13 Luglio 2019
Il libro dell’antropologa Alpa Shah, tra le fila dei guerriglieri naxaliti in India, una longeva storia di resistenza, ribellione e complessità
Marcia notturna è il prodotto di un’approfondita e coraggiosa ricerca sul campo, un testo avvincente, scritto (benissimo) in forma di reportage narrativo con l’espediente del racconto della lunga marcia percorsa dall’autrice con i guerriglieri maoisti.
Tra il 2008 e il 2010 l’antropologa Alpa Shah ha vissuto nella capitale rossa della guerriglia naxalita, il villaggio di Lalgaon, per una ricerca partecipata sugli adivasi, le comunità tribali indiane. Verso la fine del suo studio sul campo, l’autrice si è unita a un plotone di guerriglieri nella spedizione di 250 chilometri che li avrebbe condotti dallo stato del Bihar al vicino Jharkhand: unica donna, travestita da soldato, Alpa Shah ha marciato per sette notti al fianco dei naxaliti nelle fitte foreste dell’India centrale, proprio nel periodo in cui il governo indiano aveva deciso di schiacciare quella che considerava la “più grave minaccia alla sicurezza interna del paese”.
Uscito ad aprile con Meltemi e già selezionato per l’Orwell Prize, il libro è un documento unico, un racconto dal basso del movimento naxalita e della cultura adivasi, cui l’autrice da voce in un testo intimo e brillante, ricco di dettagli e dati di prima mano, tessuti in un racconto che restituisce un’immagine limpida e umana del movimento, dei meccanismi e le motivazioni economiche e sociali che spingono molti tribali a unirsi alle fila della guerriglia.
L’autrice, che insegna alla London School of Economics e si è occupata a lungo di povertà e diseguaglianze, fornisce al lettore un’analisi lucida e trasversale dell’India contemporanea, delle contraddizioni del capitalismo e della lotta armata contro lo Stato, visto come il veicolo di un modello di sviluppo indiscriminato.
Nel raccontare il movimento naxalita e gli ideali che hanno mosso tanti giovani a unirsi alla lotta, Shah analizza le zone d’ombra e l’incredibile resistenza di un movimento rivoluzionario armato di ispirazione maoista che sopravvive nelle foreste dell’India centrale da oltre 50 anni, nonostante la sempre più brutale repressione del governo.
L’eccezionalità della sua ricerca sta nel carattere schivo e isolato delle comunità adivasi, tra le più oppresse ed emarginate d’India, che risiedono ai margini delle foreste più remote del paese, lì dove si annida la guerriglia maoista.
Luoghi di guerra, blindati dalle forze di sicurezza, dove nessun giornalista o studioso esterno ha mai trascorso più di qualche giorno. Dal suo disincantato racconto del movimento naxalita e della sua base sociale trapela una conoscenza profonda della materia.
L’autrice fornisce un’analisi dal basso, che si interroga sui meccanismi di adesione, sulla violenza delle azioni di guerriglia e sulle dinamiche di potere che si instaurano nonostante l’egalitarietà del movimento.
Dalle parole di Gyanji, alto dirigente maoista che proviene da una famiglia abbiente e vive in clandestinità da oltre 20 anni, emergono i piccoli drammi umani, familiari, i compromessi della lotta armata e della vita alla macchia di un rivoluzionario di professione, sposato e con due figli, una sorta di “martire vivente”.
Alla fine degli anni ’60, ispirati dalla ribellione contadina di Naxalbari e dalla rivoluzione maoista in Cina, molti studenti indiani come Gyanji, politicizzati nelle università, abbandonarono l’agio delle proprie vite per unirsi alla lotta armata naxalita, che mirava a creare una società più giusta. Era l’equivalente indiano delle ribellioni del maggio francese nel ’68.
