di Luca Onesti
19 Ottobre 2021
Intevista con la Dr. Marcella Ryan-Coker medico specializzando
in chirurgia ortopedica
«Tra 5 anni avrò una certificazione di chirurgo ortopedico e probabilmente sarò il primo dottore donna in ortopedia della Sierra Leone», leggo sul blog della Dr. Ryan-Coker, poche settimane dopo averla incontrata a Freetown. Laureata in medicina in Sierra Leone, con un master in Global Health in Inghilterra e una collaborazione di cinque anni con la ONG Emergency, la Dr. Ryan-Coker ha appena saputo che, con una full scolarship della AO Alliance per i prossimi cinque anni, potrà completare il suo percorso di training in chirurgia ortopedica in Kenya.
Nell’intervista che vi proponiamo, partendo dalla passione per la chirurgia e dal percorso che in un paese africano un medico deve affrontare per specializzarsi, la dottoressa ci racconta le difficoltà del sistema sanitario del suo paese e la sua collaborazione con la ONG Emergency, che a Goderich, nella parte occidentale della capitale Freetown, gestisce un ospedale chirurgico specializzato nella gestione dei traumi, negli interventi ortopedici e nella chirurgia pediatrica.
La Sierra Leone, paese dell’Africa occidentale uscito dalla guerra civile da due decenni, ha dovuto affrontare l’epidemia di Ebola nel 2014-2016 e si trova ora, con poche risorse, a gestire la crisi dovuta alla pandemia di Covid-19.
Quando ha deciso di diventare un medico? Come ha iniziato a lavorare con Emergency?
Ho iniziato la Facoltà di Medicina nel 2007 e ho finito nel 2016, per l’interruzione che c’è stata a causa dell’epidemia di Ebola. Non sono una di quelle persone che hanno sin da bambini il sogno di diventare medico, ma a scuola mi piaceva studiare biologia, chimica e in generale mi piaceva leggere, inoltre sentivo che mi sarebbe piaciuto lavorare in mezzo alle persone e poterle aiutare. Lungo la strada, facendo questo, ho trovato me stessa, ed è stato meraviglioso. Ho scelto Chirurgia e Ortopedia sin dalle prime settimane di internato, perché mi sono innamorata della fusione di arte e scienza che caratterizza la chirurgia ortopedica.
Dopo aver finito l’internato obbligatorio di due anni per diventare Medical Officer ho vinto una borsa per andare nel Regno Unito a studiare Global Healt and Development all’University College London per un anno. Sono appassionata di Global Healt, e adoro la ricerca, ma mi piace anche il lavoro clinico. Ho voluto combinare le due passioni, così sono tornata per fare dei training chirurgici. Avevo già iniziato a lavorare con Emergency prima di partire, durante il mio primo internato in Chirurgia. Ho iniziato per 6 mesi come House Officer e quando ho finito l’internato, ho continuato come Medical Officer. Non sapevo molto all’inizio del lavoro di Emergency, ma dopo il mio primo turno durante l’internato ho iniziato a conoscerlo di più, ed è iniziata una lunga collaborazione.
Un post del suo blog che ho trovato molto interessante è stato quello in cui intervista un suo collega, il Dr. Kebba Marenah, che ha studiato e lavorato in UK ed ha deciso di tornare per diventare il primo chirurgo ortopedico del suo paese, il Gambia. Ci racconta che cosa accomuna la sua storia personale e professionale con quella del Dr. Marenah?
Già prima di partire, sapevo di volere tornare indietro. La casa è la casa, se tutti andiamo via, chi potrà renderla migliore? I miei genitori, fratelli e amici sono nel mio cuore e ho sempre voluto tornare a casa e lavorare qui.
