La fede e la ragion di Stato

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8 Febbraio 2019

La storia di don Vito Miracapillo, il prete pugliese che infiammò il Brasile

A seguito dell’elezione di Bolsonaro e del caso Battisti, negli ultimi tempi, in Italia, si è tornati a parlare di Brasile. Eppure non è la prima volta che il nostro Paese si trova a condividere le proprie vicende politiche con quello sudamericano, e viceversa.

Quasi quarant’anni fa un altro italiano, per ragioni e finalità ben diverse rispetto a quelle di Battisti, aveva finito per mettere in difficoltà il governo brasiliano, catalizzando su di sé l’attenzione di tutta la nazione: fu il missionario pugliese don Vito Miracapillo.

Quella di don Vito è una storia personale, poi diventata collettiva, che dopo aver brillato per coraggio, dignità e voglia di riscatto, ha finito per perdersi nelle pieghe della storia, sommersa dallo scorrere veloce degli eventi.

Per ritrovarne le tracce bisogna andare in una parrocchia alla periferia di Canosa di Puglia e incontrare chi ne è stato il protagonista. Don Vito mi riceve nel suo ufficio una mattina di pioggia torrenziale, gli chiedo se per favore può cominciare il suo racconto dall’inizio.

«Arrivai in Brasile come prete missionario nel 1975, avevo 28 anni, ero fresco di ordinazione e mi fu affidata una parrocchia nello stato del Pernambuco, nel nord-est del Paese. La cittadina si chiamava Ribeirão, quaranta mila abitanti circa, vicino Recife, il capoluogo di quella provincia. Era un posto in cui c’era la fame vera, e forse furono proprio le condizioni di vita estreme che trovai che mi convinsero a rimanere. Le persone lavoravano 14 ore al giorno e non guadagnavano quasi niente, le strade non erano asfaltate, nessuno aveva la macchina, l’elettricità, il telefono, stavano bene solo i padroni, che poi erano i latifondisti. La gran parte della gente era di fede cristiana – non c’era ancora stata l’invasione delle sette americane a cui si assiste oggi – ma i religiosi erano pochi. 13 preti, più il vescovo, per 15 città, con una parrocchia in ogni città, io l’unico italiano. Capisci che c’era da rimboccarsi le maniche. Furono tempi di lavoro intenso, anche perché eravamo dei punti di riferimento per le comunità, e furono anche tempi in cui via via capivo certe dinamiche e si consolidavano in me certe consapevolezze».

«Ricordo una sera il vescovo mi mandò in sua vece ad una cena dove era presente tutta l’alta borghesia del posto: commercianti, professionisti e ovviamente latifondisti. Arrivai indossando una camicia rossa fiammante, e mi sembrò da subito che gli altri invitati si spaventassero un po’, come il toro davanti al panno rosso. C’era uno di loro in particolare, aveva cappello e pistole alla cintola, come nei film, e ci tenne a dirmi di essere cattolicissimo, “ma la mia religione non è quella di don Hélder Câmara”, poi aggiunse. Io risposi che “se la sua religione non è quella di don Hélder, lei non può definirsi cattolico”, e così scese il gelo. Hélder Câmara era il teorico della Teologia della Liberazione, arcivescovo di Recife, perseguitato dalla dittatura per le sue posizioni a favore del popolo sfruttato. Qualche anno dopo, durante il processo a cui fui sottoposto, venne fuori che fin da quel momento, da quella mia battuta, fui messo sotto controllo dagli apparati di potere».

«Nel 1979 salì al governo del Brasile il generale João Figueiredo. Sostituì alla presidenza un altro generale, Ernesto Geisel, con il compito di guidare il paese in una transizione democratica. In realtà, a parte qualche piccola riforma di facciata, il regime rimase una dittatura. Una dittatura tra l’altro feroce, e gli effetti si vedevano ogni giorno. Ricordo una sera, mentre dicevo messa, le guardie entrarono in chiesa e portarono via un pover’uomo. Lui mi urlò di aiutarlo, conclusi la celebrazione velocemente e corsi a trovarlo in carcere. L’avevano messo nella sala delle torture, e lo trovai per terra con l’acqua del lavandino che scorreva per poter coprire le tracce di sangue. Provai a confortarlo per quel che potevo e andando via dissi alle guardie che sarei tornato il giorno dopo così che non facessero scherzi durante la notte. Invece gli scherzi li fecero: l’indomani mi fu comunicato che nel carcere non c’erano prigionieri. Chiaramente l’avevano ucciso o fatto sparire durante la notte».

