22 Aprile 2019
Un libro in equilibro sul confine della questione del Kashmir, tra etnografia e il saggio storico-politico
Il libro inizia con una dedica a Oyoub. Non sappiamo ancora chi è, il suo nome resta lì, sospeso sulla pagina bianca.
Un nome che ritorna più volte mentre ci si immerge nella narrazione e nell’atmosfera tesa del Kashmir di quegli anni, tra militanza e repressione. Le sue parole forniscono una lente intima e privilegiata per provare a decifrare la complessità del conflitto kashmiri e il reticolo di violenza che imbriglia ogni ambito della vita dei suoi abitanti.
Un libro accurato, appassionante, che affronta la genesi della questione e i motivi del perpetrarsi del conflitto, a distanza di 70 anni dalla partizione di India e Pakistan lungo linee religiose. Un libro che ripercorre le storia di un territorio a lungo conteso tra le due nazioni, teatro di un conflitto a bassa intensità che ha schiacciato emotivamente i suoi abitanti tra le forze di sicurezza indiane e la Line of Control (LoC), la linea del cessate il fuoco che segna il confine di fatto tra le due nazioni.
Lo scorso febbraio, un giovane militante kashmiri si è fatto saltare in aria contro un convoglio di truppe indiane nel distretto di Pulwama. Quello che passerà alla storia come il più grave attentato mai verificatosi contro le forze di sicurezza indiane ha innescato un’irresponsabile escalation verbale e militare tra le due potenze nucleari, ricordando al mondo che il Kashmir è una pentola a pressione sempre pronta a esplodere.
Simone Mestroni, autore del libro Linee di controllo, Meltemi (2018) e del documentario After prayers, visita Srinagar, la capitale estiva dello stato, e ci torna a cadenza costante nell’arco di questi 12 anni in cui si è occupato di India e separatismo kashmiri.
“Sarebbe stato difficile non rimanere impigliati emotivamente in un contesto del genere: nei racconti, nell’atmosfera surreale del centro storico della città disseminato di bunker, di soldati che sventolavano i kalashnikov davanti ai passanti incuranti, di posti di blocco e sagome di filo spinato che tratteggiavano il paesaggio urbano come grotteschi ornamenti”, scrive l’autore.
L’immersione nei ricordi e nelle testimonianze delle persone che hanno subito la violenza, il lutto, la frustrazione della lotta per la libertà, diventa un esercizio empatico che aiuta a decifrare la complessità, la multidimensionalità del conflitto, le ripercussioni che questo ha sul vissuto di ognuno e sulle geometrie identitarie.
Le storie da lui raccolte scoprono i veli, i ruoli, le rappresentazioni e forniscono prospettive diverse, incrociate, da cui guardare la lotta armata, la repressione indiana, la kanijang, le sassaiole contro la polizia. Svelano le ragioni che hanno portato migliaia di giovani a immolarsi per la causa o a ritagliarsi un angolo di “normalità”, rivelando le zone grigie nella narrazione e nell’immaginario di una disputa che non ha ancora trovato soluzione.
Oyoub, ex-comandante di un gruppo armato pro-pakistano divenuto cieco per l’esplosione di un ordigno artigianale, è una delle voci – la principale, ma non l’unica – che guida il racconto. Mestroni raccoglie le storie di un campione umano eterogeneo, trasversale; spiega il contesto, affinché le voci si intersechino con esso dandogli spessore umano.
Rafiq, il commerciante della città vecchia. Imran, il vetraio ed ex-militante che ha iniziato a tirare pietre contro le forze di polizia quando aveva otto anni senza neanche capire il perché. Il Pandit kashmiri della minoranza hindu in Jammu &Kashmir, lo stato di cui fa parte la parte la porzione di Kashmir sotto controllo indiano. Azhar, il giovane amico salafita. Faysal, il figlio di Idris, proprietario della bottega d’intaglio dove Mestroni è stato apprendista, che è cresciuto negli anni della militancy.