La rivolta di Naxalbari venne brutalmente schiacciata, ma il Partito Comunista Cinese dichiarò che “il fragore di un tuono di primavera era scoppiato sull’India”. Il racconto passa per gli anni 80’, quando la guerriglia maoista si diffuse nelle pianure agricole innescando feroci guerre di casta tra i contadini senza terra e i proprietari terrieri delle alte caste, per poi spostarsi nelle foreste dell’India centrale, dove i guerriglieri trovarono rifugio dalle forze di sicurezza e un territorio più adatto a sopravvivere in clandestinità.
Nella cultura egalitaria degli adivasi, restìa alle divisioni gerarchiche e di genere proprie della società patriarcale indiana, secondo l’antropologa, i maoisti trovarono un terreno fertile per diffondere la propria ideologia e reclutare nuove leve per proseguire la lotta armata. Dagli anni ‘90 in poi, con la liberalizzazione promossa dal governo in nome di uno sviluppo che avrebbe lasciato fuori milioni di persone e acuito le disuguaglianze, il movimento ha unito le sue rivendicazioni a quelle ambientaliste della società civile, che si opponeva alla privatizzazione e allo sfruttamento
economico di quelle terre ricche di risorse.
Dalle storie dei vari personaggi che l’autrice incontra – Kholi, l’umile “figlio della rivoluzione” che le fa da guardia del corpo; Prashant, nom de guerre del giovane mandriano che si è unito al movimento a soli 10 anni; Vikas, il comandante di plotone che finirà per riproporre le stesse dinamiche di casta e potere che il movimento cercava di combattere; Anuradha, che dice: “Le donne hanno bisogno della rivoluzione e la rivoluzione ha bisogno delle donne” – emergono le contraddizioni, i chiaroscuri e le fratture interne di un movimento che qualcuno definisce anacronistico ma che resiste da oltre 50 anni nel cuore dell’India con violente azioni di guerriglia.
L’autrice penetra la struttura del movimento e ne scruta le dinamiche riuscendo a spiegarne anche le pratiche più complesse, come quella del racket di protezione: l’auto- finanziamento tramite l’economia sommersa (la raccolta delle foglie di kendu, le attività di estrazione mineraria o la costruzione di strade) per accumulare capitali da investire nella lotta.
Al racconto della marcia – un raro e umanissimo scorcio sulla quotidianità dei guerriglieri maoisti, scevra della retorica e la propaganda del movimento – con le sue sfide quotidiane, i rischi e i momenti di condivisione, l’autrice intervalla i necessari riferimenti storici per inquadrare la questione in tutta la sua complessità ed estensione storica.
Qua e là, inserisce note autobiografiche che aiutano a capire cosa ha portato una giovane accademica nata a Nairobi da genitori indiani a tornare in quelle foreste, anni dopo aver finito il suo dottorato di ricerca sugli adivasi, per capire chi erano e cosa li spinge, tutt’oggi, a imbracciare le armi, unirsi alla guerriglia maoista e combattere lo stato.
Quello che ne deriva è un racconto crudo dal cuore della guerriglia rivoluzionaria indiana, uno spaccato intimo di una realtà troppo poco conosciuta, cui l’autrice da voce senza mai cadere in romanticismi. La narrazione della guerriglia naxalita in India è sempre stata divisa tra una lettura mainstream, che vede nei fautori della lotta armata dei terroristi che andrebbero schiacciati dalle forze di sicurezza e chi – una minoranza di intellettuali di sinistra – vede in questi rivoluzionari e nel movimento naxalita un avamposto di democrazia nella lotta contro il capitalismo, le caste e le diseguaglianze, col rischio di mistificarne alcuni aspetti.
L’analisi di Alpa Shah si libera dai vincoli di entrambe le narrazioni per guardare alla questione da diverse prospettive – dai capi ai soldati semplici – con occhio attento al complesso di motivazioni e aspirazioni (anche personali) che animano una delle insurrezioni più longeve al mondo. Marcia notturna è già una pietra miliare nella ricerca etnografica e nella bibliografia sulla guerriglia naxalita, un’analisi lucida e potente del movimento, delle dinamiche e delle problematiche interne ma anche dei rischi di un modello di sviluppo indiscriminato.