Il giorno dell’Indipendenza

«Il vero problema lì è che tutto apparteneva ai latifondisti: la terra e quello che ci stava sopra, compreso i villaggi e la parrocchia. Niente si poteva fare che loro non permettessero, le stesse amministrazioni avevano le mani legate. Ovviamente il regime difendeva questi ricchi proprietari a discapito del resto del popolo. Così io, come gran parte degli uomini di chiesa lì, prendemmo a farci portavoce delle rivendicazioni della povera gente. Ad esempio i contadini aspettavano dal ’64 dei terreni da parte dello Stato come risarcimento delle ore di lavoro mai pagate. Io vedevo la gente denutrita e la terra che non arrivava, così avviai un dialogo con l’Associazione per lo Sviluppo dell’Amazzonia e della Riforma Agraria, ma a partire da quel fatto mi denunciarono al governo federale come sovversivo, misero sotto controllo l’attività in chiesa, e iniziai a vivere controllato da soldati o pistoleri».

«La goccia che fece traboccare il vaso fu quando il 7 settembre 1980, il giorno della Festa d’Indipendenza, decisi di usare un foglio della propaganda governativa per ribadire le ragioni dei contadini. lo slogan quell’anno recitava “L’indipendenza siamo noi”, ed io ci aggiunsi alla fine un “quando?” e sotto una lista di rivendicazioni ispirate, tra l’altro, a un documento dei vescovi della Teologia della Liberazione. Dunque scrissi “Quando potremo eleggere i nostri governanti; Quando avremo un sindacato dalla parte dei deboli; Quando avremo una giustizia indipendente… e così via”. Il foglio, anche se si concludeva con una preghiera, fu ritenuto sovversivo. Un deputato mi denunciò per ribellione e opposizione al Paese, la cosa arrivò a giornali e TV che titolarono “Missionario italiano protesta: il Brasile non è indipendente” e fu l’inizio della fine. Infatti fu proprio quel foglio che poi durante il processo mi costò l’espulsione».

«I latifondisti della zona dove vivevo mi proibirono di dire messa nelle chiese sulla loro proprietà, io risposi che solo la gente di quei villaggi o il vescovo potevano impedirmi di farlo. Il 24 settembre due uomini della polizia federale vennero in parrocchia a dirmi che l’indomani mi sarei dovuto presentare alla sede della polizia per essere interrogato. Avvisai il console italiano e ci andai. Due ore d’interrogatorio con centinaia di domande. Alla fine mi presero le impronte 84 volte così da distribuirle a tutti gli stati brasiliani: ovunque fossi andato sarei stato sotto controllo. Ricordo che la poliziotta che mi prese le impronte era protestante e mentre lavorava si scusava per ciò che stava facendo. Ad ogni modo quel giorno mi rilasciarono».

«Il 2 ottobre i vescovi decisero di organizzare una messa di solidarietà in cui io avrei celebrato, e quella volta rischiammo davvero che la cosa ci sfuggisse di mano. La notizia si diffuse per le campagne e alla celebrazione si presentarono 5000 persone, per lo più contadini con le loro famiglie. Arrivarono però anche 90 soldati armati. 60 rimasero fuori, circondando la zona, 30 entrarono dentro. Il problema vero era che anche i contadini, prevedendo una situazione del genere, avevano portato con loro le scimitarre. La situazione era tesissima. Mi bloccarono in sacrestia, perché se fossi uscito tutto sarebbe precipitato. Alla fine una delegazione dei vescovi parlò con l’amministratore che riuscì a mandar via i soldati, i quali però se ne andarono molto mal volentieri, minacciando tutti di morte. Mi chiesero a quel punto se volevo ugualmente celebrare la messa e non ebbi il minimo dubbio. Pensai che se il potere si era permesso di agire in modo così arrogante di fronte a 5000 persone, vescovi e giornalisti, figuriamoci come avrebbe potuto comportarsi con un singolo contadino. La messa si fece».

