Quattro amici in viaggio negli Stati Uniti da una costa all’altra. Settimana 1: la East Coast
Ottomila chilometri in auto, diciotto stati e venticinque città, attraversate o esplorate con più di trecento chilometri di cammino. Un viaggio nato dall’ispirazione letteraria dell’epico e folle On the road di Jack Kerouac e realizzato grazie alla convinzione di un gruppo di amici.
Quattro settimane per provare a conoscere e raccontare un paese che, nel bene e nel male, influenza profondamente la vita di ciascuno di noi da almeno settant’anni a questa parte. Un’esperienza ancora più difficile da descrivere, considerando che gli Stati Uniti sono senza ombra di dubbio il paese più raccontato al mondo.
Libri, film, musica, reportage, esperienze altrui e la semplice attualità ci hanno fatto conoscere talmente a fondo certi luoghi che a tratti sembra impossibile distinguere impressioni autentiche e ricordi surrogati, o districarsi nella ridda di aspettative maturate prima della partenza.
Per provare a capire la nazione e sintonizzarci con lo stile di vita locale siamo partiti dalla base: l’automobile. Che negli Stati Uniti non è solo un mezzo di trasporto, ma un’appendice, l’unità di misura sulla quale è costruito il paese.
A capire il perché bastano pochi giorni: le distanze sono incommensurabili, è perfettamente normale guidare per ore senza trovare un centro abitato sulla propria strada.
Per avere un termine di paragone, è come se il nostro orizzonte di riferimento invece dell’Italia fosse l’Europa intera, senza però quella densità di abitanti che caratterizza il nostro continente.
Un sistema di trasporti pubblici diffuso e capillare è semplicemente impensabile negli Stati Uniti, motivo per cui l’uso dell’auto ha determinato così profondamente l’evoluzione dei consumi e degli stili di vita.
Persino in una città come New York, che vanta una delle prime e più estese reti di metropolitana al mondo, il sistema del trasporto pubblico comincia a mostrare qualche crepa.
Oltre alle temperature estreme alle quali i newyorkesi sono ormai abituati, lavori in corso continui e i conseguenti disservizi rendono spesso difficile servirsi della metro, al punto che nei giorni della nostra permanenza in città il sindaco Bill De Blasio era impegnato a giustificare le carenze del sistema presentando le prospettive di rilancio.
Il nostro viaggio è cominciato proprio dalla Grande Mela. Dall’alto abbiamo visto la città scintillare maestosa nella notte, dal basso abbiamo osservato alcuni tra i simboli più noti e potenti della nazione. Il pulsare continuo della vita a New York ha un fascino unico, innaturale ma innegabile, condensato dalle luci intense di Times Square, che sembra poterti inghiottire da un momento all’altro nella sua marea umana indifferente a ogni individualità.
Come e più di altre città che vedremo nei giorni successivi, a New York i segni dei mutamenti economici sono evidenti, incisi sul tessuto urbano come cicatrici o svettanti come trofei. La High Line è una ferita curata, che ha restituito a tanti newyorkesi il piacere di una passeggiata nel verde in mezzo ai grattacieli.
I parchi sono la linfa vitale di queste città: lo scopriamo assistendo stupiti a uno spettacolo di rapper acrobati a Central Park, che ci ipnotizza come un gioco di prestigio.
Dopo cinque giorni di immersione nel centro del potere economico, proseguiamo lungo la costa orientale per raggiungere il nucleo della vita politica, attraverso la città che ha visto nascere gli Stati Uniti.
Philadelphia è a tutti gli effetti la culla degli Usa, dove si respirano ancora gli ideali fondanti della nazione: qualunque cosa tu abbia realizzato nella vita, il percorso di uomini come Benjamin Franklin e Thomas Jefferson ha il potere di farti sentire incredibilmente piccolo.
Nella Independence Hall si percepisce anche l’incertezza sulla riuscita di quello che all’epoca era davvero – anche se oggi non ci si pensa mai – un vero e proprio un esperimento democratico.
Un esperimento che, centoquaranta miglia più a sud, ha preso la forma imponente di una capitale realizzata dal nulla per il paese appena nato: a Washington DC si concentrano, simbolicamente raccolti nello spazio del National Mall, i luoghi del potere e della memoria.
Anche chi è abituato a bellezze architettoniche più antiche e autentiche, non può che rimanere colpito dal bianco neoclassico degli edifici che si stagliano netti contro il cielo azzurro, dalle colonne della Corte Suprema, dalle cupole del Campidoglio.
