Non è ancora finita

di

11 Dicembre 2019

Intervista a Malalai Joya, tra Afghanistan, guerra e diritti

Figlia di uno studente di medicina, all’età di 4 anni – durante la guerra civile in Afghanistan – è stata costretta a rifugiarsi con la sua famiglia in un campo profughi in Iran e più tardi in Pakistan. Dopo il ritiro delle truppe sovietiche e i quattro lunghi anni di guerra civile, nel 1998 Malalai Joya rientra in Afghanistan, ancora sotto il regime talebano.

Considerata una delle principali attiviste nel campo della difesa dei diritti umani e delle donne, nel 2003 Malalai Joya, a soli 26 anni, fu eletta dai suoi concittadini come delegata alla Loya Jirga (Grande Assemblea) che doveva stilare la carta costituzionale del paese.

Malalai prese la parola e, in un coraggioso discorso divenuto poi celebre, denunciò i crimini dei ‘signori della guerra’ che controllavano, e ancora oggi controllano, la Loya Jirga e i posti di comando del paese. Da quel giorno Malalai vive sotto scorta, è oggetto di continue minacce di morte e ha già subito vari attentati.

Nonostante ciò continua il suo lavoro incontrando la sua gente in ogni provincia dell’Afghanistan e viaggiando in tutto il mondo per denunciare i soprusi che avvengono nel suo Paese. Per il suo coraggio e il suo costante impegno, Malalai Joya è considerata una delle principali attiviste nel campo della difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne.

[nota tratta dal sito di CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane Onlus)]

Malalai, del tuo prorompente intervento nella Loya Jirga del 2003 cosa resta nella politica afghana e cosa resta in te?

Credevo – credevamo – di portare certi assassini davanti alla Corte di Giustizia, purtroppo questi elementi son riusciti a prendere ancora maggior potere. Un antico proverbio afghano parla di lupi che si vestono da capre. S’attaglia benissimo alla classe politica che da decenni decide la sorte del Paese e della sua gente.

Le donne, le attiviste, le giovani Malalai oggi come si sentono?

Per fortuna non mancano. Mancano i mezzi, gli appoggi interni e internazionali. I problemi sono tanti, innanzitutto il livello di sicurezza, quindi il sostegno economico. Negli ultimi tempi è apparso anche un attivismo legato ai social media che spesso cade nella trappola dell’individualismo e dell’autoreferenzialità. Costoro, prevalentemente giovani, risentono delle mode, diventano influencer nel senso deteriore del termine, poiché più che svegliare coscienze le sostituiscono e pensano solo alla propria posizione nella società. Viaggiano fra la celebrazione di sé e il piccolo potere da raggiungere. Sono persone che finiscono facilmente a servire il grande potere.

In altre situazioni pur devastate del Medio Oriente la gente si ribella, perché da voi non accade?

Prima delle Primavere arabe, abbiamo avuto anche noi cortei e manifestazioni. E’ finita in massacri. La popolazione, già segnata dai lutti della guerra civile degli anni Novanta, è immediatamente riparata nella nicchia privata. Una nicchia, purtroppo, disperata. La tendenza vista negli ultimi anni è una minore attenzione alla vita politica, ogni famiglia cerca di sopravvivere in un contesto che s’è fatto terribile. La maggioranza delle persone è povera, l’educazione e l’istruzione sono concetti irraggiungibili, perciò non s’interessano di attivismo. Quest’ultimo può rinfocolarsi solo grazie a una maggiore cultura che insegna a uscire da orizzonti minimi e soggettivi, a essere ottimisti, ad agire collettivamente.

E in un orizzonte bloccato quant’è la speranza e quanta la rassegnazione?

Tenere accesa la speranza è difficile, trasformarla in realtà è complesso. Non abbiamo solo un problema, siamo invasi da cento, mille problemi. Con le superpotenze che ci opprimono, con la politica interna, coi vicini concorrenti, con quelli che puntano all’ingerenza nella vita afghana, con la classe media che serve il potere. I nostri intellettuali cercano padroni, lavorano esclusivamente per loro. Eppure vedo barlumi di speranza. Recentemente ho conosciuto un uomo che quotidianamente, dal villaggio dove vive nelle strade impervie della provincia dove girano anche talebani, s’accolla il rischio di portare con la sua motocicletta le due figlie a studiare in città. Si augura che le ragazze possano diventare medico, così da aiutare anche la sua comunità che è priva di quest’indispensabile figura professionale. Un anno fa è diventata virale sui social l’immagine d’una donna che svolgeva l’esame d’ingresso all’università mentre allattava il proprio neonato. Egualmente aveva lasciato il segno l’attacco terroristico compiuto contro un centro di Kabul che preparava gli studenti per le prove d’ingresso all’università. L’attentato fece secondo il governo cinquanta vittime, noi pensiamo siano state molte di più. Ma ciò che mi apre il cuore è che quel centro, chiuso per alcuni mesi, ha riavviato i corsi ed è pieno di studenti che non si mostrano intimoriti. Questo è l’Afghanistan che resiste allo Stato della paura.