Il Dr. Kebba Marenah, chirurgo ortopedico del Gambia, mi ha ispirato davvero molto. Lui ha lasciato la sua casa quando era più giovane di quanto lo ero io quando sono partita, ha studiato ed ha fatto i suoi training nel Regno Unito, aveva una vita e un buon lavoro lì, e ha lasciato tutto per tornare e diventare il primo chirurgo ortopedico del Gambia. Per me questo è straordinario e mi ha dato motivazione. Non è semplice lasciare un paese come l’Inghilterra per um paese con poche risorse come il Gambia, ma come dice il Dr. Marenah, possiamo essere più utili a casa che in paesi più sviluppati che hanno migliaia di chirurghi e medici con diverse specializzazioni.
Perché ha scelto la chirurgia ortopedica?
Il Dr. Marco Necchi ha avuto una parte importante nel perché della mia passione per questa specialità. Era il primo chirurgo quando ho iniziato, nel 2016, a lavorare con Emergency all’ospedale di Goderich, ed è stato il mio mentore in chirurgia. A quel tempo mi piaceva anche Ginecologia ed Ostetricia, e, durante gli ultimi anni di studio avevo indirizzato le mie scelte verso quel campo, ma, quando ho iniziato a lavorare, ho capito che preferivo la chirurgia. Ho dovuto imparare di più sul corpo umano, su come si può rompere e su come guarisce e ne sono rimasta affascinata. Ora le cose a poco a poco stanno cambiando, ma quando studiavo io nella scuola di Medicina, qui in Sierra Leone, non avevamo molte possibilità di assistere alla pratica clinica e in particolare a quella della chirurgia. Quando ho iniziato a lavorare con Emergency, il Dr. Marco mi ha insegnato tutte le competenze base in questo campo, mi ha guidato, aiutato ad avere fiducia in me stessa e, lentamente, la chirurgia è cresciuta in me. Grazie a tutte le volte che sono stata sua assistente o che ho assistito altri chirurghi in sala operatoria nella ricostruzione di parti del corpo rotte o fratturate, ho capito che questo era proprio ciò che volevo fare.
A volte si sente dire che la chirurgia, e l’ortopedia ancor di più, sono professioni soprattutto maschili. Quali sono state le difficoltà per entrare in questo campo in Sierra Leone?
Penso che in generale la chirurgia sia stata vista come una professione maschile. Quando si parla di chirurghi, la gente pensa a uomini vecchi o anziani in camice bianco. In realtà, in Sierra Leone, ma credo questo valga dovunque, si tratta di una professione molto impegnativa. Bisogna lavorare molte ore, dedicarsi al lavoro molto di più e con un impegno maggiore di quello richiesto in altri campi. Non ci sono quasi mai giorni o notti tranquille: il carico di traumi è così alto in Sierra Leone che c’è sempre lavoro in ospedale. Questo non lo rende un lavoro facile per le donne, specialmente nella nostra società, perché alle donne è stato dato il ruolo di genere di gestire la casa e di allevare i bambini, e passare la maggior parte del tempo in ospedale non è conforme a questo ruolo. Ci sarebbe bisogno di un buon sistema di supporto per far sì che una donna possa avanzare nella sua carriera in chirurgia.
A volte la gente fa commenti molto superficiali o osservazioni sessiste sulle donne in chirurgia. Dicono cose come che l’ortopedia è per gli uomini, o che non sei abbastanza forte. O a volte, quando dobbiamo usare l’arco a C per gli interventi, dicono che le radiazioni dell’arco a C e il peso della protezione di piombo sono il motivo per cui l’ortopedia non è per le donne, ma io ho imparato a rimanere concentrata sul mio obiettivo e ad essere costante e ho capito che è tutto ciò che conta. Naturalmente, a volte trovo questi commenti offensivi, ma non mi lascio buttar giù. A volte rispondo, a volte no, dipende da quello che viene detto e da come viene detto. Ma ho capito che se sai quello che vuoi e ti impegni veramente, non è facile, non è un gioco da ragazzi, ma è del tutto fattibile.