Un senso di profondo rispetto sembra emanare dai muri stessi, non tanto per la bellezza in sé ma per il significato che intendono comunicare: nelle parole di John Adams, l’idea di un governo di leggi, non di uomini, la base stessa della democrazia.
A riportarci bruscamente alla realtà del presente ci pensano i posti di blocco intorno alla Casa Bianca, praticamente inaccessibile per un isolato in ogni direzione.
Con alle spalle la costa est e la prima settimana di viaggio, puntiamo decisi verso nord. Abbiamo visto e vissuto già tanto, eppure siamo solo all’inizio del viaggio. Ed eccoci di nuovo sulla strada.
Settimana 2: il Northeast
Da Washington DC al confine con il Canada è un lungo viaggio, più di quattrocento miglia incollati all’asfalto.
Ma ne vale la pena, perché la strada sembra portarci indietro nel tempo, attraverso le rigogliose foreste della Pennsylvania ancor oggi abitate dalle comunità religiose più diverse, accolte e benvolute dal fondatore dello stato William Penn.
L’idillio però viene infranto dal più infido e banale degli imprevisti: abbiamo dimenticato il borsello con metà dei nostri contanti a Washington DC. Panico: abbiamo fatto già troppa strada per tornate indietro, e ce ne manca altrettanta per arrivare.
Ci fermiamo nella prima area di servizio che capita. Affacciati su un parcheggio da centinaia di posti, completamente deserto, ci sono un enorme mall e un cinema multisala, anch’esso praticamente vuoto.
Entriamo nel cinema per chiedere un telefono, ci troviamo tre ragazzi più o meno della nostra età stupiti da tanta concitazione. I primi tentativi di chiamata vanno a vuoto: è un’interstatale e “Qui ormai nessuno usa più questi affari”, cioè i telefoni fissi.
Riusciamo a comporre il numero dell’albergo di Washington, ci rispondono, spiego la situazione nel mio miglior inglese. “Chiedo al mio collega di controllare subito” è la risposta.
Minuti di attesa interminabili mentre cominciano ad arrivare i primi clienti del cinema, che alla postazione della biglietteria trovano noi invece dei ragazzi dello staff, pazientemente in attesa dietro al bancone del bar.
Finalmente il responso: “L’abbiamo trovato”! Quel maledetto borsello verde era dove lo avevamo lasciato. Ce lo facciamo spedire a Los Angeles per essere certi che arrivi in tempo e ce ne andiamo rinfrancati dalla gentilezza di quei tre ragazzi e dalla fortuna che ci assiste.
Il viaggio riprende attraverso i laghi della regione di Finger Lakes, nello Stato di New York, anteprima dello spettacolo che ci aspetta oltre confine.
Il giorno dopo infatti saremo rapiti dal rombo incessante delle cascate del Niagara, all’incontro tra i laghi Erie e Ontario. Una nebbia d’acqua che per un attimo fa sparire il mondo intero, lasciandoti solo con te stesso. Che tu sia pronto o meno.
La tappa che segue il breve sconfinamento in Canada è Detroit. I morsi feroci della crisi economica sono evidenti qui più che altrove: in un centro che non sembra aver troppo risentito della recente bancarotta del municipio, domina senza rivali l’imponente sede della General Motors.
Ma appena fuori è un susseguirsi ininterrotto di case abbandonate, in totale circa 80 mila. È il segnale più evidente dello spopolamento che ha colpito la città, ridotta oggi a un terzo degli abitanti rispetto ai suoi anni migliori.
Con ancora negli occhi la lunga coda di persone che affolla un banco dei pegni sulla 8 Mile, reso celebre da una trasmissione televisiva trasmessa anche in Italia, arriviamo a Chicago sul finire del giorno.
La Città Ventosa recita senza alcuna difficoltà il suo ruolo di regina dei laghi, accogliendoci sorniona con un tramonto che colora di ogni luce la sua inconfondibile skyline sulle rive del lago Michigan.
Chi non la conosce resta sorpreso da questa città, ricca di spazi dedicati all’arte pubblica e gratuita, dove il principio tipicamente americano del parco come punto focale dello spazio urbano – invece della piazza europea – trova la sua piena affermazione nello spettacolare Millennium Park.
Di sicuro, però, qui come nella Grande Mela i musei non si fanno particolarmente apprezzare per l’orario di apertura. Tutto chiude estremamente presto e il personale si fa notare per la rigidità con cui fa rispettare questa organizzazione un po’ troppo anglosassone per noi mediterranei.
