Come tutti i fine settimana, accanto al seggio elettorale della Pintana, un comune nella cintura urbana di Santiago, si estende il mercato all’aperto.
Le persone passano davanti ai cancelli con il carrellino per la spesa, ma solo poche – le mani vuote o in tasca – girano per entrare nella scuola superiore adibita a sede delle urne.
Eppure quello del 15 e 16 maggio non è stato un week end qualsiasi in Cile, si è svolta la votazione più grande della storia democratica del Paese: in gioco c’erano le elezioni di sindaci, consiglieri, governatori regionali – per la prima volta scelti dalla cittadinanza – e soprattutto i delegati che oggi formano la Convenzione Costituzionale incaricata di riscrivere la Carta Magna cilena.
Un reclamo che era stato presente fin dai primi giorni nelle proteste esplose a partire dal 18 ottobre 2019, poiché negli articoli dell’attuale Costituzione, redatta dal regime militare di Pinochet nel 1980, si trovano i pilastri che reggono il modello neoliberista sperimentato e applicato in Cile da oltre trent’anni.
“Ho votato per la prima volta lo scorso 25 ottobre al plebiscito, e questa è la seconda” spiega Constanza, 28 anni, sulla porta del seggio. “Prima non mi interessava la politica, ma con la rivolta ho cominciato a informarmi, andare in piazza, e ora è importante votare per dare seguito alle rivendicazioni” spiega.
Alle urne si è presentato solo il 43,3% della popolazione, il numero corrisponde alla media delle votazioni degli ultimi anni, ma è più basso rispetto all’affluenza al plebiscito del 25 ottobre scorso, che ha superato il 50%, oltre un milione di persone in più.
Secondo lo storico Sergio Grez, studioso dei movimenti popolari in Cile, la bassa partecipazione elettorale è un fenomeno che viene da lontano e ha molte cause, tra cui “la sensazione radicata negli anni che il voto non cambia nulla, che la destra e la ex Concertación sono la stessa cosa”.
Questa prospettiva si è modificata parzialmente con la ribellione popolare a partire dall’ottobre 2019, ma non si è rispecchiata in questa elezione. La sua ipotesi è che “una percentuale di persone che ha partecipato al plebiscito, questa volta non è andata a votare perché si è resa conto delle regole e degli ostacoli posti dalla casta parlamentaria per limitare la sua espressione libera e sovrana, come l’obbligo di riunire due terzi di consensi per approvare qualsiasi mozione, o il divieto di discutere i trattati internazionali e i requisiti che hanno complicato l’iscrizione delle candidature indipendenti”.
Queste restrizioni all’attività della Convenzione – che non ha le stesse prerogative di un’Assemblea Costituente – sono state negoziate nell’Accordo per la Pace Sociale e la Nuova Costituzione, firmato dalle forze politiche di governo e opposizione il 15 novembre 2019, dopo il primo mese di intense proteste e poi completate dalla riforma costituzionale del mese seguente. L’Accordo fu duramente criticato dalle organizzazioni di base e dalla gente che in quel momento occupava quotidianamente le piazze.
Nei mesi seguenti sono state conquistate l’introduzione della parità di genere e la riserva di 17 seggi per i popoli originari, (sebbene con l’esclusione degli afro-discendenti), ma è rimasto lontano l’obiettivo di un processo costituente democratico e partecipativo, equo e sovrano, che oggi torna invece a occupare l’attualità del dibattito.
La Convenzione infatti sarà chiamata in giugno a redigere il proprio Regolamento interno di funzionamento, e l’arco politico dei delegati eletti lascia pensare che potrebbero allearsi per forzare le regole stabilite dall’Accordo e stabilirne di nuove.
Il risultato elettorale ha espresso chiaramente il rifiuto della casta politica, individuata come responsabile della riproduzione di un modello neoliberista spietato che fa del Cile uno dei Paesi con la più ampia forbice di diseguaglianza sociale dell’America Latina.
La destra attualmente al governo con Sebastian Piñera, che si è presentata alle elezioni unita nella lista Chile Vamos per capitalizzare i suoi voti, ha ottenuto solo 37 seggi nella Convenzione su 155, un risultato lontano da quel terzo del totale (52 seggi) che gli avrebbe permesso di porre il veto sulle proposte dell’organo costituente.