Torno alla sua intervista con il Dr. Marenah, il chirurgo ortopedico del Gambia. Uno dei punti dell’intervista che mi ha colpito è questo: “Dobbiamo iniziare il cambiamento dall’interno, non aspettare che arrivi qualcosa da fuori che ci aiuti a cambiare e migliorare la situazione”. E ancora, il Dr. Marenah sostiene che c’è bisogno di “soluzioni locali per problemi locali”. Vale lo stesso per la Sierra Leone?
Avere soluzioni locali per problemi locali sarebbe la cosa migliore, perché in questo modo le soluzioni sarebbero più sostenibili, soprattutto per quanto riguarda i paesi con poche risorse. Finché non cominciamo a usare ciò che abbiamo per aiutare noi stessi, saremo sempre più dipendenti dagli aiuti stranieri di quanto dovremmo. Penso che la Sierra Leone abbia la capacità e le risorse per produrre apparecchi e strumenti come ha fatto il Gambia, ma abbiamo bisogno di persone che facciano propria questa visione e credano in quello che possiamo fare. Nell’ospedale di Emergency, per esempio, i telai che usiamo per elevare gli arti o metterli in trazione, non sono fatti fuori dal paese, ma dai nostri saldatori e funzionano perfettamente. Non dobbiamo aspettare un telaio Braun già pronto, importato o donato.
Un altro esempio di come a volte riusciamo a risolvere dei problemi con quello che abbiamo, riguarda i molti casi da noi trattati di stenosi esofagee provocate dall’ingestione di soda caustica. Tutto quello che possiamo offrire in questo momento sono valutazioni endoscopiche e dilatazioni per aiutare i pazienti a mangiare. Per i pazienti con gastrostomia, per essere sicuri di poter dilatare l’esofago più facilmente, usiamo un filo da pesca. La lenza viene spinta dalle loro narici, giù per l’esofago e fuori attraverso il sito della gastrostomia e questo rende la dilatazione più facile.
Sul suo blog ha scritto anche di un suo collega che è venuto a mancare alcune settimane fa nel Connaught Hospital, a seguito di un incidente, e delle difficoltà di intervenire in emergenza per una serie di ragioni strutturali. Quali sono le mancanze del sistema sanitario della Sierra Leone che andrebbero colmate al più presto?
Penso che il nostro collega sia morto per una combinazione di fattori. Ha avuto un trauma alla testa in un incidente stradale, nel migliore dei sistemi sanitari forse sarebbe morto lo stesso ma, se avessimo avuto ambulanze e un sistema ospedaliero adeguato, una struttura di assistenza pre-ospedaliera, reparti di radiologia funzionanti ecc., avrebbe avuto più possibilità di quelle che ha avuto. Nel post ho sottolineato la gravità della mancanza di fornitura elettrica costante. È molto triste che a volte l’ospedale debba chiamare la compagnia elettrica per dire che manca la corrente. Il Connaught Hospital è il principale ospedale di riferimento terziario del paese, dovrebbe essere scontato che l’elettricità venga fornita in maniera costante e nel peggiore dei casi l’ospedale dovrebbe avere un generatore di riserva.
L’altra cosa di cui ho scritto è la mancanza dell’indagine radiologica. In quell’ospedale non c’è un macchinario per la TAC, come non c’è ad Emergency, né all’ospedale dei bambini, né alla maternità. Nessuno dei grandi ospedali del paese, tranne quelli privati, dispone una TAC. Come è possibile? È davvero estenuante lavorare in questo tipo di sistema. Fare una TAC alla testa in una struttura privata costa almeno 1,2 milioni di leones. Se pensiamo che il salario minimo qui è di circa 600 mila leones… il costo di quella TAC è due volte il salario di un lavoratore a salario minimo. Ho detto prima che il carico di traumi nel paese è davvero alto; non abbiamo statistiche precise, ma è incredibile la quantità di incidenti stradali e cadute che vediamo tutti i giorni in ospedale e per questi pazienti c’è assolutamente bisogno di un macchinario per una indagine di base come la TAC.