“Il museo è chiuso!” ci urla letteralmente un’inserviente dell’Art Institute mentre cerchiamo disperatamente di sfruttare gli ultimi preziosi minuti di apertura.
Non “Sta chiudendo”, proprio “È chiuso”. E quando facciamo notare che l’ala dove ci troviamo dovrebbe serrare i battenti mezz’ora dopo il resto del museo, la parola “Chiuso!” è l’unica risposta che otteniamo. Più chiaro di così…
Il cibo ci offre qualche soddisfazione in più: di Chicago infatti ricorderemo bene la deep dish pizza, originale reinterpretazione di quella alta napoletana, che si contrappone alla più bassa pizza pie tipica di New York e più diffusa nel resto del paese.
Ma Chicago segna anche un cambio di rotta nel nostro viaggio, che da qui comincia a seguire la mitica Route 66. Rotta a sud-ovest, spostamenti più lunghi e frequenti caratterizzano ora le nostre giornate.
A St Louis non possiamo mancare lo spettacolo del Gateway Arch di Eero Saarinen, mirabolante sfida alle legge di gravità che offre un’incomparabile vista dall’alto sulla principale città del Missouri.
Il Cancello dell’Ovest ci apre la porta verso le grandi pianure. Dopo giorni e giorni di nuvole alternate a qualche raro sprazzo di sole, a Oklahoma City ci aspetta la pioggia.
Il paesaggio è reso ancora più desolato dall’acqua che cade a scrosci, e non è difficile immaginare la sensazione di vivere isolati in questi luoghi, in qualche caso a miglia e miglia di distanza dall’abitazione più vicina.
L’Oklahoma ha una storia travagliata: considerate poco appetibili, con l’Indian Removal Act del 1830 queste terre furono scelte dal presidente Andrew Jackson per la ricollocazione forzata di 39 tribù di nativi americani, tuttora presenti nella cultura dello stato come nella sua bandiera.
L’impatto della grande depressione e della grave siccità nota come Dust bowl negli anni ’30 del Novecento hanno inciso ulteriormente sul destino dell’Oklahoma, risollevato solo in parte dai pozzi petroliferi che fanno toccare alla benzina prezzi incredibilmente bassi (1,89 dollari al gallone).
Anche qui saltano agli occhi le case abbandonate, spesso lasciate con tanto di auto ad arrugginire fuori, come a seguito di una fuga improvvisa.
Quella del leave behind sembra una vera e propria filosofia negli Stati Uniti, come dimostrano gli innumerevoli copertoni lasciati sul ciglio della strada o la scarsa presenza della raccolta differenziata, che si affaccia timidamente solo in qualche quartiere nelle grandi città.
Seguire il tracciato originario della Route 66 – compreso il tratto di appena 18 miglia in Kansas – è molto istruttivo da questo punto di vista.
La vecchia Mother Road, soppiantata dalle veloci e larghe Interstate, è ormai una strada fantasma, dove la maggior parte delle stazioni di servizio ha chiuso i battenti. I clienti passano sulle nuove strade, magari distanti solo pochi metri, e non si fermano più alla luce dei vecchi neon.
Oggi però diverse associazioni lavorano per il recupero storico e turistico di questo tracciato di oltre quattromiladuecento miglia, che ha collegato Chicago a Santa Monica (Los Angeles) per quasi sessant’anni, dal 1926 al 1985.
E non c’è niente di più curioso e divertente, stradario storico alla mano, che abbandonare la strada principale, perdersi e ritrovarsi alla ricerca della vera Route.
Dopo le grandi pianure, la strada ci porterà dritti nel profondo Southwest. Texas, poi New Mexico e Arizona, prima della deviazione in Nevada che ci condurrà in California. Siamo praticamente a metà del nostro viaggio, tanta strada fatta e altrettanta ancora da fare.
Sullo sfondo gli scontri di Charlottesville, con il presidente Trump che soffia irresponsabilmente sul fuoco. E le contraddizioni profonde del paese, che a quasi un secolo dai disordini di Tulsa sembrano essere rimaste le stesse.
Settimana 3: il Southwest
La nostra permanenza in Texas sembra uscita da un film di Hollywood, o da un racconto infarcito di luoghi comuni sugli Stati Uniti.
Gli elementi ci sono tutti: la steak house con porzioni abnormi anche per me che essendo vegetariano mangio solo un contorno, la lavanderia a gettoni nella mattinata uggiosa di Amarillo, il locale di biker che ci squadrano dalla testa ai piedi non appena entriamo.
