di Francesco Fusi and Rachele Renno
4 Ottobre 2021
Una ricostruzione storica di una rotta sempre più letale
Quando sentiamo parlare di Canarie il nostro immaginario si focalizza soprattutto sulla bellezza di un arcipelago composto da sette isole mozzafiato (più altre isolette minori), appartenenti alla Spagna nonostante geograficamente vicine alle coste dell’Africa nord- occidentale.
Isole subtropicali la cui estensione viene frenata dalla forza dirompente dell’Oceano Atlantico. Quando sentiamo parlare di Canarie dunque inevitabilmente immaginiamo il classico posto di mare, di vacanza; ma il mondo non è uguale per tutti.
Al contrario Canarie per generazioni di migranti significa solo una cosa: la ruta màs peligrosa (la tratta più pericolosa) tanto da far scomparire in mare la maggior parte delle imbarcazioni che salpano dalle coste africane.
Ed ecco che all’accezione di migrante si affianca anche quella di desaparecidos, è così che negli ultimi anni si etichetta il fenomeno migrantes desaparecidos.
Le imbarcazioni che vengono chiamate pateras sono precarie, fatiscenti già dalla partenza, stracolme di persone che combattono contro l’oceano, che si sa non fa sconti a nessuno; e in mare bisogna anche ricordarsi di eludere i controlli delle pattuglie dei differenti Paesi che si attraversano. Insomma la ruta canaria è un’impresa che nella memoria
collettiva delle migrazioni viene ricordata per la sua brutalità.
Geopolitica dell’orrore
Ma da dove provengono queste migrazioni? Innanzitutto bisogna dividere il fenomeno migratorio verso le Canarie in due zone: la prima riguarda la zona del Maghreb, dove i migranti salpano principalmente dalle spiagge di Tan-tan y Tarfaya.
Le migrazioni “africane” invece partono da molto più lontano: Gambia, Senegal, Costa D’avorio, Mauritania. Tratte che richiedono una navigazione di almeno 12-14 giorni prima di raggiungere la Spagna, dove risulta estremamente facile perdere la rotta o incappare in tempeste.
Nonostante negli ultimi tempi i principali quotidiani spagnoli riportano le disgrazie in mare aperto, la ruta canaria non nasce oggi. La prima vera crisi risale al 2006 con quella che fu chiamata: crisis de los cayucos, quando più di 36mila persone in un solo anno arrivarono sulle isole.
Questo fenomeno fu una risposta alla militarizzazione delle frontiere di terra di Ceuta e Melilla, e vide coinvolto il governo spagnolo in una crisi senza precedenti tanto da distribuire migranti ovunque: aeroporti, stazioni marittime, palestre, scuole.
La seconda crisi si pone a cavallo tra il 2007 e il 2010, quando durante la grande recessione economica il governo spagnolo decise di fermare l’immigrazione irregolare promuovendo il processo di esternalizzazione delle frontiere, così militari iberici iniziarono a presiedere i porti della Mauritania e del Senegal.
Le migrazioni sono sempre soggette a quelle che possiamo definire reazioni a catena, così il fenomeno prende nuovamente forma agli inizi del 2017, quando Erdogan insieme agli accordi con l’UE bloccò la porta d’oriente a milioni di migranti, la tratta mediterranea con le continue morti in mare aveva i riflettori puntati addosso, così si riaccesero le migrazioni verso le isole spagnole.
Nei primi 7 mesi del 2017 la Spagna superò addirittura la Grecia per numero di sbarchi con circa 12.000 arrivi di cui 9738 alle Canarie.
E per finire, ma non meno grave, le migrazioni del 2019 e del 2020, hanno ripreso il loro corso a causa della pandemia che ha congelato se non distrutto le economie dei paesi africani spingendo migliaia di giovani a partire, spaventati sia dai controlli che dalla brutalità delle mafie migratorie delle rotte via terra. Aldilà dei numeri, quella di oggi risulta essere una crisi senza precedenti a causa dell’altissimo tasso di minori e donne che affrontano il viaggio della speranza in mare.
di Francesco Fusi
Emergenza migratoria e Covid-19
La parola emergenza porta con sé un carattere di urgenza, ma allo stesso tempo di provvisorietà, una situazione temporanea in cui bisogna intervenire per l’emergere di una problematica; piuttosto che di emergenza migratoria sarebbe corretto parlare di un fenomeno che sta assumendo caratteristiche croniche e che si sta trasformando in un vero e proprio limbo in cui le vite di migliaia di persone sono sospese per giorni, mesi, addirittura anni.
Con l’inizio della crisi sanitaria dovuta al Covid19, infatti, le isole Canarie si sono trasformate da punto di arrivo e smistamento dei migranti diretti in Europa a veri e propri hotspot e campi profughi sovraffollati, in cui le farraginose procedure burocratiche si sono complicate sempre più.
Da un lato, ciò è dovuto alle nuove regole del Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo che è stato presentato a settembre 2020, che ha reso più severe le procedure di respingimento alla frontiera ed anche quelle di accoglienza.
In più, riguardo le Canarie, dal 2020 è in atto il cosiddetto Plan Canarias del Ministero dell’inclusione del governo delle Canarie, che prevede la costruzione di sei centri di accoglienza, i CETI (Centros de Estancia Temporal de Inmigrantes), la cui traduzione porta con sé quel carattere temporaneo a cui accennavamo.