Il processo

«Per due mesi, fino alla fine del processo, fui sulle prime pagine dei giornali, definito “sovversivo”. Il mio diventò un caso nazionale. Divenni bandiera della Teologia della Liberazione, della democrazia e dei diritti umani. Il 15 ottobre vennero ad arrestarmi definitivamente e da quel momento in poi la gente non mi ha più lasciato solo. Fuori dalla stazione di polizia, mentre mi comunicavano l’arresto, c’erano due-trecento persone che intonavano canti di lotta e liberazione. Mi portarono in aeroporto e lì mi chiusero nella sala vip: i giornalisti trovarono il modo di scavalcare per venire a intervistarmi e la gente li seguì. Così alle 18:00. quando uscii per salire sul mio aereo, trovai centinaia di persone ad aspettarmi in prossimità della pista. La gente si dispose su due lati mentre io passavo in mezzo e intanto applaudivano e urlavano di avere coraggio e io, onestamente, non riuscii a trattenere le lacrime di fronte a tutto quell’affetto. Nonostante la situazione fosse tragica, è stato uno dei momenti più belli della mia vita».

«Mi portarono a Rio, dovevo essere espulso subito, ma 5 avvocati da tutto il Brasile avevano chiesto una revoca. Così la palla passò alla Corte Suprema. Mi portarono a Brasilia e aspettai il mio processo chiuso nella sede vescovile, senza poter avere rapporti con la stampa che invece era appostata fuori e mi braccava. Al processo non ci andai, ci andarono per me i vescovi. In tutto durò 4 ore. L’aula era piena di militari e raccontarono un sacco di balle sul mio conto. Dissero che avevo organizzato 240.000 contadini facendoli scioperare contro i latifondisti, che avevo fondato partiti e sindacati. A parte questo però mi raccontarono che erano successi due piccoli miracoli: il primo fu che tutti i 204 vescovi brasiliani avevano votato in mio favore, mai successo prima; il secondo fu che la Corte Suprema finì per pregare. Dovette farlo perché per condannarmi dovette leggere il foglio incriminato scritto nel giorno dell’Indipendenza, che terminava con una preghiera».

«La Corte mi condannò per “attentato alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico e sociale”: la stessa condanna dei terroristi. Alle 10:00 dell’indomani mi misero su un aereo diretto a Lisbona pieno di agenti dei servizi segreti che provavano a camuffarsi fra i membri dell’equipaggio. Subito dopo partito un mio amico cantautore scrisse la canzone “Vito Vito Vitòria” che subito fu censurata e che pure si diffuse a macchia d’olio diventando una specie di inno. Nel frattempo in tutta la provincia in cui avevo vissuto le Chiese decisero di appendere il panno di lutto, mentre nel resto del Brasile, 20 diocesi, scelsero di non celebrare la messa la domenica. Da Lisbona arrivai in Italia e si conclusero così, per me, i 5 anni più incredibili e inattesi della mia vita».

Fede e libertà

«Non è che io mi sia mai avvicinato alla Teologia della Liberazione, è qualcosa che mi sono sempre portato dentro. Sono nato ad Andria, nel Sud Italia, in una famiglia molto povera e mio padre è stato sfruttato dalla più tenera età fino a quando è morto. Ha sempre fatto il fornaio lavorando in nero. Dalle 02:00 del mattino alle 16:00 del pomeriggio la sua vita era davanti a un forno. Aveva 5 figli da mantenere quindi non poteva fare diversamente. Le storie di sfruttamento le conoscevo e le conosco molto da vicino».
«Ecco perché non credo nella neutralità, credo che nella vita sia necessario schierarsi, ma rimanendo indipendenti dal potere in quanto tale. La Teologia della Liberazione in effetti è nata come riflessione di fede su un popolo credente che era schiavo: la situazione degli ebrei in Egitto. Un popolo credente e schiavo è costretto a domandarsi: perché questa condizione se il nostro Dio è liberatore? La Teologia della Liberazione riflettendo su questa domanda conclude che se la fede non mette in discussione anche il potere, si finisce per non essere parte del messaggio di liberazione di Dio. Ovviamente tutto questo rifiutando la violenza».