Incontriamo esattamente il tipo di persona che t’aspetti di vedere nello stato della stella solitaria, tra adesivi pro-Trump con lo slogan Make America great again!, giubbotti con su scritto 2nd Amendament rights (quello delle armi da fuoco, per intenderci), pick up con paraurti anteriori in grado di abbattere un muro e Harley Davidson come se non ci fosse un domani.
Eppure quello che colpisce di più, ancora una volta, è il paesaggio, così vasto da lasciare senza fiato. Abituati ai limiti spaziali dei nostri orizzonti, spesso chiusi da edifici o montagne vicini, si rimane strabiliati di fronte a questi panorami sconfinati, che ti circondano per tre quarti, a volte per ampiezze superiori al campo visivo, spesso senza un singolo edificio in vista.
È proprio vero, come canta Guccini, che il cielo dell’America son mille cieli sopra un continente.
Incredibile a dirsi, la bellezza della vista dal finestrino aumenta ancora in New Mexico, dove il panorama si fa desertico ma con gentilezza, rivelando colori vivaci e inaspettati.
Inaspettati un po’ come l’incontro della mattina dopo in albergo ad Albuquerque.”Di dove siete?” attacca bottone un uomo di mezza età mentre facciamo colazione, dimostrandosi particolarmente interessato alla nostra provenienza. “Sono stato in Italia di recente per lavoro, mi occupo di sistemi di backup per le reti elettriche”.
Dalle nostre facce stranite, l’uomo capisce che sono necessarie ulteriori spiegazioni. “Ci sono luoghi in cui la corrente elettrica non può mai venir meno, come le sale operatorie: io faccio sì che questo non accada”.
La coincidenza si fa singolare, visto che le ragazze del nostro gruppo lavorano entrambe in ambito medico-sanitario.
Gli chiediamo dov’è stato e come ha trovato gli ospedali italiani. “Rispetto a quelli americani e anche a diversi Paesi europei l’Italia ha ottimi standard sanitari – ci spiega – ma è ancora molto indietro dal punto di vista tecnologico”. Niente di nuovo, insomma.
Cerchiamo di fargli capire che per quanto piccola, anche l’Italia è una realtà molto diversificata da una regione all’altra. Il confronto va avanti per un po’, con quella voglia di stare in compagnia tipica di chi sta affrontando un lungo viaggio, fino a quando ci salutiamo mentre il nostro interlocutore scuote la testa, preoccupato dalle notizie del telegiornale.
Ripartiamo: dopo Albuquerque che ci ha introdotti all’animo ispanico del West, Santa Fè ci porta indietro nel tempo alle radici storiche e architettoniche della regione. Anche se infiocchettata per i turisti, la capitale dello stato resta una meta suggestiva e affascinante, con i suoi bassi edifici di adobe che la rendono così diversa dalle altre città americane.
Il nostro percorso sulla Route 66 per il momento finisce qui: torniamo a dirigerci a nord, per ammirare le meraviglie rocciose della Monument Valley e del Grand Canyon. Arriviamo troppo tardi per trovare aperto il Four Corners Monument, e anche l’approdo in albergo nella sperduta Mexican Hat – qualche hotel, un alimentari e un distributore di benzina – diventa un’avventura, nell’oscurità totale del deserto.
La Monument Valley ammalia con le sue forme uniche e i colori rossastri, il Grand Canyon stordisce con la sua vastità e bellezza. Se in queste terre la storia dell’uomo – almeno quella dell’uomo bianco – è relativamente recente, lo stesso non si può dire della natura. Che qui ha avuto un tempo lungo, lunghissimo per produrre i suoi capolavori.
Come si può descrivere quindi la sensazione che si prova a essere catapultati, dopo due giorni immersi in scenari del genere, nello scintillante parco giochi di Las Vegas?
Difficile riuscirci, soprattutto perché la Città del Peccato non è un agglomerato urbano come tutti gli altri, ma quanto di più artificiale si possa vedere nel mondo occidentale di oggi.
Attraversando in auto la Strip, dopo un lungo viaggio a tarda sera nel deserto del Nevada, si ha la sensazione di entrare in un altro mondo. Raccontato e visto in milioni di film, che però non riescono, nonostante tutto, a eguagliare la vista di quelle luci con i propri occhi.
