assorbita lentamente nel caldo abbraccio, a volte scottante, della dimensione collettiva, metafora del Sé che si riconcilia con l’Assoluto.
Scompariamo per le strade, nei metrò, negli autobus e nei risciò condivisi, o mentre restiamo in attesa, al tempo stesso impalpabile e caotica, ai negozi di chai.
Lo ‘stare’ in India riabilita quella sensazione di corpo sociale condiviso, in prima battuta tanto estraneo quanto poi affascinante nel generare una nuova disposizione dell’animo e risvegliare un’attenzione speciale per i più vulnerabili, in quanto parte viva, multiforme ed essenziale di quell’organismo che nonostante tutte le difficoltà, ostenta salute e vitalità.
Ad oggi, tuttavia, si assiste ad un netto ribaltamento di tale visione: negli occhi della gente comune personifichiamo il virus in quanto potenziali vettori di contagio.
Adulti e bambini ci richiamano all’attenzione per le strade semi deserte urlando ‘Corona ji‘, con quel tocco di ironia dissacrante che a Banaras, per fortuna, non manca mai.
Di questi tempi, l’onorifico ‘ji’ è particella grammaticale più che mai rara, soprattutto nei confronti del bianco, dello straniero, del videshi.
Annunciano così la nostra presenza all’interno della sfera pubblica, ma ce lo ricordano anche mentre passeggiamo nell’ampio cortile di casa che spetta ai privilegiati, semmai ci fossimo dimenticati per un istante la tonalità della nostra pigmentazione e la nostra provenienza.
Dai terrazzi chiassosi e affollati di persone abituate a vivere in spazi bui e stretti, in un’atmosfera avvolta da un silenzio magico, interrotto a tratti dalle grida dei venditori ambulanti di verdure, si odono gli ossequiosi saluti ‘Dekh, Corona aa gayia hai‘ (Guarda, è arrivato il Corona) e così via verso forme colloquiali più volgari, fino ad arrivare all’insulto più gettonato del momento, il ‘Sala Corona, teri…’. (‘Sto stronzo di un Corona, quella di tua..).
Povere madri e sorelle! Sempre sulla bocca di tutti anche in tempo di epidemia.
Nulla di nuovo sotto il sole di fine marzo. La Ganga scorre perenne. Dea inintaccata da qualsivoglia evento e sciagura universale.
Sgorgata dalla chioma di Shiva, calma e placida, ha ritrovato in questi giorni di lockdown un colore naturale che invita anche i più scettici ad immergersi nelle sue acque sacre. “Farsi un bagno nella Ganga? Ma sei matto? Sarà piena di batteri”, mi ammoniscono spesso gli amici dall’Italia. La paura del contagio si trasfigura invisibile attraverso corpi sottili, umani e divini, sfere micro e macrocosmiche, creando tuttavia distanze ben percettibili ai sensi.
E i più deboli, gli anticorpi di questo organismo ribaltato, indispensabili ai sensi ora più che mai, dove sono andati a finire?
Non si vedono più nei vicoli di Banaras, sulle strade e sui ghat.
Saranno mica fuggiti verso una società sana, aperta e resiliente? Saranno loro a rappresentare la sanità (quella mentale, non il sistema sanitario), in giro senza mascherine, precauzioni e incuranti del rischio a cui vanno incontro?
Avranno mica riscoperto quell’anand van, quella foresta di beatitudine con cui alcuni Banarsi ricordano nostalgici i toponimi del passato?
Ieri mattina, di ritorno dalla passeggiata rituale della spesa al mercato di verdure di Assi, ho incontrato un senzatetto con cui tempo fa scambiai due chiacchiere davanti a un falò improvvisato in una sera d’inverno.
E’ stata una visione restauratrice, un miraggio redentore, refrigerio puro in queste lunghe giornate di fine marzo. Si aggirava intorno casa con un pacchetto di pane a cassetta già affettato e qualche anacardo nella mano destra, probabilmente donatigli dai pochi negozianti rimasti aperti.
Teneva la sinistra poggiata su un muro di mattoni rossi, cosparsi in cima di cacca di mucca ancora non propriamente essiccata. Di lì a poco sarebbe diventata anch’essa antisettica.
La mucca legata al palo osserva con sospetto una piccola moschea bianca e verde che echeggia il canto del muezzin almeno cinque volte al giorno, ricordandole di essere in un paese abitato da milioni di musulmani, comunità vulnerabile di questi tempi.
Il senzatetto è dritto su un piede, ringrazia con un cenno del viso rivolto a est il Sole, immagino. Incontro il suo sguardo. Lui il mio. Sorride. Mi irradia di luce. Poi si volta, ringrazia persino la moschea e scompare in un baleno lasciando dietro di lui quel sorriso penetrante.
Lo accolgo dentro di me in un processo di introiezione, così come spesso accade con le narrazioni dei media per chi non rispetta quel ‘distanziamento sociale’ da ciò che lo circonda. Le pratiche rappresentative del fenomeno stanno trovando sempre più legittimazione all’interno dell’opinione pubblica e sono tendenzialmente incanalate su binari già noti, tra i quali emerge quello del contagio, ossia del male sociale come effetto nefasto proveniente dal di fuori.
In Italia erano la Cina e cinesi, in India sono la Cina, l’Europa e, aihmé l’Italia e gli italiani. Si sa che i cinesi in India non hanno mai goduto di una buona reputazione.
Il dispregiativo cinki (della Cina), è infatti riservato alle popolazioni del nord-est del sub-continente indiano, spesso vittime di pogrom da parte dei gruppi militanti del nazionalismo ultrahindu.