«La Teologia della Liberazione che ha assunto la lotta armata in America centrale non l’ho mai condivisa, ma è cosa ben diversa da quella del Brasile che si è mossa invece con i poveri in maniera pacifica. È un punto che ho sempre ribadito anche quando mi è capitato di confrontarmi con attivisti, anche di gruppi estremisti. Dicevo loro: se cambia l’uomo e non cambiano le strutture, alla fine c’è un morto appeso sulla croce; se cambiano le strutture, ma non cambia l’uomo, si hanno solo dittature che si alternano. Dunque le due cose non possono restare separate. Quando si separano le cose stiamo parlando di chiacchiere e basta».

Ritorno a Ribeirão

«Nel 1993 cambiò il governo, un decreto annullò la mia condanna e potei tornare da turista in Brasile. Lo feci immediatamente anche perché il mio contatto con quella gente non si è mai interrotto, neanche durante i 13 anni di esilio. Ho una decina di schedari pieni di centinaia di lettere inviatemi da tutto il Paese. Hanno scritto tesi sul mio caso giudiziario e molti brasiliani in viaggio in Italia passavamo a trovarmi prima di ripartire. Quella volta atterrai alle 4 del mattino e c’erano 700 persone ad aspettarmi in aeroporto, fra questi don Hélder Câmara, che ormai aveva 80 anni, e nonostante questo si offrì di aiutarmi a portare la valigia. Una volta all’esterno tutti provarono ad abbracciarmi e a baciarmi ricoprendomi di un affetto commovente».

«La polizia stessa mi accompagnò scortandomi con moto e macchine fino a quella che era stata la mia parrocchia, come in un corteo presidenziale. Per raggiungere la piazza centrale del paese, dove era prevista una messa per celebrare il mio ritorno, dovemmo fare un pezzo a piedi. Percorsi questo tragitto con in mano la bandiera del Vaticano, mentre la gente ai lati sventolava stendardi a sua volta, mandandomi baci e urlandomi “bentornato”. In piazza c’erano migliaia di persone, tv, giornalisti e così via, per 4 ore di celebrazione. Rimasi 18 giorni e fu un continuo andare in Tv, radio, giornali. In quelle 2 settimane persi circa 10 chili per il tour de force a cui mi sottoposi».

«La mia riabilitazione totale ad ogni modo è arrivata solo nel 2012, grazie a Dilma Rousseff. Lula invece non è stato corretto nei miei confronti, eppure ci conoscevamo personalmente. Fummo condannati dalla dittatura più o meno nello stesso periodo, io nel Nord-Est per i contadini e lui a Sud per i metalmeccanici. Quando fu eletto chiesi più volte di parlare con lui, anche tramite amici in comune, ma non mi ha mai risposto. Al momento, dal punto di vista giuridico, è come se avessi la doppia cittadinanza, sia italiana che brasiliana. Questo fino a poco tempo fa mi faceva stare tranquillo, ma con l’elezione di Bolsonaro si è tornati indietro nella storia. Anche perché la mia vicenda ha un punto di contatto con il caso Battisti. Il mio avvocato infatti all’epoca, perché mi si togliesse la condanna, citò il suo caso. Fece notare come a Battisti che è un terrorista avevano dato la cittadinanza, invece a me no. Ecco che ora la mia posizione diventa pericolosa. Bolsonaro avrebbe gioco facile nel dire abbiamo estradato Battisti, dunque togliamo la cittadinanza a don Vito».

«Sarei dovuto tornare in Brasile questo mese, ma sentendo i miei amici li, mi sono convinto che non è il caso. Anche perché nella circoscrizione della mia parrocchia di allora ha vinto l’opposizione a Bolsonaro, e durante la campagna elettorale il mio nome è venuto fuori diverse volte. I gruppi di sinistra esortavano la gente a non dimenticarsi degli anni in cui assieme a don Vito abbiamo alzato la testa. Se dunque adesso torno, e torno in quelle provincie, alla cosa potrebbe essere dato un significato politico. Già m’immagino le TV che mi fanno la domanda “cosa ne pensa di Bolsonaro?”. E allora se sto zitto divento connivente e se parlo mi processano il giorno dopo. Visto che io zitto non ci so stare perché a stare zitti ci si ammala, ho deciso di rimandare. Comunque ci tornerò, vada come vada».