Gli hotel più famosi e celebrati – Luxor, Cesar Palace, Venetian, Excalibur, New York New York – sono quasi tutti collegati tra loro da corridoi dotati di aria condizionata. Le forme favoleggianti delle strutture esterne celano all’interno casinò abbastanza simili tra loro e a dire il vero piuttosto squallidi, novello labirinto dov’è fin troppo facile diventare Icaro con le ali di cera.
L’azzardo non è il nostro forte, ma decidiamo comunque di onorare il pellegrinaggio a Sin City con una serata al casinò. Scommettiamo cifre ridicolmente basse, ci esaltiamo per vincite di pochi spiccioli, insomma sembriamo un gruppo di adolescenti in gita scolastica.
E infatti dopo un po’ vengono a chiederci i documenti, stupiti dell’anno di nascita riportato sulle nostre patenti.
Inutile dire che il bilancio della serata è negativo. Ma il colpo di scena è dietro l’angolo: la mattina prima di partire, colti da un ultimo sprazzo di febbre da gioco, tentiamo la roulette con i 6 dollari rimasti in tasca dalla sera prima.
Venticinque centesimi puntati sul 13 nero ci fruttano la cifra astronomica di 21 dollari, esultanze che nemmeno allo stadio e ce ne andiamo da vincitori.
Ci rimettiamo in strada preparandoci a lasciare il deserto alle spalle, direzione sud-ovest verso l’Eldorado d’America, con tutto quello che porta con sé in termini d’immaginario: sole, spiagge, surf, l’oceano Pacifico. Ce ne andiamo verso la California.
Settimana 4: la West Coast
Il nostro primo approccio con la California ci mette di fronte a una realtà diversa da quella che immaginavamo. Il Pacifico è ancora lontano e il nostro California dreamin’ si scontra con un paesaggio sostanzialmente desertico e un traffico imponente.
Ecco manifestarsi da subito due tra i problemi più impellenti per il Golden State. Da un lato la desertificazione incipiente, che sottrae sempre più spazio alle coltivazioni della serra d’America, creando problemi di siccità sfociati di lì a poche settimane in una serie di gravissimi incendi.
E poi la viabilità. Il leggendario traffico di Los Angeles – esteso per 100 km in ogni direzione al di fuori della città – è solo la punta dell’iceberg. Perché le strade di ogni metropoli dello stato sono costantemente intasate, nonostante il numero e l’ampiezza delle principali arterie viarie.
Il traffico si direbbe un elemento costitutivo della California: strade di sei, sette corsie per senso di marcia completamente piene di auto, quasi mai ferme in coda ma sistematicamente a rallentatore. Le persone non sembrano prendersela nemmeno più, nonostante le ore perse in strada ogni giorno.
Il governo nel frattempo le studia tutte per migliorare la situazione: corsie preferenziali per auto con due o più passeggeri, corsie veloci a pagamento… ma i risultati restano generalmente trascurabili.
Quello che manca è un investimento deciso sul trasporto pubblico: la metropolitana di Los Angeles, pur in fase di espansione, è ridicolmente sottodimensionata rispetto a quella di New York, nonostante l’estensione ben più ampia della città.
Ma prima di L.A. ci aspetta San Diego, con la sua fama di America’s finest city. Una fama dovuta al fascino della passeggiata lungo la baia, alla vivacità della vita notturna e alla dimensione più “umana” rispetto alle principali metropoli della nazione.
Transitando per i ricchi sobborghi di Coronado e La Jolla, in ogni caso, salta all’occhio un’altra caratteristica della California: l’estrema diseguaglianza sociale, evidenziata più che altrove da ville faraoniche e auto di lusso che sembrano uscite da una serie tv.
Arrivati a Los Angeles, siamo ospiti in famiglia dove chiediamo consigli su come muoverci e cosa vedere. Con nostro grande stupore, i refrain più gettonati sono “Dimenticatevi il centro, lì non c’è niente se non i palazzi… meglio i parchi!” e soprattutto “Ma quali mezzi pubblici, è tutto talmente vicino che in auto si arriva in un attimo!”. Sarà…
Decidiamo di ignorare il primo consiglio, anche se inizialmente puntiamo su Griffith Park e Hollywood. Ecco scorrere di fronte a noi i luoghi più glamour e i simboli più noti dello star system: dai cinema Chinese Theater e Dolby (quello degli Oscar) alla Walk of Fame, passando per la celebre insegna sulle colline.