I CETI, che avrebbero una capienza di circa 7mila persone, anche a causa dell’emergenza sanitaria, hanno fatto sì che nascessero dei punti caldi in cui i migranti vengono accolti, trattenuti e lasciati in attesa, in balia del proprio destino.
Un destino che sembra comune a quello di Lesbo e di Lampedusa, tutte isole all’estremo sud d’Europa, un destino di accoglienza ma che si sta trasformando anche in quello della disperazione.
Tra questi punti caldi, alle Canarie, abbiamo visitato il campo de Las Raices a Tenerife, nel municipio de La Laguna, uno dei 6 centri di detenzione creati per il Plan Canarias. Il nome di questo campo, Las Raices, ex base militare, non avremmo mai immaginato che fosse collegato a Francisco Franco: è proprio in questo cuartel militar che il 17 giugno 1936 avvenne un incontro tra i principali comandanti militari di Tenerife ed il generale Franco, che all’epoca era comandante in capo delle Isole Canarie, con l’intento di pianificare il golpe de estado.
Il campo mantiene dall’esterno la struttura militare, con recinzioni e filo spinato, e grossi casermoni bianchi, immerso in una pineta umida, anche in piena estate.
Nonostante ci sia stato impedito di entrare all’interno per mancanza di permessi, fuori al campo ci sono numerose tende in cui vivono molti migranti che per scelta o in seguito ad un’espulsione, hanno deciso di vivere lì, come atto di resistenza e, soprattutto, di necessità. Il campo de Las Raices infatti è stato al centro di forti critiche e di proteste e manifestazioni da parte non solo delle associazioni locali (come la Red Solidaria Apoyo Migrantes) che si occupano dell’approvvigionamento di cibo, vestiti e coperte, ma anche da parte degli stessi migranti.
All’interno del campo, vivono in tende sovraffollate che sono arrivate a contenere fino a 20 persone ciascuna, tende che a causa della forte umidità de La Laguna, spesso si allagano, lasciando i migranti camminare e dormire nel fango ed acqua sporca. A ciò si aggiungono le docce senza acqua calda, le scarse condizioni igieniche ed il cibo che i migranti stessi definiscono “muy malo”. Quello del cibo è un aspetto su cui l’attenzione mediatica è stata così forte da portare ACCEM, l’ong che gestisce il campamento, a cambiare la ditta esterna che si occupa della preparazione dei pasti, dopo che numerosi migranti avevano registrato malori o sono stati addirittura ricoverati in ospedale.
Se pensiamo che, secondo i dati dell’OIM, nel 2020 circa 23mila persone hanno percorso la rotta Atlantica, e che solo nel giugno scorso sono arrivate alle Canarie 1381 persone, ci rendiamo conto di quanto questi campi possano trasformarsi in un incubo.
Inoltre, gli ostacoli burocratici per accedere allo status di protezione internazionale creano una situazione in cui i migranti non possono muoversi dal Paese di primo ingresso e non possono neppure lavorare. Il Covid-19 è stato solo un catalizzatore che ha portato maggiormente alla luce questo processo, evidenziando non solo i limiti materiali ma anche psicologici che queste persone sono costrette a vivere. Nel campo de Las Raìces avevamo di fronte a noi persone, non numeri. Persone con sogni, aspettative, timori, frustrazioni e dolori. Ma soprattutto tanta speranza e tanta voglia di vivere. Di farcela.
di Rachele Renno
Adil e il suo gimbrie
“Quando tu fai questo viaggio sai che la tua vita potrebbe finire, quando fai il viaggio sulla patera tu uccidi una parte di te stesso. Ho ucciso una parte di me, che è rimasta in Marocco. Ma io volevo cambiare la mia vita e l’ho fatto.” – Così Adil racconta l’esperienza del viaggio in mare per arrivare a Tenerife.
“Stare nella patera è molto difficile, non lo consiglio a nessuno, noi abbiamo passato 5 giorni senza mangiare e senza bere. Abbiamo avuto un problema con il GPS e non sapevamo dove eravamo ma fortunatamente la Croce Rossa ci ha salvati.”
La testimonianza di Adil, del suo viaggio in mare, è solo una delle tantissime che potremmo trovare in qualsiasi hotspot. A soli 22 anni, Adil è scappato dal Marocco, portando con sé sull’imbarcazione solo il suo strumento musicale, il sintir, anche conosciuto come gimbrie, uno strumento a corda fatto di legno e pelle d’animale, di origine gnawa, i discendenti degli schiavi neri che oggi vivono nel Nord Africa berbero.
Ci racconta che la pandemia ha paralizzato l’economia del Marocco ma, a differenza di altri non ha lasciato il suo Paese per fame, ma per il suo sogno di diventare campione di taekwondo si è spinto oltre la frontiera.
Gli occhi e l’energia sono quelle di un ragazzo giovanissimo che lotta per inseguire una qualità di vita migliore con l’incoscienza di chi a 22 anni vuole affermarsi come qualsiasi suo coetaneo.
Ma il sogno europeo purtroppo per Adil si è scontrato da subito con la dura realtà di un migrante in attesa dello status di richiedente asilo. Mentre sorride e suona il suo strumento ci troviamo in una tenda dove vivono 4 persone, tra coperte sporche, e servizi igienici inesistenti. Qui il Covid è l’ultimo dei pensieri per chi cerca di sopravvivere nel quotidiano.
di Francesco Fusi e Rachele Renno