Ho parlato anche delle cure pre-ospedaliere. A volte mi addolora che i pazienti con arti rotti siano portati in triciclo o in moto perché i servizi di ambulanza non sono raggiungibili. A volte chiami e ti dicono che non c’è carburante. Com’è possibile? Non dovrebbe essere così. Queste sono tutte cose che dobbiamo cambiare perché altrimenti diventa davvero difficile fare delle diagnosi corrette e curare in tempo i pazienti.
Ci sono anche delle insufficienze nel numero di medici e di operatori sanitari, così come di specialisti in diverse aree. Pensa sia un problema di mancanza di investimenti nel settore sanitario?
Penso che i problemi del nostro sistema sanitario siano multifattoriali. Per esempio, ora che abbiamo iniziato la formazione post-laurea in Sierra Leone per alcune specializzazioni, la cosa migliore sarebbe che gli ospedali avessero gli strumenti, le attrezzature e la catena di approvvigionamento funzionante. Molti medici sono sinceramente interessati ai programmi di formazione locali, ma poi cominciano a riconsiderare e a soppesare altre opzioni perché si preoccupano della qualità della formazione che otterranno visto che le strutture sono mal equipaggiate. Vogliono essere specialisti che, andando da qualche altra parte, possano essere comparabili con altri specialisti, non vogliono avere solo un titolo sulla carta e non avere le capacità e le conoscenze. Quindi penso che una delle cose che potrebbe davvero incoraggiare i medici a frequentare i corsi di specializzazione in Sierra Leone sia quella di mettere a disposizione una struttura ospedaliera aggiornata e incoraggiarli o rassicurarli sul fatto che otterranno una vera formazione di qualità. E non c’è assistenza sanitaria di qualità senza investimenti in risorse.
Un’altra cosa che può aiutare è l’investimento nella formazione dei medici all’estero. Al momento, ci sono solo poche specializzazioni offerte dai college post-laurea locali. Ci devono essere più finanziamenti e opportunità di borse di studio per i medici che desiderano formarsi all’estero.
Un’altra domanda, sempre a partire dal lavoro di Emergency in Sierra Leone, ma che riguarda in generale le tante ONG che operano nel paese. Qual è secondo lei la strada da seguire perché ci si possa svincolare da un rapporto di dipendenza dagli aiuti, riuscendo allo stesso tempo a mantenere dei buoni standard nei vari settori in cui sono attive le ONG?
Quello che fa Emergency è davvero incredibile, penso che nessuno in questo paese possa dire il contrario. Senza quell’ospedale ci sarebbero molti più problemi in chirurgia, specialmente in ortopedia e traumatologia, rispetto a quelli che abbiamo ora. C’è però un problema di mancanza di comunicazione. Emergency e il Ministero della Sanità, pur concordando su alcune altre cose, come ad esempio la necessità di garantire la prestazione di un servizio sanitario di qualità e la volontà di portare avanti programmi di training per lo staff locale, non sempre sono stati sulla stessa linea su alcune questioni, ad esempio sui criteri di ammissione in ospedale, e non si coordinano come dovrebbero. Ma, ad essere onesti, penso che le cose stiano cominciando a cambiare ora. Il coordinatore e i medici di Emergency, quelli dell’ospedale Connaught e il Chief Medical Officer sono tutti coinvolti nel lavoro del gruppo di lavoro nazionale di chirurgia. Cerchiamo di assumere una prospettiva comune, perché le tensioni sono molto stressanti per tutte le persone coinvolte e dannose per i pazienti.