Invece la fuga dei giovani afghani in Occidente è una resa o l’unica salvezza?

Ultimamente il numero dei migranti è cresciuto per la nota mancanza di sicurezza e l’evidente fallimento del modello imposto con l’occupazione militare Nato. In genere si tratta di ragazzi, mediamente istruiti che cercano un domani altrove. Chi non riesce a fuggire e non sa darsi una ragione del nostro nero orizzonte arriva a togliersi la vita: i suicidi sono in aumento, come lo è il consumo di oppiacei, introdotti dai grandi trafficanti anche nel mercato interno a prezzi stracciati. Un fenomeno rivolto non all’economia, ma all’ideologia: un’ideologia della distruzione che va di pari passo con quella del terrore.

E’ una fuga tutta al maschile…

In genere è così. Pesano le tradizioni, la società patriarcale, il pashtunwali.

Nel maschilismo della società afghana quanto incide l’aspetto religioso e quanto altro?

Religione e cultura contribuiscono a conservare quest’idea di società chiusa e arretrata. Però esistono tanti interessi di chi lavora per il potere, dall’intellighenzia della geopolitica internazionale, a quegli intellettuali afghani di cui parlavo che per sopravvivere in casa propria hanno scelto di servire il fondamentalismo oppure il falso modello occidentale che, come abbiamo visto con le amministrazioni di Kharzai e Ghani, preserva  l’estremismo antifemminile. La Storia si ripete. L’Afghanistan del 1920 ebbe in Amanullah un sovrano riformista e illuminato, la Gran Bretagna spinse sui sentimenti più tradizionalisti e retrivi del tribalismo locale per emarginarlo e chiudere quelle aperture. Quella divisione fra progressisti e reazionari (non importa se laici o clericali) s’è protratta nel tempo, dura da un secolo. E chi oggi interviene dall’esterno nel nostro Paese percorre la medesima strada. C’è stata, da parte di taluni pseudo intellettuali, una manipolazione del concetto di secolarismo. L’hanno contrapposto allo spirito religioso in cui molta gente si riconosce, così da dipingerlo come una sorta di blasfemìa e proseguire il controllo sulla mente e l’operato della popolazione, maschile e femminile.

Nei movimenti progressisti afghani che frequenti le donne hanno un ruolo d’avanguardia, con gli attivisti uomini c’è parità di genere?

Abbiamo avuto tanti esempi nel nostro movimento, non solo la fondatrice di Rawa Meena Keshwar Kamal che aveva uno splendido rapporto col compagno e marito. Il mio stesso nome riprende quello d’una figura mitica della resistenza afghana all’invasione inglese, poi penso alle compagne con cui sono cresciuta e a coloro che proseguono questa lotta. Un impegno realizzato al fianco di uomini, nella vita privata e pubblica. Certo, con tutte le difficoltà dell’esistenza in un ambiente dove l’integralismo politico è pressante e aggressivo.

Alcune realtà mediorientali, penso ai kurdi, ritengono vitale questo tema per perseguire trasformazioni politiche e sociali

Sì, è la strada giusta, perché la Rivoluzione con la maiuscola ha bisogno di idee e fatti concreti. Nella società afghana il paternalismo produce la subordinazione femminile all’uomo ed è il frutto del tradizionalismo patriarcale. Ciò che noi indichiamo e mostriamo è una trasformazione dei comportamenti e dei costumi; nelle nostre strutture, nella nostra vita lo teorizziamo e lo applichiamo. Personalmente riesco a vivere, e come me tante attiviste afghane vivono, grazie al contributo dei compagni che ci affiancano nei ruoli più vari. C’è una sola ombra che non nascondo. Ultimamente nel reclutamento di nuovi militanti vedo un aspetto un po’ preoccupante: parecchi giovani uomini ripiegano nel soggettivismo, sfilandosi dall’impegno e rifugiandosi nell’individualismo che è l’anticamera della subalternità.