Anche i partiti della vecchia Concertación – il blocco politico che ha governato in alternanza con la destra negli ultimi trent’anni – sono stati colpiti duramente dall’elettorato: dei 25 seggi ottenuti, per esempio la Democrazia Cristiana ne ha guadagnati solo 2, il Partido Por la Democracia 3, e solo il Partito Socialista ha avuto maggiori consensi, con 15 seggi. Il disorientamento in cui navigano nel post-elezioni si è osservato anche nelle frenetiche discussioni della settimana scorsa tra DC, PS e PPD per presentare candidature comuni alle presidenziali del prossimo novembre.
Al contrario sono cresciuti i consensi al Frente Amplio e al Partido Comunista, non solo nella Convenzione (28 delegati come lista Apruebo Dignidad), ma anche nelle comunali e regionali, con figure nuove come Irací Hassler, che sarà la prima sindaca comunista di Santiago centro, o Rodrigo Mundaca, referente della lotta per l’acqua e nuovo governatore della regione di Valparaiso, che si era candidato con il Frente Amplio.
“Ho votato per candidati indipendenti, nessuno dei soliti partiti politici che in un modo o nell’altro ci hanno sempre ingannato” dice Nicolas fuori dal seggio de La Granja, un comune nella periferia sud della capitale. “Penso che questo voto sarà uno spartiacque, segnerà un prima e un dopo in Cile” afferma, anche lui è stato in piazza durante la rivolta, fino a quando il Covid-19 ha costretto la popolazione a rinchiudersi in casa, nel marzo dello scorso anno.
Il grande risultato delle liste indipendenti è stata una sorpresa perché competevano in condizioni diseguali rispetto ai grandi partiti istituzionali, a partire dai requisiti per potersi iscrivere al sistema elettorale ai fondi per promuoversi durante la campagna e fino all’accesso ai media. Eppure Camila, che con i suoi 18 anni ha votato il 16 maggio per la prima volta, così come Lorena, signora che ha accompagnato alle urne tutta la famiglia, hanno scelto con convinzione candidati indipendenti per la Convenzione, e come loro, quasi due milioni di elettori e elettrici.
La lista del Pueblo, che porterà alla Convenzione 27 delegati, è emersa come un soggetto politico nuovo, si è formata rapidamente come un coordinamento su scala nazionale tra leader di movimento, organizzazioni sociali e rappresentanti delle assemblee autoconvocate che si sono conosciuti durante i mesi della ribellione popolare.
Per il peso che avrà nella Convenzione, diversi dirigenti di altri partiti si sono già avvicinati alla Lista del Pueblo per dialogare e possibilmente costruire alleanze.
Rafael Montecino, uno dei fondatori, ha però dichiarato che “come Lista del Pueblo non inizieremo a conversare con i partiti finché non saranno liberati i più di 600 prigionieri politici che si trovano ancora nelle diverse carceri cilene” e conclude che all’interno della Convenzione, “parleremo con le persone che siano completamente allineate con le richieste del popolo”.
La liberazione dei prigionieri della rivolta, in molti casi in carcere preventivo da oltre un anno, è una richiesta trasversale delle candidature indipendenti, che emerge anche dalla piattaforma femminista e dalle liste territoriali.
Secondo Sergio Grez, esperto di processi costituenti e membro del Forum per l’Assemblea Costituente che lavora da otto anni attorno al reclamo per una nuova Costituzione, “di fronte a questo terremoto politico avvenuto con le elezioni c’è allegria, ma bisogna anche mantenere la mente fredda.”
Tra i compiti fondamentali per i prossimi mesi individua mantenere alta la mobilitazione sociale e alimentare l’interazione con i delegati alla Convenzione Costituzionale, soprattutto quando vengono dalle assemblee territoriali, dalle organizzazioni sociali, dal movimento.
“La consultazione permanente della base è fondamentale per evitare accordi alle spalle della cittadinanza, come fece la Concertación con la destra pinochetista alla fine degli anni ’80 e all’inizio dei ’90” sottolinea Grez, “la sconfitta della casta politica alle elezioni apre uno scenario fluido, in cui tutto è possibile, ma dipende in gran parte dai protagonisti della ribellione popolare iniziata il 18 ottobre se riusciremo ad avanzare.”