Ma sarebbe devvero bello se i programmi e le missioni delle ONG fossero integrati nei piani del Ministero della Sanità e se entrambe le parti lavorassero mano nella mano. I programmi sarebbero più sostenibili. Altrimenti, se queste missioni dovessero finire o chiudere, la ripercussioni sarebbero enormi. Immaginiamo che Emergency decida di chiudere oggi: ci sarebbe un aumento significativo delle vite perse e delle disabilità. Per questo, il governo e le ONG dovrebbero essere sulla stessa lunghezza d’onda, con la stessa visione e gli stessi obiettivi, e avere le stesse strategie per raggiungerli.
Che ruolo ha avuto l’epidemia di Ebola, con la perdita dei medici e dei lavoratori sanitari che ha causato, nel destrutturare il sistema sanitario della Sierra Leone?
Anche prima il sistema era molto fragile e con Ebola è peggiorato. Abbiamo perso risorse umane, abbiamo perso formatori e insegnanti. Molti dei medici che sono morti erano medici anziani, medici che hanno formato medici giovani, quindi abbiamo perso molto. Abbiamo anche perso infermieri e altro personale di supporto dell’ospedale. L’Ebola ha sbriciolato tutto ciò che era rimasto in piedi dopo che ci siamo ripresi dalla guerra civile. Non avevamo la capacità umana e le risorse per affrontare quella crisi e siamo grati di aver ricevuto molto aiuto da altri paesi. E dopo c’è voluto un po’ di tempo per tornare a quello che conoscevamo come normale. Quello che è successo avrebbe potuto stimolarci a migliorare, a ricostruire un sistema più formidabile, preparato ad affrontare altre crisi come quella del Covid-19, ma da quello che possiamo vedere non è stato così. Molte delle strutture costruite durante l’epidemia di Ebola sono state completamente smantellate prima dell’arrivo del Covid. Non sarebbe dovuto accadere: quelle strutture avrebbero dovuto essere tenute in funzione e gestite correttamente perché nel caso di un’altra epidemia come quella attuale sarebbero tornate utili. A giugno, gli ospedali hanno dovuto lottare per tenere il passo con l’aumento dei casi più gravi di Covid e questo è qualcosa che mi preoccupa molto. Dobbiamo passare dall’essere reattivi all’essere proattivi. Questo è importante per costruire un sistema sanitario resiliente.
Molti ricercatori e studiosi hanno messo in luce il successo del metodo basato sul coinvolgimento delle comunità nella lotta all’Ebola. Questo approccio, che prevede un grande lavoro di prevenzione e sensibilizzazione, è stato ripreso con la crisi del Covid-19?
Ci sono squadre di mobilitazione comunitaria Covid-19, personale addestrato che va nelle comunità per parlare di come prevenire il Covid, come riconoscere i sintomi e cosa fare in caso di sintomi. Penso che questo sia molto importante perché ci sono alcune persone che non sanno leggere o andare su internet per trovare informazioni e non capiscono davvero questa nuova malattia. Il coinvolgimento della comunità è parte integrante dell’affrontare l’epidemia, ma il problema è la continuità, perché già ora i protocolli non vengono più rispettati. Camminando per Freetown si può pensare che siamo senza Covid, la gente non indossa più le maschere, i punti predisposti in città per lavarsi le mani sono senza acqua o sapone e così via.
Lo stesso accade con altri progetti. A volte una ONG o un ente governativo mettono in campo un progetto e fanno molto bene con la mobilitazione della comunità all’inizio, ma poi la maggior parte di questi progetti finisce per spegnersi. È quello che dicevo a proposito della necessità di integrazione delle attività delle ONG come parte dell’assistenza sanitaria standard. Le renderebbe più sostenibili, e paesi come la Sierra Leone hanno bisogno di programmi che siano sostenibili. È un lavoro che deve essere fatto insieme, ci deve essere un sistema. Altrimenti, quando le ONG se ne vanno, portano via con sé le loro conoscenze, le loro tecnologie, le loro competenze. I programmi verticali possono essere fantastici, ma se non vengono integrati nei programmi e nelle strutture esistenti purtroppo, ad un certo punto, crolleranno a metà del cammino.