Il centro – proprio lui – riserva qualche sorpresa in più: il nucleo ispanico originario della città – con la casa più vecchia di L.A. – e la suggestiva cattedrale di Nostra Signora degli Angeli, mastodonte realizzato nel 2002 da José Rafael Moneo che trasmette un senso antico di raccoglimento e pace, nonostante le linee radicalmente contemporanee.
Dopo Beverly Hills – altra muscolare ostentazione di ricchezza californiana – arriviamo al molo di Santa Monica. Due ore buone di traffico californiano (accidenti a noi e all’idea di seguire il secondo consiglio!) sono il prezzo da pagare per un appuntamento immancabile: la fine della Route 66, che ritroviamo per l’ultimo saluto prima di ripartire.
La mattina dopo – mentre l’eclissi oscura il sole sopra le nostre teste – siamo a Venice beach, la leggendaria spiaggia dove nacquero i Doors. E ci concediamo quello che resterà il nostro unico bagno nel Pacifico.
Torniamo sulla strada per il lungo viaggio a nord verso Yosemite. Una breve deviazione sulla Pacific Highway ci consente di vedere Malibu, prima di proseguire nell’impervio percorso attraverso le Santa Monica Mountains.
Arriviamo a sera e il parco ci accoglie con l’oscurità. La visibilità non migliora di molto il giorno dopo, a causa degli incendi programmati per agevolare la crescita delle sequoie secolari. Fare terra bruciata intorno per prosperare: una logica che sembra accomunare natura e società, negli Stati Uniti.
Ormai siamo all’ultima tappa. Arrivati a San Francisco c’è da officiare un rito di passaggio che ci preoccupa non poco: la riconsegna dell’auto. Ad accoglierci c’è un uomo che assomiglia in tutto e per tutto a John Hurt, con il suo volto gentile e i modi affabili.
Ma noi siamo tutt’altro che tranquilli, perché dopo ottomila chilometri l’auto non è nelle migliori condizioni. Merito di un parcheggiatore troppo intraprendente a Washington, di un sasso contro il vetro nel deserto del New Mexico e del fondo roccioso nella Monument Valley.
“Il contratto, ragazzi” ci fa John Hurt. Dopo qualche difficoltà lo troviamo e glielo consegnamo. Lui lo legge attentamente, ci dà un’occhiata e poi controlla distrattamente l’auto. Di nuovo attimi di tensione. Finché: “Tutto a posto ragazzi, potete andare”.Nessuna contestazione, nessun addebito: anche stavolta ci è andata bene.
Superato l’esame dell’auto, calpestiamo finalmente i marciapiedi della città cercando di acclimatarci ai 14 gradi costanti della baia: un bel salto rispetto ai 43 di Las Vegas, non c’è che dire.
Ma con i primi passi a piedi non è la temperatura a colpirci più di tutto. Sono piuttosto le tante, tantissime persone senza tetto che s’incontrano per strada, specialmente nella centralissima Market Street dove alloggiamo.
La povertà e l’abbandono, con il loro carico di disagio pischico e sociale, sono sotto gli occhi di tutti, arginati senza essere realmente affrontati. Uno scenario quasi surreale, in una delle capitali mondiali dei diritti civili.
Ma San Francisco è questo: la povertà a ogni angolo di strada e il Pier 39 per i turisti, lo storico carcere di massima sicurezza Alcatraz a poche miglia dalla costa e la fierezza di Castro, quartiere simbolo dei diritti omosesssuali.
Lo scintillio dei grattacieli si contrappone al fascino da vecchia città di pescatori, che nasconde dietro l’angolo una bellissima China Town nata da due secoli d’immigrazione. E mentre la metro sfreccia sottoterra, le celeberrime strade a saliscendi sono ancora solcate dai vecchi cable cars.
Questo coagulo di contraddizioni, ora affascinanti ora stridenti, è forse la miglior rappresentazione degli Stati Uniti. Che sono tuttora uno dei futuri possibili per il mondo, e per l’Europa in particolare. Un esempio di integrazione democratica dal basso, con i suoi limiti, sul quale si è costruito però un modello sociale privo di qualsiasi tutela per le persone più fragili.
Da questo punto di vista, ma non soltanto, un viaggio da costa a costa negli Stati Uniti è un’esperienza di vita, un’occasione impareggiabile di riflessione e crescita personale.
Alla fine della corsa, anche se sei in compagnia, ti ritrovi solo di fronte ai tuoi limiti, e ti rendi conto di quanta strada hai ancora da fare. Ma in fondo è giusto così: dopo tutto, la strada è vita.