Il racconto parte dal lontano maraja rule, matrice del separatismo kashmiri, che dà alla narrazione la prospettiva storica necessaria per comprendere la genesi del conflitto. La nascita di India e Pakistan dalla sanguinosa divisione dell’Impero Britannico diventa il contenitore dentro il quale si muove la narrazione dal quale discendono i germi del comunalismo.
La promessa del referendum, mai mantenuta – nodo politico della questione kashmiri – sarà ulteriormente schiacciata dalle dinamiche della guerra fredda e dai suoi riflessi sulle relazioni indo-pakistane.
La politica locale, si innesta su quella globale, che fa da sfondo alla narrazione, essendone gioco-forza influenzata. In quegli anni migliaia di ragazzi direttamente coinvolti nella lotta armata partirono per l’addestramento in Pakistan, accusato di sostenere materialmente e moralmente il separatismo nella regione.
“La resistenza afgana costituisce un nodo chiave nella storia del movimento separatista kashmiri sul piano storico, politico, simbolico, narratologico e morale”, scrive Mestroni, “Nella vicenda di Oyoub, di fatto, i due fenomeni, la cui relazione non è troppo evidenziata nell’ambito dei lavori storico-politologici d’area, si annodano inscindibilmente sul piano esistenziale, rivelando connessioni tra geopolitica e immaginario locale”.
La questione kashmiri, messa in relazione ai mutamenti globali, permette di essere vista da una prospettiva più ampia che ne spiega le zone d’ombra, le falle e i riflessi.
L’insurrezione dell’89 e il suo fallimento sono legati a doppio filo con la frattura negli equilibri geopolitici e nelle macro-narrative verificatasi in quegli anni.
Con la fine della guerra russo-afghana, il potenziale jihadista si era traferito dall’Afghanistan al Kashmir. La guerriglia viveva una fase di forte supporto della popolazione civile: è il periodo della cosiddetta intifada kashmiri, della brutale repressione dell’esercito indiano.
Nel 2001 cambia nuovamente la piattaforma discorsiva. Prende il sopravvento una narrazione in cui la lotta al terrorismo trova la sua nuova base di legittimazione sul piano globale.
“L’orbita narrativa rispetto a quella geopolitica si è invertita: il Kashmir si è trovato un po’ come incastrato nel passaggio da una narrativa a un’altra”, spiega Mestroni a Q Code. “La transizione di paradigma, dalla fase del jihad antisovietico, a quella del nuovo ordine mondiale, in cui per certi versi l’insurrezione kashmiri ha fatto da raccordo logistico, strategico e narrativo, diventa parte integrante dell’evoluzione dello scenario locale”.
Sono gli anni degli attacchi suicidi, della repressione, degli scoperi, del coprifuoco spalmato per giorni. Gli anni delle violazioni dei diritti umani, degli abusi sui civili, dei funerali che si susseguivano e delle lapidi che si andavano aggiungendo nel cimitero dei martiri. Sono gli anni in cui la kanijang, l’intifada kashmira, era l’unica forma di resistenza fisica e morale all’oppressione indiana, mentre la popolazione vedeva schiacciare i propri diritti e con questi, il sogno dell’Azadi, la libertà.
Si impara ad amare Oyoub, una figura controversa, radicale, un uomo che non si piega alle narrazioni di comodo, ai compromessi, alle letture facili, alle semplificazioni.
Lo si immagina oggi, ammansito dalla vita, schiacciato dalla solitudine, e non possiamo non provare simpatia, quasi tenerezza per questo personaggio scomodo, emarginato, un martire negativo, proprio perché ancora vivo.
L’autore, integra l’analisi del fenomeno separatismo con l’anamnesi delle rappresentazioni collettive in quello che Clinton definì “il luogo più pericoloso del mondo”.
Linee di controllo, è un libro che riesce a stare in equilibrio sul confine che separa la ricerca etnografica, di cui Mestroni segue l’impostazione accademica e metodologica, e il saggio storico-politico, per la ricchezza di informazioni e analisi che fornisce, con una prospettiva intima che riesce in quello che spesso manca alla narrazione degli eventi storici: dare un volto ai conflitti.