In questo momento nemmeno i bianchi suscitano simpatia e stima, anzi aggiungendo una ‘g’ e rovesciando per un istante il paradigma della bianchezza-purità, non sarebbe scandaloso parlare di sti(g)ma.
Le pratiche discorsive, a livello retorico, stanno infondendo grandi ondate di calore all’interno dei discorsi etno-nazionalisti e paventano la via verso l’inasprimento dei dispositivi di sicurezza e la protezione dei confini, interni ed esterni.
Chiusura delle frontiere e nazionalismo insomma. L’India sembra seguire l’esempio di Israele, dopo aver comprato di recente un ingente quantitativo di armamenti leggeri piuttosto che investire le proprie risorse in ambito medico-sanitario.
Per quanto riguarda invece i provvedimenti amministrativi e le misure di contenimento per arginare l’epidemia, ritengo esse abbiano del potenziale preoccupante per future elaborazioni di natura politica.
Come altrove, parallelamente alle continue evoluzioni del quadro normativo, sta germinando infatti un nuovo linguaggio, si rinforzano le categorie semantiche di chut e achut, puro e impuro, pap e punya, peccati e meriti, concetti tanto cari alle teorie dell’hindu dharma così come a qualche retto Pandit Banarsi che non perde occasione di puntare il dito contro l’Islam e l’Occidente.
Si intonano mantra vedici rivistati in via eccezionale per l’emergenza. La parola Corona scalza con prepotenza vetusti malanni. Cominciano a esser citati testi sacri e fonti puraniche circa la premonizione di questa sciagura e l’attestazione del termine Corona, ormai onnipervasivo, di cui tuttavia si ignora il significato etimologico.
Ovviamente era stato tutto predetto sin dall’alba dei tempi, dagli antichi veggenti. Si sa che le fonti sacre non sbagliano mai. E ora? La prossima mossa sarà mica quella di trovare espedienti per liberarsi dello straniero che, seppur asintomatico, come nel caso di chi scrive, è pur sempre uno scomodo vicino di casa, potenzialmente infetto?
Si chiama la polizia al numero d’emergenza, si allerta la proprietaria circa un colpo di tosse sospetto avvertito verso le ore cinque dello storico giorno del ‘janta carfew’, il coprifuoco del popolo, corrispettivo indiano del #tuttiacasa.
Questo coprifuoco di portata enciclopedica è stato proclamato dal primo ministro Narendra Modi domenica 22 marzo in un discorso alla nazione. Squilla il cellulare. “Edoardo, tutto bene? Mi hanno appena detto che sei stato contagiato!”.
Incredulità? Sangue al cervello? Ma no, trascendenza. Da noi in Italia, in questo momento di allerta sociale e di sanzioni amministrative, ci sarebbero gli estremi per una denuncia per procurato allarme, qui il tutto finisce in grandi risate.
Il nuovo mantra è “Aum shanti, Corona ji, shanti”. E allora facciamo finta che anche questo episodio in realtà non abbia necessità di esistere. Del resto fa parte anch’esso del moh-maya, ossia, tutto ciò che non è, alla fine finisce per svelare ciò che davvero è.
Lo ripete serafico Hari Das Tyagi ji, rinunciante ultrasettantenne dell’ordine dei Ramanandi, il cui invito puntuale, ogni mattina, mi proietta mentalmente ad infrangere le norme del lockdown per raggiungerlo nel suo ashram a due passi dal sangam, l’unione dei fiumi sacri Varuna e Ganga.
Posto davvero speciale ma troppo distante rispetto al luogo in cui mi trovo ora. Poi penso “C’è sempre la Ganga”, la Madre che scorre e protegge dai pericoli e dalle insidie. Faccio un giro di telefonate ai miei amici barcaioli di Banaras.
Niente. Anche loro preferiscono non rischiare o forse hanno semplicemente paura di traghettare un videshi.
Il prezzo da pagare potrebbe essere esagerato e dall’esito incerto. Percepisco al tempo stesso una grande vicinanza spirituale da parte delle persone che conosco da tempo, dai vicini musulmani che hanno smesso di sfornare le tandoori roti a tutte le ore, dai sadhu e dagli aghori che hanno rinunciato da tempo all’ego, ai beni mondani, all’affermazione sociale e di certo all’assistenza medica del sistema sanitario indiano.
Alcuni di essi sono convinti che in fin dei conti il Corona non è altro che la personificazione del Kali Yuga, di un’epoca oscura che dura oramai da secoli e che terminerà chissà quando.
Ci si cura colla respirazione e con anni di pratiche nemmeno troppo austere, stando alle loro testimonianze. Il controllo del respiro, questione di vita o di morte. Del resto i polmoni servono a quello. Da fare in auto isolamento, sì, magari in una grotta scavata nella roccia, magari in camera a casa tua, in unione col Divino che è in noi, uomini e donne, nessuno escluso. Noi esseri umani siamo tutti espressione della Realtà Suprema in fondo.
Sintetizzando in breve il Vedanta, ‘conosci te stesso, conosci l’Assoluto’. Rudranath, un amico aghori con legami nell’ordine dei Nath, tossendo a più riprese ama ricordare a chi non lo sapesse che è necessario morire dentro, bruciare il Sé, l’attaccamento, le passioni, le paure, i condizionamenti, le proiezioni e le rappresentazioni fasulle.
La via da seguire? Facile dice lui, ardere come i cadaveri del campo crematorio di Manikarnika, lo shamshan, la sintesi della vita e della morte per eccellenza, più che mai calzante e terapeutica in questo momento di crisi e smarrimento. Quale miglior monito per la sospirata ripartenza? Ad aprile, a maggio? Perché non da ora?